giovedì 26 aprile 2018

Vanina Zaccaria legge "La parola detta" di Stefania Di Lino (La Vita Felice 2018)

La Teogonia dello spirito di Stefania Di Lino
Il battesimo della parola
di Vanina Zaccaria

Quando si offre ascolto alla parola altrui, all’intima vocazione che diviene lettera scritta e, dunque, corpo del pensiero, bisogna conservarsi sensibili e attenti all’offerta esistenziale che quella parola contiene, alla vicenda umana che si sforza di trasmettere e della quale rappresenta la sintesi altissima, l’irriducibile e personale epos di chi è impegnato nell’atto dell’esistere.
È in questa maniera umanissima che si dovrebbe leggere La parola detta (La vita felice, 2017) della poetessa Stefania Di Lino, che si concede al mondo con vigore e verità.
L’opera poetica s’apre come una splendida Teogonia e procede con la forza narrativa di un poema delle origini; del poema esiodeo conserva la persistenza del grandioso, difatti, anche quando si fa cupa e grave nella narrazione, la Di Lino proclama il mondo con una parola elevata e solenne, intimamente impegnata a testimoniare l’epopea umana. La parola detta è anche racconto che si porta all’inizio delle cose, che tenta di andare alle origini del sentimento e del dolore dell’esserci al mondo e capace di contenere, dunque, le notizie di una genesi e la tensione di un annuncio.
L’eroe fondatore che narra le sue imprese è il poeta stesso, la vicenda intera contenuta ne La parola detta è la narrazione del narratore e del suo dono tremendo, la parola.
Rimanendo nella nobile cornice di una grecità che tutti ci lega alla stessa radice originaria, va ricordato quanto nello spirito esiodeo il poeta assista la creazione e presieda all’ordine che lentamente si conquista; ogni teogonia è opera della conquista del mondo nel senso di una sua traduzione in un ordine simbolico comprensibile, anche quando quest’ordine storico viene celato nella metastoria del mito e delle azioni delle potenze numinose. Il poeta tragico, invece, assiste l’uomo nel travaglio, si sgomenta al cospetto di un ordine mai immediatamente decifrabile, la tragedia è difatti opera della frattura e della scomposizione.
Nel lavoro poetico della Di Lino sussistono e convivono l’annuncio dell’esserci al mondo, una disposizione d’animo e narrativa tesa a rintracciare il criterio regolatore delle cose e lo sgomento tragico dell’impossibilità di compiere siffatto esercizio. Tale umano sgomento non si misura però al cospetto del dio e della sua volontà remota, ma al cospetto della vita stessa che diviene, nelle sue manifestazioni storiche, il titano cannibale, il terribile Crono che divora i suoi figli; la parola e le intenzioni della Di Lino restano fedeli alle miserie umane, alle minute vicende di ogni esistenza e la vita  viene narrata nella sua indecifrabilità storica e culturale, sempre mancate e irrisolta sul versante spirituale.

le distanze i perimetri/ le angolazioni / il goniometro giusto per la misurazione / e poi il metro lineare / quadro o cubico / il rapporto in scala / (di Policleto la proporzione) / la sezione aurea e non ultima / l’ispirazione. // La distanza utopica che avanza all’orizzonte / con quel punto di fuga a latere o a fronte //
tutto mi disorienta / tutto è mancanza,

Lo smarrimento dinanzi ai codici comuni e all’ordine che vogliono trattenere, sembra accennare a qualcosa di  ancora più radicale: quella che viene narrata è la genesi del dolore, intesa come racconto dei luoghi in cui esso esordisce e inaugura le personali e infinite battaglie; i luoghi  dell’attesa, dell’abbandono e del fallimento, che sempre testimoniano dello scarto tragico tra quello che volevamo compiere e quello che invece ci ha compiuto. Qui la frattura tremenda, il confine tra l’essere soggetti della nostra vicenda e l’esserne assoggettati; si tratta di quella crudeltà del caso che la Di Lino racconta senza fingimento e che diviene causa comune di travaglio, lamento collettivo che l’autrice canta per mantenersi vicina alle sorti universali. In questo La parola detta è teogonia dello spirito, perché contiene l’incipit delle sorti collettive e a quelle si rivolge con infinita grazia; sembra quasi che il “porto sepolto” della Di Lino sia il posto in cui convergono tutti i dolori e le umane fatiche e che il suo inesauribile segreto di scrittrice sia tutto in quella pietà storica verso il fratello uomo, dipinto sapientemente come un Cristo incerto e caduco, anche se si mantiene  nobile il suo passo che misura e scrive la terra.

le genti non appartengono mai /a un solo posto / mille latitudini attraversano / che fanno la storia / e longitudini / da cui pure sono attraversate / e aperte sezionate a metà / la testa spesso è proiettata a Nord / mentre il resto del corpo rimane a Sud / le braccia invece di aprono / quando a Est quando a Ovest / ma è solo col le scie disperate lasciate dal loro passo compasso / che si ha l’esatta misura del mondo,

Questa narrazione tragica però non langue in se stessa, emerge a tratti l’amore come categoria dello spirito; l’amore è il vero annuncio, l’unica possibile buona novella che rende futuribile il futuro e sembra comporre ciò che è scomposto in nuove tenere forme. Se il dolore è un codice storico, l’amore sembra commerciare con le costruzioni cosmiche e le trame globali della natura, divenendo quasi sapere nomotetico da cui dedurre le leggi universali; questa straordinaria conversione dell’ordine storico in ordine naturale, rende il corpo che ama antico e mai vecchio, sempre in attesa del prodigio della creazione.

da dove arrivano poi quelle mani / che presero a scavare lo sguardo / disarmato di un bambino / a soverchiarne la magia / a spogliare l’infanzia / dall’albero luminoso / delle sue epifanie / per trovare l'insano nutrimento di un morto? // Ed io che ti pensavo lieve tra i miei fianchi / a prenderti del giorno / ogni angolo di sole /a giocare sferico nell’acqua / tu che conosciuto eri / della stessa conoscenza che ha l’albero di radici e foglie / e di cromosomi antichi e di gameti / tu che conosciuto eri / eppure nuovo arrivavi / già chiamato / navigando lieve tra i miei fianchi / attraversando muto nell’ombra / ere e maree / tu riuscivi navigando / a risalire col sangue la mia aorta / a sederti sotto il mio ombelico / raccolto / tu / che mi guizzavi dentro / argenteo pesciolino / tu che ora affronti il mondo / con le mani di un pianista / e gli occhi scuri / furiosi di tuo padre.

Va infine detto quanto, in questo ampio e complesso teatro diretto dalla Di Lino, la parola abbia un ruolo centrale e irriducibile. Essa è l’operazione della presenza umana che si fa presente e si annuncia nel mondo iniziando a fondare la storia; è l’operazione culturale, per entro un ordine naturale, che permette all’uomo di narrare la sua vicenda, è l’artificio creativo e rivelativo umano. Se, dunque, il mondo per esistere ha bisogno di essere pronunciato, la parola stessa è battesimo. Abbiamo bisogno, difatti, di un suono per esistere, del verso primordiale della madre che ci annuncia; così la Di Lino in una preziosa lirica dedicata al figlio Edoardo, sembra estrarlo dalla carne pronunciando il suo nome e pronunciandolo lo chiama in vita, lo decide tra i vivi, lo mette al mondo come materia e come spirito, lo concepisce come nuova genetica e nuovo pensiero. Di questa operazione di chiamare in vita le cose del mondo è ricca l’intera opera della Di Lino, votata a una parola abbondante, che si impegna a magnificare il dettaglio, che si preferisce gravida, ricercata e complessa perché è parola detta e in questo terribilmente più fragile della parola taciuta, in quanto esposta al rischio della compromissione e della caduta.  Nel raccontare la genesi delle umane fatiche la Di Lino mantiene un atteggiamento quasi sacrale, tutto espresso nel suo dire prezioso, il dire di chi si impegna a rinvenire il nome delle cose per mantenerle in vita nella storia.

e s’apre un’intera notte nello spazio della mia fronte

Il poeta conserva in sé / un’antica tragedia / di cui ancora non conosce i versi

martedì 24 aprile 2018

Dante Maffia legge "Amore senza fine" di Claribel Alegria (Ed. Fili d'Aquilone 2018)


Bastano i versi sul quarto di copertina per attrarre l’attenzione seria di un lettore: “Un tempo / fui il tuo pianeta / ora sono un satellite / inondo il vento / di poesie / che lui si porta nello zaino / insieme alle foglie appassite”.

Lirismo di altissima qualità, che si raggiunge solo se dentro si ha la valanga di un sentire acuto che cerca i legami con l’imponderabile e sa che tuttavia poi ci sarà la dissolvenza, che non è perdita, ma seme che si trasferisce in un altrove riservato agli eletti.

Questo “Amore senza fine” è un libro di grande raffinatezza per una serie di motivi: innanzi tutto per la sensibilità  di saper cogliere momenti delicati, trame sottili dell’anima, momenti irripetibili del senso del vivere e del morire, cioè dell’amare intensamente e vivamente, nella significanza più antica e più tenera. Poi per il “come” sono espressi i sentimenti. È nota l’affermazione di Oscar Wilde, “non esistono libri belli o libri brutti, ma libri scritti bene o scritti male”, ed è chiaro che quando si fa riferimento allo scrivere bene e allo scrivere male non è soltanto una considerazione di carattere puramente estetico. Le implicazioni corrono in varie direzioni e stabiliscono parametri che danno la certezza di essere nella compiutezza espressiva realizzata.


Chi volesse entrare con pienezza e profondamente dentro le viscere segrete di questo libro deve assolutamente farsi guidare dallo studio introduttivo di Martha L. Canfield che ha saputo cogliere anche le sfumature più sottili di una poesia che è giocata spesso su equilibri sottili e perfino su riflessi e accenni. Credo che la Canfield sia stata una interprete che ha voluto assolutamente rispettare la “concretezza di un profumo”, come direbbe il poeta, per porgere a noi lettori un “tempio” di misure arcaiche modernizzate e rese alla portata di un ritmo nuovo pur nel rispetto del mondo primigenio. Lavoro simile, ma con un corpo a corpo rilevante e davvero straordinariamente riuscito è stato quello di Zingonia Zingone. Proprio perché lo spagnolo e l’italiano sono lingue sorelle gli agguati sono maggiori. Eppure la sostanza lirica e il pensiero di Claribel non vengono distorti e trovano anzi una cadenza legata indissolubilmente all’originale.

Dettagli, questi, per far comprendere che non è stato facile offrire in italiano una voce così aperta e corroborata di sprazzi infinitesimali di luce, di minuzie ma solo apparentemente tali, di allusioni, di rimandi, di discese rapide nei meandri della psiche per poi “rinascere” con parola nuova, con abiti confezionati dalla luna o dal vento.

Claribel Alegrìa non finge mai, non copre le emozioni e non svicola dinanzi a nulla. Credo che una scena come quella della scoperta del sesso da lei descritta in qualsiasi  altra poetessa avrebbe preso una piega kafkiana, per fare un solo esempio. Lei invece riesce a tesserci la “fabula” e porta tutto in un’atmosfera diabolicamente e celestialmente mitologica.

Un libro di questa portata dovrebbe essere conosciuto in tutto il mondo, perché  è un viaggio dentro le tempeste e le carezze dell’amore, ma poi perché ci dà della donna il senso primo e ultimo della sua permanenza nel creato.
Per ragioni molto diverse, ma altrettanto violentemente aperte alla verità, Claribel ci fa pensare alla Marina Cvetaeva: stessa libertà, stesso dolore e stessa gioia rapida, passeggera, stessa vitalità dolorosa. Ma siamo in un contesto diversissimo e dunque è solo una impressione, forse dovuta alla potenza espressiva, che mi ha fatto pensare a lei.

Ma il pregio più straordinario del libro è il linguaggio che, pur restando saldamente legato alla grande tradizione ispano americana, tracima i luoghi comuni, cancella le esuberanze, non so, nerudiane, e si assesta su una trama sottile di espressività che sa andare al dunque senza ridondanze, senza barocchismi, senza toni aulici.
Insomma, una grande poetessa, una voce densa e forte che lascia tracce indelebili nell’animo di chi la legge: “Voglio seminare parole / parole che assaltino la poesia / e la facciano parlare / e la infiammino. / Parole inospitali / e parole ospitali / parole che sorridono / e picchiano / scoppiano / e rimbalzano”.

DANTE MAFFIA


Claribel Isabel Alegría Vides, nota semplicemente come Claribel Alegría (Estelí, 12 maggio 1924 - Managua, 25 gennaio 2018), è stata una poetessa, giornalista e scrittrice nicaraguense autrice anche di alcuni saggi, considerata con la connazionale Gioconda Belli la maggiore esponente della Letteratura del Centro America e ritenuta candidata per il Premio Nobel per la Letteratura 2016.

Nel 1943 si trasferì negli Stati Uniti per studiare e nel 1948 ricevette il B.A. (Bachelor of Arts), cioè la laurea, in Filosofia e Letteratura alla prestigiosa George Washington University di Washington D.C.. Tornata in Patria, legandosi al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, d'ispirazione marxista, fu coinvolta nelle proteste nonviolente contro la dittatura del Presidente Anastasio Somoza Debayle. Nel 1979 Somoza Debayle cadde e il Fronte prese il potere in Nicaragua, ma l'Alegría, che nel frattempo aveva iniziato la propria carriera di poetessa, scrittrice, giornalista e saggista, decise di tornarvi solo nel 1985, cioè quando Daniel Ortega, dirigente militare del Fronte, divenne Presidente.  Poetessa severa e critica, a volte pessimista, in un classico umore mutevole come mutevole è la situazione politica del Centro America, usa nelle sue poesie il linguaggio comune, del popolo, e spesso una sua composizione non supera la decina di versi. Ha scritto anche romanzi, racconti e storie per bambini. Nel 1978 ha ricevuto a Cuba il Premio Casa de las Américas, il più prestigioso riconoscimento letterario del Centro America, il Neustadt International Prize for Literature, conferitole dall'Università dell'Oklahoma nel 2006, il Premio Regina Sofia di poesia ibero-americana a Madrid nel 2017 e il dottorato honoris causa nel 1998 all'Eastern Connecticut State University e nel 2005 all'Università di León. In Italia è stata insignita della commenda dell'Ordine della Stella della Solidarietà Italiana nel 2010 e ha vinto il premio internazionale del Premio Camaiore nel 2016.

martedì 17 aprile 2018

Rita Pacilio legge "Nuove nomenclature e altre poesie" di Anna Maria Curci (L'arcolaio 2015)

Il libro Nuove nomenclature e altre poesie di Anna Maria Curci (L’arcolaio, 2015) non lascia sfuggire la lezione dell’autrice sul linguaggio usando un tono di voce che stupisce il lettore, perché comporta due modalità di comunicazione che, spesso, è difficile controllare simultaneamente. Infatti, l’autrice, padrona della parola poetica, è molto attenta a soffermarsi sulla formulazione della forma estetica ed è abile maestra del contenuto etico al fine di offrire pagine che rivelino autentici sentimenti applicabili alla ricerca della verità e alla decodificazione della realtà. Luoghi, convenzioni, tempo, aspetti generali della quotidianità, oggetti, sono requisiti utili per fornire ulteriori informazioni al significante passando in rassegna dettagli e contrappunti alle regole.
Se le parti del libro (sei sezioni: Nuove nomenclatureStaffettaSettenari sparsiDodici distici del disincantoDistici del doposcuola e Canti del silenzio) registrano osservazioni che alle cose e ai gesti corrispondono interpretazioni di scene sensoriali e, a volte, ironiche, è anche vero che sono facilmente individuabili i risvolti contraddittori appartenenti alla contemporaneità. Quindi, è importante cogliere il ricordo e la memoria in maniera trasparente e audace come canali comunicativi rivelatori della storia. Una studiosa come la Curci, pertanto, non tralascia la significatività degli indizi storici e letterari, soprattutto tedeschi, per progettare una vita morale soddisfacente grazie allo smascheramento degli inganni che, forse e inconsciamente, contaminano l’intelligenza sociale. Tutto questo componendo analogie creative e utilizzando metrica e ritmo: quartine, settenari, ottonari, rime alternate o nascoste, distici,  sonetti, endecasillabi, doppi settenari. Una combinazione che potrebbe appassionare chi è interessato allo studio scientifico della creatività.
Rita Pacilio 

Undici settembre
 
Acquerello di Klee, tu guardi ancora.
Su ricorrenze amplificate taci.
Dipani la matassa dell'oblio.
 
Arrotolato e stretto, unico sei
rimasto folle antidoto alla fuga,
azzardo e rischio sul confine ispano.
 A quale dei Santiago ti rivolgi?
Sguardo sollevi e immemori soccorri
al manifesto undici settembre.

 Rosso Azerbaigian
Se raccogli le cocche dell’abito
rincorso tra banchi vecchi di città
e ti disseti assorta e scosti piano
i capelli, pianto sospendi e acquieti.

Preludio
Ascolta, nell’attesa, come vuoi:
mano appoggiata al mento ed occhi chiusi
oppure spalancati e testa alta.
 
Ascolta, non fuggire, non temere
presa rapida o lenta gestazione
del vento muto che avvolge e sospinge.
 
Ascolta, prendi il ritmo e cogli nota.
Ricostruisci la tua partitura:
è proprio quella che appare distante.

Ascolta e frena il piede impaziente
la nocca che si tende e il naso ostile.
Non ignorare i canti dal silenzio.

 

Anna Maria Curci è nata a Roma, dove vive e insegna lingua e letteratura tedesca. Suoi testi sono apparsi in riviste, in antologie e su lit-blog. Con Fabio Michieli condivide il ruolo di caporedattore del blog letterario“Poetarum Silva”; è nella redazione della rivista trimestrale “Periferie” e del sito “Ticonzero”. Ha pubblicato in rete traduzioni da testi di diversi autori, prevalentemente di lingua tedesca. Sono pubblicate in volume dalla casa editrice Del Vecchio sue traduzioni di poesie da: Lutz Seiler, La domenica pensavo a Dio / Sonntags dachte ich an Gott (2012), del romanzo Johanna di Felicitas Hoppe (2014), di poesie da: Hilde Domin, Il coltello che ricorda (2016). Per le edizioni Canopo ha tradotto il racconto dI fortunelli di Felicitas Hoppe. Sue sono le raccolte di poesia: Inciampi e marcapiano (LietoColle 2011), Nuove nomenclature e altre poesie (L’arcolaio 2015).


 

martedì 10 aprile 2018

Perché bisogna leggere Gabriele Galloni di Luca Perrone - saggio su "In che luce cadranno" (RPLibri 2018)

Immagino Gabriele Galloni rapito dalla contemplazione del teschio esposto sulla sua scrivania sgombra e spartana. Lo vedo assorto in profonde meditazioni come un illuminato del diciottesimo secolo.
Poi lo so fuori dal tempo e dallo spazio, a dissezionare la banalità del reale fino a distillarne lo zero (pag. 22).
La critica lo inserisce con ragione nella tradizione lirica. Ciò che pensano e non osano dire è che il Galloni di “In che luce cadranno” è epifania poetica uguale a quella del William Blake di “The marriage of Heaven and Hell” e dell’Arthur Rimbaud di “Une saison en enfer”.
Si tratta quindi di poesia non inscrivibile in alcuna tradizione, potremmo chiamarla innovazione ma ritengo sarebbe scorretto. La poesia non è ammalata di quantità, non progredisce, non raggiunge, non supera, non persegue. La poesia è rito di pochi istanti che disvela attraverso le allusioni, squarcia l’afa del deserto e deifica l’allucinazione degli assetati, per mezzo dell’antropomorfizzazione.
Poesia potrebbe essere espressione estetica di gratitudine per l’autocoscienza, sicuramente celebra le sensazioni.
Nel tempo grigio del regno della ragione difende i sensi dall’atrofia.
Gabriele Galloni scrive versi psicotropi.
Ho letto la sua seconda silloge senza perdere il sapore intenso di alcun fonema, rileggevo un distico perfetto e il suo sapore s’intensificava. Lasciavo che dai lombi salisse al cervello il flash dell’intuizione, quando coglievo l’estrema complessità dei giochi semantici mascherati da guizzi spontanei d’immediata intellegibilità.
La semplicità è il comune denominatore d’ogni forma d’arte e Galloni ne è maestro. Egli è riuscito a realizzare un capolavoro privo di sbavature senza necessitare della quiete o della forma di riflessione che comporta l’età matura.
Si deve escludere che fra i suoi versi ne vivano molti che non siano stati laboriosamente cesellati dopo la prima stesura, sono portato a pensare che esistano lemmi scartati sufficienti ad approntare un’altra silloge, ogni poesia è una goccia d’assenzio.
Federico Dragogna, discreto paroliere della rock band I Ministri, appartenente alla generazione precedente a quella di Gabriele, nel secondo distico di “Segui la pista anarchica” scrive “dio ha quattordici anni e non è/neanche il suo vero nome”.
Questi versi sono per me oggetto di riconoscimento platonico e spero che Dragogna abbia avuto occasione di scoprire che l’Imperatore ha ventitré anni e si chiama Gabriele Galloni.
Nell’universo che abito insieme a Dragogna e Galloni non c’è bisogno di figure di riferimento, di contratto sociale o stupide leggi.
Nel nostro universo gli artisti hanno ereditato la terra e fra i vivi muoiono e vivono i morti. Quei morti che hanno eletto a cantore e disvelatore il poeta più talentuoso e geniale. Se un filosofo poeta persegue immagini ricavate da prospettiva conquistata sub specie aeternitatis, Gabriele Galloni ha poetato l’infinità, l’universalità, l’uguaglianza, senza la confusione generata dalla distrazione causata dallo spreco d’energie profuse nel comprendere e criticare ciò che è quotidiano e banale, per quanto ingiusto ed eternamente rorido.
Le trentotto poesie che costituiscono la silloge sono altrettante attribuzioni di vita ai morti, che muoiono ancora e festeggiano riti funebri. Il sentimento predominante è il sublime.
Dato l’argomento ci si aspetterebbe più gotico, macabro, lugubre, ci si aspetterebbero la mestizia, la malinconia e il grottesco, quest’ultimo è presente in pochissimi camei delicati e diafani, poiché non esiste il genio senza tentazione d’ironia o sarcasmo. Penso ai morti che è normale vederli a volto coperto passare/ dal corridoio al bagno alla cucina, ultimo distico della poesia di pag. 11 che amerei stuprare con un’analisi dettagliata e approfondita.
Galloni non ha ceduto e nemmeno è stato sfiorato per un istante dall’idea di affrontare i morti col taglio disperato e scuro dell’immenso Novalis, per esempio. Non appartiene alla banalità.
Il poeta non ha bisogno d’uno Psicopompo che lo conduca alla scoperta di (qualsiasi fiume) ove si trovino I più frivoli tra i morti (pag. 39), il arrive à l'inconnu ma senza perdre l'intelligence de ses visions.
A Le suprême Savant in questione per il momento sono state risparmiate toutes les formes […]de folie, così ricorrenti nell’esplorazione della tradizione estatica; gli auguriamo che la vita conservi la sua coscienza meravigliosa.
La prova tangibile, il risultato della ricerca di Gabriele Galloni, risiede nella poesia seguente, viene estratta da una scatola (elezione lessicale perfetta, a prova del Faber di Amico fragile):
 
Dentro la scatola c’è un flauto d’osso.
Tra pochi giorni ritornerà cenere
E i morti se lo soffieranno addosso
Correndo intorno a un lumicino blu.
 
Poi la tenerezza commuovente dei versi che seguono, in cui tutta la produzione d’un Giovanni Pascoli a caso non è che il sassolino d’arredo d’un acquario delle dimensioni della somma degli oceani:
 
Se la madre dei morti è sempre polvere,
i morti cercano la loro madre
ogni sabato sera sulle spiagge
libere; sotto le sedie o nei gelati
 
caduti di mano ai ragazzini
in chissà quante estati, in chissà quanti
 
alberghi, marciapiedi, lungomari.
 
La licenza ermeneutica mi tenterebbe a raccontare cosa vedo quando sento “In che luce cadranno”. Stiamo parlando di poesia però, di preghiera, il verso d’un poeta ispirato l’unico dogma che riconosco e rispetto. Stiamo parlando di Poesia.
 
Luca Perrone
 
Gabriele Galloni è nato a Roma nel 1995. Esordisce nel 2017 con la silloge di versi Slittamenti (Augh! edizioni). Segue, a inizio 2018, In che luce cadranno (RPlibri)
Autore, per il sito Pangea, della rubrica Cronache dalla fine. Dodici conversazioni con altrettanti malati terminali.