martedì 10 aprile 2018

Perché bisogna leggere Gabriele Galloni di Luca Perrone - saggio su "In che luce cadranno" (RPLibri 2018)

Immagino Gabriele Galloni rapito dalla contemplazione del teschio esposto sulla sua scrivania sgombra e spartana. Lo vedo assorto in profonde meditazioni come un illuminato del diciottesimo secolo.
Poi lo so fuori dal tempo e dallo spazio, a dissezionare la banalità del reale fino a distillarne lo zero (pag. 22).
La critica lo inserisce con ragione nella tradizione lirica. Ciò che pensano e non osano dire è che il Galloni di “In che luce cadranno” è epifania poetica uguale a quella del William Blake di “The marriage of Heaven and Hell” e dell’Arthur Rimbaud di “Une saison en enfer”.
Si tratta quindi di poesia non inscrivibile in alcuna tradizione, potremmo chiamarla innovazione ma ritengo sarebbe scorretto. La poesia non è ammalata di quantità, non progredisce, non raggiunge, non supera, non persegue. La poesia è rito di pochi istanti che disvela attraverso le allusioni, squarcia l’afa del deserto e deifica l’allucinazione degli assetati, per mezzo dell’antropomorfizzazione.
Poesia potrebbe essere espressione estetica di gratitudine per l’autocoscienza, sicuramente celebra le sensazioni.
Nel tempo grigio del regno della ragione difende i sensi dall’atrofia.
Gabriele Galloni scrive versi psicotropi.
Ho letto la sua seconda silloge senza perdere il sapore intenso di alcun fonema, rileggevo un distico perfetto e il suo sapore s’intensificava. Lasciavo che dai lombi salisse al cervello il flash dell’intuizione, quando coglievo l’estrema complessità dei giochi semantici mascherati da guizzi spontanei d’immediata intellegibilità.
La semplicità è il comune denominatore d’ogni forma d’arte e Galloni ne è maestro. Egli è riuscito a realizzare un capolavoro privo di sbavature senza necessitare della quiete o della forma di riflessione che comporta l’età matura.
Si deve escludere che fra i suoi versi ne vivano molti che non siano stati laboriosamente cesellati dopo la prima stesura, sono portato a pensare che esistano lemmi scartati sufficienti ad approntare un’altra silloge, ogni poesia è una goccia d’assenzio.
Federico Dragogna, discreto paroliere della rock band I Ministri, appartenente alla generazione precedente a quella di Gabriele, nel secondo distico di “Segui la pista anarchica” scrive “dio ha quattordici anni e non è/neanche il suo vero nome”.
Questi versi sono per me oggetto di riconoscimento platonico e spero che Dragogna abbia avuto occasione di scoprire che l’Imperatore ha ventitré anni e si chiama Gabriele Galloni.
Nell’universo che abito insieme a Dragogna e Galloni non c’è bisogno di figure di riferimento, di contratto sociale o stupide leggi.
Nel nostro universo gli artisti hanno ereditato la terra e fra i vivi muoiono e vivono i morti. Quei morti che hanno eletto a cantore e disvelatore il poeta più talentuoso e geniale. Se un filosofo poeta persegue immagini ricavate da prospettiva conquistata sub specie aeternitatis, Gabriele Galloni ha poetato l’infinità, l’universalità, l’uguaglianza, senza la confusione generata dalla distrazione causata dallo spreco d’energie profuse nel comprendere e criticare ciò che è quotidiano e banale, per quanto ingiusto ed eternamente rorido.
Le trentotto poesie che costituiscono la silloge sono altrettante attribuzioni di vita ai morti, che muoiono ancora e festeggiano riti funebri. Il sentimento predominante è il sublime.
Dato l’argomento ci si aspetterebbe più gotico, macabro, lugubre, ci si aspetterebbero la mestizia, la malinconia e il grottesco, quest’ultimo è presente in pochissimi camei delicati e diafani, poiché non esiste il genio senza tentazione d’ironia o sarcasmo. Penso ai morti che è normale vederli a volto coperto passare/ dal corridoio al bagno alla cucina, ultimo distico della poesia di pag. 11 che amerei stuprare con un’analisi dettagliata e approfondita.
Galloni non ha ceduto e nemmeno è stato sfiorato per un istante dall’idea di affrontare i morti col taglio disperato e scuro dell’immenso Novalis, per esempio. Non appartiene alla banalità.
Il poeta non ha bisogno d’uno Psicopompo che lo conduca alla scoperta di (qualsiasi fiume) ove si trovino I più frivoli tra i morti (pag. 39), il arrive à l'inconnu ma senza perdre l'intelligence de ses visions.
A Le suprême Savant in questione per il momento sono state risparmiate toutes les formes […]de folie, così ricorrenti nell’esplorazione della tradizione estatica; gli auguriamo che la vita conservi la sua coscienza meravigliosa.
La prova tangibile, il risultato della ricerca di Gabriele Galloni, risiede nella poesia seguente, viene estratta da una scatola (elezione lessicale perfetta, a prova del Faber di Amico fragile):
 
Dentro la scatola c’è un flauto d’osso.
Tra pochi giorni ritornerà cenere
E i morti se lo soffieranno addosso
Correndo intorno a un lumicino blu.
 
Poi la tenerezza commuovente dei versi che seguono, in cui tutta la produzione d’un Giovanni Pascoli a caso non è che il sassolino d’arredo d’un acquario delle dimensioni della somma degli oceani:
 
Se la madre dei morti è sempre polvere,
i morti cercano la loro madre
ogni sabato sera sulle spiagge
libere; sotto le sedie o nei gelati
 
caduti di mano ai ragazzini
in chissà quante estati, in chissà quanti
 
alberghi, marciapiedi, lungomari.
 
La licenza ermeneutica mi tenterebbe a raccontare cosa vedo quando sento “In che luce cadranno”. Stiamo parlando di poesia però, di preghiera, il verso d’un poeta ispirato l’unico dogma che riconosco e rispetto. Stiamo parlando di Poesia.
 
Luca Perrone
 
Gabriele Galloni è nato a Roma nel 1995. Esordisce nel 2017 con la silloge di versi Slittamenti (Augh! edizioni). Segue, a inizio 2018, In che luce cadranno (RPlibri)
Autore, per il sito Pangea, della rubrica Cronache dalla fine. Dodici conversazioni con altrettanti malati terminali.

 

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