domenica 9 giugno 2019

Letture Condivise a cura di Marvi del Pozzo: tre poesie di Fulvio Ferrero


L’autore che vi presento oggi è Fulvio  Ferrero, chimico in una multinazionale per cui ha lavorato in Italia e per vari anni anche all’estero, soprattutto in Francia e America. Sposato con due figli ed un cane, per trent’anni ha praticato la scherma agonistica; amante della montagna più rude, escursionista, scalatore, adora la natura di alta montagna di cui conosce  e studia flora e fauna con esperienza quasi professionistica.
La poesia è un amore fin dalla prima giovinezza; per lui è un cantiere aperto: scrive, riscrive, modifica di continuo. Forse per questo motivo, nonostante la vittoria in concorsi poetici ed il successo di sue pubblicazioni in plaquette, non ha mai pensato – fino ad ora – ad una seria, sistematica stampa. Come potrebbe continuare a modificare nel  tempo un’opera resa codificata organicamente su carta stampata? Ciò che è fissato trova un limite, si fossilizza nella staticità; la poesia per lui è vita, è movimento, scoperta sempre nuova, è gioco di creazione e di confronto, è proprio e sempre un work in progress. Tale è uno dei pensieri dominanti di Fulvio e, se non siamo in totale accordo con questo suo concetto, peggio per noi!

Vi propongo oggi tre sue poesie di argomento ampio e assai diversificato, anche se l’ambiente rimane lo stesso, cioè la montagna che ama e che ha visto dipanare e svolgersi tanta parte della sua vita. Sono testi modificati di continuo anche questi: oggi hanno la stesura che vi  propongo, solo perché per il momento risulta la più aderente al pensiero dell’autore.
E’ una poesia ardua, difficoltosa, talora persino criptica per continui riferimenti culturali ad altri poeti, antichi e moderni, suoi maestri di scrittura e di vita, ma  che risulta oscura anche per accenni, inconoscibili per il lettore, alla sua biografia, cosa che può creare ulteriori perplessità o difficoltà di comprensione in chi legge. Per ovviarvi, ho deciso di interrogare l’autore di persona, interpellandolo sui passi a me più ostici.
Vi propongo quindi le tre poesie una alla volta, prima il testo poi le note esplicative dell’autore, così tutto risulterà più chiaro. Il risultato, come vedrete, è una poesia suggestiva e sapiente che si snoda, a partire dalla montagna amata, attraverso la storia di un’umanità montanara, ove l’uomo singolo è stato ed è carnefice e vittima, protagonista e gregario, talora delle macrostorie, più spesso delle microstorie di generazioni intere.
All’ombra delle stesse cime, delle stesse fonti d’acqua, delle stesse distese di erbe e di boschi, tutti imperturbabili osservatori naturali delle umane vicende, siamo condotti ad emozionarci ed a riflettere sulle sorti di chi ha vissuto, come noi, prima di noi, le stesse nostre domande esistenziali, gli stessi momenti di felicità in seno alla natura, ha come noi versato lacrime per fame, isolamento, abbandono, guerre, decadenza fisica e morale di persone e luoghi.

Zendefol Graffiti

1866 B. m. δ ,
Incisi il mio  tempo
qui, nella scabra dimora,
spiovente grigio di lose,
quattro confini di mura,
pietra su pietra,  la forra al vento,

qui devi vivere, fra boschi e rupi,
colpi d’ascia,  stridori  ,

                scricchiolii, schianti aperti i varchi,
 percossi da venti folli,
gli alberi, le case crescono e cadono.

L’ occhio  rovista i segni,
porte senza porte,
travi  torturate, scompigliate,
spogliate sul letto di foglie,
covo di refoli  e di verri.

        Villa dei sogni”  laccata dai  writers,
 quinta aperta, una vita viene incontro.
Di botto,
nel sentiero senz’ echi, senz’ orme,
senza canti dì uccelli.

   “mille radici e mille rami  ebbero la pena che io soffro”
I. N . Griparis

Nota
Zendefol graffiti (1866 B m δ) dal nome del luogo: “Il campo del folle” (forse il vento).
 Dopo 35 anni, tornai per fotografare la grangia, dai muri in parte diroccati. Era rifugio dopo le fatiche dei taglialegna della valle ed anche di bergamaschi.  Sinora, non sono riuscito a sapere chi la costruì,  nel 1866, né chi, in seguito, battezzò  le sue pietre “Villa dei sogni”.
Grange, muri a secco di mulattiere stanno crollando, come pure il ricordo della genti che li hanno innalzati e percorsi.

La spiegazione di Fulvio
In Val di Susa, sotto al valico del Moncenisio, a Novalesa c’è la nostra casa ereditata dai nonni di mia moglie Franca. Attraversando in solitario pellegrinare boschi di castani e di faggi, scoprii questa baita, forse rifugio di taglialegna, forse di partigiani durante la guerra.
Dopo trentacinque anni tornai per fotografare la grangia: ormai non c’era più sentiero. Ora il posto è sempre più impervio, si arriva attraversando rocce. C’è un abbandono totale: grange, muri a secco di mulattiere, stanno crollando come pure il ricordo delle genti che li hanno innalzati e percorsi. Nessuno in paese ha saputo dire chi costruì la baita nel 1866, chi scolpì la scritta ZENDEFOL, cioè “campo del folle”, ove probabilmente il folle è il vento che scuote impetuoso la montagna. Villa dei sogni è una scritta in vernice nera molto posteriore, dovuta a qualche visitatore sconosciuto. La citazione è di I. N. Griparis, poeta greco della prima metà del Novecento, dai toni tra il crepuscolare, la tradizione del teatro greco romantico e le correnti del simbolismo e del parnassianesimo presenti in Grecia nei primi decenni del secolo XX.
Il senso  della poesia mi è stato suggerito da Eliot: è suo il concetto che le case crescono, cadono, fino a finire in cumuli di rovine. Forse non dovrebbe esserci rimpianto per la vita dura di allora, ma io vi aggiungo il pensiero e la pena perché il tempo distrugge cose e persone, finisce un mondo senza lasciare traccia. Nessuno più conosce la storia di questa casa e della gente, tanta, di cui non rimane nulla.

                       
Venni dal mare

"Questi monti sparsi di nebbia, ormai una casa per me"
Brothers in arms - Dire Straits

- Che insegui sulla via romana?
- La vetta, issato dal vino dei bracconieri

- Un gallo predatore, ancora.
  Nove giorni con loro, alleati e ostili.
  Rotolarono massi,
  scolò sangue di pugnali.

- Chi sei, uomo senz'ombra?
- Outis,
  venni dal mare.
  In questi monti ti vidi vagare
  su, giù dai nevai, sentieri, fortini,
  dalle pietraie dei morti,
  fili spinati.

- In bufere e burroni,
  due notti accanto al lago
  addossati ai massi,
  neve e grandine calate sui teli,
  sognando sole e miele.
  Azzannati dal vento,
  anche i cani tacevano.
- Il cielo s'aprì al tramonto d'Alcione.
  Innanzi i cavalieri sacri e stendardi.

Dal promontorio brillò la tua pianura,
la speranza nuotò negli occhi.

Il fuoco aprì un varco.
Lì passasti con una luna d’estate.
Il giavellotto nella poltiglia,
al morso il cavallo,
un nitrito, uno scarto.

Non cercarmi tra le pietre
sotto la frana, come altri, nessuno.


Nota
Forse Annibale discese in Italia dal colle Coche-Savine o dal Clapier, non lontani dal Moncenisio. Chissà, se sarà rimasto ancora il vino dell'amico cacciatore sotto le pietre del sentiero romano che, dal Col Giaset, porta a quelli citati?.
I morti cartaginesi sulle Alpi furono probabilmente ventimila.
I versi sono dedicati al medico inglese de Lavis Trafford. Dopo lunghi studi, non ebbe alcun dubbio: Annibale passò in quei luoghi nel 218 a.C. Ho recentemente visitato la chiesa restaurata di S. Pierre d'Extravache, spettacolare con lo sfondo della Dent Parrachée. Lo stesso medico ne iniziò il ricupero negli anni trenta, a sue spese. Salendo in macchina da Bramans si arriva allo chalet-museo ove visse.

La spiegazione di Fulvio
Questa poesia ha inizio con una citazione musicale: i Dire Straits sono un complesso che ho sempre apprezzato molto. E’ una poesia di ricostruzione storica – Marvi dice di grande fascino – per l’evocazione di voci lontane di fantasmi che ricordano la discesa di Annibale in Italia, attraversando le Alpi con un’armata e elefanti nel 218 a.C.

                       - Chi sei, uomo senz'ombra?
- Outis,
                          venni dal mare.

Cartagine, sulle coste dell’Africa mediterranea
Outis, cioè Nessuno.
Parla uno dei tanti morti, senza nome, in battaglia, ma è anche evidente il riferimento ad Ulisse – Nessuno nella grotta di Polifemo.
Dalla classicità le nostre radici culturali: le Alpi di Novalesa sono luogo di attraversamenti e di battaglie storiche. Di lì scesero in Piemonte le truppe di Carlo Magno che vinsero i Longobardi presso Avigliana alle porte della piana di Torino, di lì scese in Italia un’armata per le prime campagne in Italia di Napoleone.
In ricordo della spedizione militare di Annibale il Circo Medrano, anni fa, fece fare ai suoi elefanti una parte del percorso montano a piedi, con i bambini locali in visibilio per la stranezza di uno spettacolo simile (più unico che raro).

Il "Monio"

...la sua storia ha dentro disegnata,
a volte ti balena per frammenti ...
Umberto Piersanti

Aria tersa dal crinale,
rupi, boschi a semicerchio,
Valcenischia, incisa d'acque,

Rocciamelone e la poiana nelle scie delle rotte.

Foto e foto nella cappella,
occhi fratelli della terra che li partorì,
"tu ci cammini in mezzo e non li conosci"

Merenda sul muretto di lose tra ortiche e cardi
nel sole di sghimbescio,
origliando l'acqua
che parlotta dal tubo azzurro


La spiegazione di Fulvio
La citazione iniziale è di Umberto Piersanti, poeta vivente di Urbino, oggi settantottenne, candidato nel 2005 al premio Nobel (pare, perché le candidature rimangono segrete, o  dovrebbero restare tali per decine di anni).
Il Monio è un gruppo di case: una chiesa, un bivacco alpino e la casa dei Chabert, famiglia nota alla Novalesa per essere di allevatori e casari. Oggetto di gita da parte mia: sono stato colpito dalla chiesa, il cui interno è tappezzato di foto di defunti: questi morti sono le persone semplici del posto, quelle che non fanno la grande storia ma costituiscono il tessuto della montagna col loro lavoro (pastori, taglialegna, operai). Qui vengono ricordati tutti, almeno dai tempi in cui esistono le macchine fotografiche. Dopo la visita alla chiesa ed un reverente grato pensiero a questi morti oscuri, la merenda di prammatica al sole un po’ obliquo dell’autunno e del pomeriggio avanzato.

Un’annotazione ancora sulle tre poesie che sono state scelte non da me, ma da Marvi. 
E’ vero che l’ambiente della mia montagna mi è da stimolo alla mente e a l cuore, e che l’amore per questa terra fa da sfondo spesso alla mia scrittura che viene ad assumere, da un tono intimo e personale di partenza, una visione collettiva di vita di popolo e di genti, quando non addirittura una visione storica di epopee e tragedie di guerre dell’antichità, come si è visto, fino alla lotta partigiana. Io comunque sono malato di citazionismo e nella testa risuona un’immagine di Celan che ho fatto mia, che vivo ogni volta che sto a Novalesa e che ho inserito in Zendefol: “qui devi vivere”. La citazione esatta dice:
                      
“Invernato campo ventoso
qui devi vivere nucleoso come melograno”
                       da: Filamenti di sole, Meridiani, pag. 903

E’ la mia montagna, la mia patria d’elezione.

Conclusioni di Marvi
E’ stata per me estremamente stimolante questa intervista a Fulvio Ferrero.
La poesia esalta una personalità ricchissima di doti umane e culturali, che sono emerse in grande semplicità e naturalezza nel colloquio. Tanto ritenevo la sua poesia ardua e cerebrale alla lettura, altrettanto lineare e chiara mi è apparsa dopo le sue parole esplicative.
Sono sempre più convinta che i diversi piani di lettura e la ricchezza dei riferimenti letterari nascosti tra i versi rendano la poesia di Fulvio essenziale e raffinata insieme, personale ma universale, precisa eppure sfumata nei risvolti del messaggio, realistica ma immaginifica, razionale ma intuitiva, concreta nella realtà dei luoghi ma sognante di stuporoso incantamento nello stesso tempo. La completezza degli opposti.
La mia scelta di proporre tre poesie diverse sullo stesso tema di ambiente montano è dovuta all’allargamento di orizzonti e di prospettiva che io rilevo aprirsi e crescere da una poesia all’altra, sotto forma quasi di un climax ascendente ideale.
Nella prima poesia Zendefol, Novalesa ispira una visione di decadimento e sfacelo di elementi individuali, case o persone, corrose dal tempo secondo un destino comune, doloroso ma incontrovertibile. Nella seconda lo stesso paesaggio montano diventa protagonista ed evoca grandi epopee storiche realmente accadute nei millenni. In questo teatro montano Novalesa si apre quindi alla macrostoria, in una rievocazione artistica di grandiose vicende.
Nella terza poesia troviamo ancora la storia, ma in una visione attuale, direi contemporanea, di critica storica: la microstoria. Vicende delle masse, dei personaggi oscuri che non hanno un nome importante, ma le cui gesta ed eroismi comuni hanno contribuito a creare la realtà civile del nostro paese. Dalla storia dell’individuo singolo, alle epopee clamorose della grande storia del passato, fino alla considerazione della microstoria delle genti oscure, rilevanti alla lunga forse più delle vicende dei grandi personaggi, nell’economia del nostro divenire.



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