Sabino
Caronia è noto come studioso, soprattutto di Gabriele D’Annunzio, Giuseppe
Tomasi di Lampedusa e Giuseppe Dessì. È uomo di raffinata cultura, dotto,
lettore infaticabile, e chi ascolta i suoi interventi, in occasione di letture
e presentazioni, rimane sempre stupito dell’assennatezza dei ragionamenti e
dalla precisione dei riferimenti a opere e autori. Ma Caronia è anche poeta
delicato e lirico, ed è scrittore di romanzi. Per leggere l’ultima opera in
versi La ferita del possibile è necessario prendere le mosse dalla sua attività
in prosa, non solo per trovare quei fili di continuità che si intrecciano nella
scrittura, ma perché è questa a offrire la sintesi del Caronia poeta,
scrittore, critico. In Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi
(Edilazio, Roma 2009), stupiva l’accuratezza e la mole delle citazioni. Si
trattava in effetti di una scrittura che rompeva il genere, mischiando prosa,
poesia, ma soprattutto saggistica – creando insomma un poema-saggio -
sull’amore e sulla figura di Jim Morrison. Proprio la lettura di quel romanzo
insegna che in Sabino Caronia ci sono due fuochi attorno ai quali si muove
l’ellissi del pensiero e della scrittura: l’acribia razionale dello studioso e
l’irrazionalità istintiva dell’amore. In Caronia convivono, attorcigliandosi
come in una lotta amorosa, l’essere umano dotato di logos e il rettile (fin
dall’antichità simbolo dell’irrazionale), proprio come accade in Jim Morrison,
il re-lucertola, com’era solito farsi chiamare. La poesia del poeta romano gira
intorno ai fuochi di quest’ellisse: da una parte l’amore vissuto nella sua
assolutezza più devastante, senza confine, limitazione, paura, dall’altra il
rigore logico, costrittivo, della forma razionale che lo ingabbia. La materia
dell’amore viene distillata in versi armonici e sontuosi, in sonetti e
madrigali, endecasillabi e settenari, che funzionano da mezzo di contrasto per
una materia della quale si sente il calore bruciante.
Questo modo di intendere il fatto poetico
affiorava già ne Il secondo dono, pubblicato nel 2012 dalle Edizioni progetto
cultura. L’esordio in versi di Caronia era un libro smilzo, di appena 24 testi,
anche questo composto in prevalenza da sonetti e da forme chiuse, nel quale
però emergeva, proprio come in questa ultima fatica, un’incandescenza naturale,
la consapevolezza che nella poesia si può e si deve giocare il tutto per tutto
dell’amore e della passione. Dante Maffìa, nella nota di prefazione a questo
libro, faceva riferimento a Caronia come dedito al «vizio della poesia
coltivato con assiduità, con gelosia, con pudore, con la convinzione che ‘il
verso è tutto’ davvero, e perciò bisogna viverlo con la devozione e la passione
che si riserva ai miti.» Lo scrittore colto e il critico dotto schiudeva la
parte più nascosta di sé nella poesia, inchiodandole in forme il più possibile
chiuse e razionali.
Loretto Rafanelli nella prefazione a La
ferita del possibile riprende il concetto espresso da Maffìa per il libro
d’esordio: «non troviamo alcuna concessione nei versi di Sabino Caronia, La
ferita del possibile, è una raccolta che si misura con una necessità primaria:
quella di dover parlare, quella di dover urlare dell’amore, degli amori. Quasi
come vi fosse un’urgenza, una costrizione fisica prima che mentale. Una
versificazione che è una dichiarazione pubblica senza alcuna mediazione, come
dire di un uomo che si metta in piazza e convochi tutti per confessare cosa
pensa dell’amore, per raccontare le sue delusioni, per parlare della sua decisa
volontà di non cedere di un millimetro sull’esigenza impellente del suo cuore,
che è votato al più tenero, disperato, irrisolto slancio.» Sabino Caronia,
verrebbe da dire, non fa prigionieri, non media con se stesso e gli altri, non
si nasconde, piuttosto forgia l’incandescenza dell’amore nella forma, fonde il
nocciolo radioattivo nel reattore del sonetto o della quartina: «se ti perdo,
con te tutto ho perduto,/ in nessuna ritrovo il tuo sorriso,/ tu sei la
benedetta tra le donne,/ senza di te non esiste altro amore.// Tutto mi manca
quando tu manchi,/ ogni umana, celeste compagnia,/ io non voglio guarire, io
solo cerco/ per me le rose di maggio in dicembre.»
Quello che il poeta cerca in questi
versi, con un’acribia che è umana prima ancora che letteraria, è il senso di
libertà (perduta), il disordine del sogno, la bellezza della follia. Caronia
scava dentro se stesso, si scopre e si mette a nudo con le sue incompiutezze,
le idiosincrasie, le sbornie intossicanti della memoria. In questi versi
ritornano alla mente, come rievocati nella materialità di una visione, i luoghi
della passione, già sentiti ne Il secondo dono: Terracina, l’Andalusia, Parigi,
Villa d’Este e soprattutto la spiaggia di Gela, luogo di un incontro che sembra
affondare in un mito greco di fondazione, in una terra dove mare, cielo e
spiaggia si fanno luogo dello spirito, senza tempo e senza limiti, in un’eterna
luce, cristallina, infinita.
Una sezione del libro si intitola La nave
di cristallo, ed è composta da appena 5 testi, particolarmente densi. Si
respira in questi versi un tono fiabesco, che rimanda a vicende remote,
all’isola bella delle fiabe, al nessun luogo, alle rive di fiumi lontani, agli
acquitrini del tempo. Vi aleggia il senso dell’oltre, di un raggiungimento di
un luogo che è al di là del confine dell’esistenza quotidiana. È forse questa
la parte del libro - breve quanto ferocemente intensa - nella quale il poeta si
confronta con la propria interiorità.
Il titolo della sezione e della prima
poesia rimanda immediatamente alla canzone The crystal ship della band
americana dei Doors, pubblicata nel primo album del gruppo americano, dal
titolo the doors, nel 1967. Il testo della canzone è dei più struggenti: «i
giorni splendono pieni di dolore/ rendimi parte della tua pioggia gentile/ il
tempo in cui fuggisti era un tempo troppo insano / ci rincontreremo, ci
rincontreremo/ ah, dimmi dove risiede la tua libertà/ le strade sono lande che
sfuggono alla morte/ rendimi libero dalla ragione per cui/ tu dovresti
piangere, io dovrei volare.» Non vi è dubbio come vi sia una consonanza fra i
versi di Jim Morrison e quelli del primo testo della sezione: «vorrei partire e
andare lontano/ con te, sulla tua nave di cristallo,/ verso l’isola bella delle
fiabe/ dove mai non s’invecchia e non si muore/ e dove solamente si è fedeli/
alle luci lontane e alle canzoni.» Per comprendere la scelta testuale di
Caronia è necessario tornare nuovamente alla prosa. In Morte di un cittadino
americano. Jim Morrison a Parigi, il poeta annota come, nello scrivere il testo
di The crystal ship, Jim Morrison fosse stato ispirato dalla leggenda celtica
di Connla il rosso, figlio del re. Costui – narra la leggenda- si invaghì di una
fanciulla fatata, capace di portare il giovane nel regno dell’eterna
giovinezza. Il re riuscì, tramite l’intervento di un druido, a far sparire la
fanciulla, ma questa lasciò al suo posto una mela. Connla si nutrì per una mese
solo della polpa della mela, che ad ogni morso rigenerava se stessa, ma che
allo stesso tempo accresceva il desiderio per la giovane. La leggenda racconta
che la fanciulla fatata ritornò dal giovane e vide che il desiderio per lei non
era mutato. Si mise a cantare e, alla fine del canto, i due andarono verso il
luogo dell’eterna giovinezza su una barca di cristallo. Sabino Caronia, al pari
di Morrison, gioca con gli archetipi della mela, simbolo giudeo cristiano del
desiderio, e della nave di cristallo, segno celtico e pagano della morte e del
viaggio verso l’oltretomba. La leggenda di Connla, richiamata nella poesia
attraverso il testo dei Doors, racconta quello che è l’amore per il poeta: un
desiderio che si accresce nell’assenza, un mito, una fanciulla fatata che
rigenera se stessa in ogni verso; ogni testo è un morso di quella mela della
leggenda celtica, che allo stesso tempo ha stregato Adamo regalandogli –
insieme all’amore - la conoscenza della sofferenza e della morte. La poesia è
quella nave di cristallo che attraversa gli acquitrini del tempo, regalando la
memoria intatta della passione. L’assenza non è che un volano, una possibilità
dell’amore che ritorna, e, che in questo ritorno, ferisce: «non importa se non
ti vedo,/ non importa se non ti sento,/ tu sei sempre con me,/ tu sei dentro di
me,/ ogni giorno, ogni notte,/ eterna presenza.» La leggerezza di questi testi
nasconde una profondità antica, una stratificazione di vita che lascia stupiti.
Luca Benassi
Sabino
Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di
saggi novecenteschi L'usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino
d'Arabia (Bulzoni, 2000) ed ha curato tra l'altro i volumi Il lume dei due
occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il
Gattopardo (Edizioni Associate, 1995).
Ha
lavorato presso la cattedra di Letteratura italiana contemporanea
all'Università di Perugia e ha collaborato con l'Università di Tor Vergata, con
cui ha pubblicato tra l'altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000).
Membro dell'Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di
numerosi profili di narratori italiani del novecento per la Letteratura
Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste,
nonché ad alcuni giornali, tra cui «L'Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi
racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi
L'ultima estate di Moro (Schena Editore 2008), Morte di un cittadino americano.
Jim Morrison a Parigi (Edilazio 2009), La cupa dell'acqua chiara (Edizioni
Periferia 2009), la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura 2013) e
da ultimo il libro di poesie La ferita del possibile (Iride, 2016).
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