lunedì 4 settembre 2017

"La ferita del possibile" (Iride Edizioni, 2016) di Sabino Caronia letto da Luca Benassi

Sabino Caronia è noto come studioso, soprattutto di Gabriele D’Annunzio, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Giuseppe Dessì. È uomo di raffinata cultura, dotto, lettore infaticabile, e chi ascolta i suoi interventi, in occasione di letture e presentazioni, rimane sempre stupito dell’assennatezza dei ragionamenti e dalla precisione dei riferimenti a opere e autori. Ma Caronia è anche poeta delicato e lirico, ed è scrittore di romanzi. Per leggere l’ultima opera in versi La ferita del possibile è necessario prendere le mosse dalla sua attività in prosa, non solo per trovare quei fili di continuità che si intrecciano nella scrittura, ma perché è questa a offrire la sintesi del Caronia poeta, scrittore, critico. In Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio, Roma 2009), stupiva l’accuratezza e la mole delle citazioni. Si trattava in effetti di una scrittura che rompeva il genere, mischiando prosa, poesia, ma soprattutto saggistica – creando insomma un poema-saggio - sull’amore e sulla figura di Jim Morrison. Proprio la lettura di quel romanzo insegna che in Sabino Caronia ci sono due fuochi attorno ai quali si muove l’ellissi del pensiero e della scrittura: l’acribia razionale dello studioso e l’irrazionalità istintiva dell’amore. In Caronia convivono, attorcigliandosi come in una lotta amorosa, l’essere umano dotato di logos e il rettile (fin dall’antichità simbolo dell’irrazionale), proprio come accade in Jim Morrison, il re-lucertola, com’era solito farsi chiamare. La poesia del poeta romano gira intorno ai fuochi di quest’ellisse: da una parte l’amore vissuto nella sua assolutezza più devastante, senza confine, limitazione, paura, dall’altra il rigore logico, costrittivo, della forma razionale che lo ingabbia. La materia dell’amore viene distillata in versi armonici e sontuosi, in sonetti e madrigali, endecasillabi e settenari, che funzionano da mezzo di contrasto per una materia della quale si sente il calore bruciante.
Questo modo di intendere il fatto poetico affiorava già ne Il secondo dono, pubblicato nel 2012 dalle Edizioni progetto cultura. L’esordio in versi di Caronia era un libro smilzo, di appena 24 testi, anche questo composto in prevalenza da sonetti e da forme chiuse, nel quale però emergeva, proprio come in questa ultima fatica, un’incandescenza naturale, la consapevolezza che nella poesia si può e si deve giocare il tutto per tutto dell’amore e della passione. Dante Maffìa, nella nota di prefazione a questo libro, faceva riferimento a Caronia come dedito al «vizio della poesia coltivato con assiduità, con gelosia, con pudore, con la convinzione che ‘il verso è tutto’ davvero, e perciò bisogna viverlo con la devozione e la passione che si riserva ai miti.» Lo scrittore colto e il critico dotto schiudeva la parte più nascosta di sé nella poesia, inchiodandole in forme il più possibile chiuse e razionali.
Loretto Rafanelli nella prefazione a La ferita del possibile riprende il concetto espresso da Maffìa per il libro d’esordio: «non troviamo alcuna concessione nei versi di Sabino Caronia, La ferita del possibile, è una raccolta che si misura con una necessità primaria: quella di dover parlare, quella di dover urlare dell’amore, degli amori. Quasi come vi fosse un’urgenza, una costrizione fisica prima che mentale. Una versificazione che è una dichiarazione pubblica senza alcuna mediazione, come dire di un uomo che si metta in piazza e convochi tutti per confessare cosa pensa dell’amore, per raccontare le sue delusioni, per parlare della sua decisa volontà di non cedere di un millimetro sull’esigenza impellente del suo cuore, che è votato al più tenero, disperato, irrisolto slancio.» Sabino Caronia, verrebbe da dire, non fa prigionieri, non media con se stesso e gli altri, non si nasconde, piuttosto forgia l’incandescenza dell’amore nella forma, fonde il nocciolo radioattivo nel reattore del sonetto o della quartina: «se ti perdo, con te tutto ho perduto,/ in nessuna ritrovo il tuo sorriso,/ tu sei la benedetta tra le donne,/ senza di te non esiste altro amore.// Tutto mi manca quando tu manchi,/ ogni umana, celeste compagnia,/ io non voglio guarire, io solo cerco/ per me le rose di maggio in dicembre.»
Quello che il poeta cerca in questi versi, con un’acribia che è umana prima ancora che letteraria, è il senso di libertà (perduta), il disordine del sogno, la bellezza della follia. Caronia scava dentro se stesso, si scopre e si mette a nudo con le sue incompiutezze, le idiosincrasie, le sbornie intossicanti della memoria. In questi versi ritornano alla mente, come rievocati nella materialità di una visione, i luoghi della passione, già sentiti ne Il secondo dono: Terracina, l’Andalusia, Parigi, Villa d’Este e soprattutto la spiaggia di Gela, luogo di un incontro che sembra affondare in un mito greco di fondazione, in una terra dove mare, cielo e spiaggia si fanno luogo dello spirito, senza tempo e senza limiti, in un’eterna luce, cristallina, infinita.
Una sezione del libro si intitola La nave di cristallo, ed è composta da appena 5 testi, particolarmente densi. Si respira in questi versi un tono fiabesco, che rimanda a vicende remote, all’isola bella delle fiabe, al nessun luogo, alle rive di fiumi lontani, agli acquitrini del tempo. Vi aleggia il senso dell’oltre, di un raggiungimento di un luogo che è al di là del confine dell’esistenza quotidiana. È forse questa la parte del libro - breve quanto ferocemente intensa - nella quale il poeta si confronta con la propria interiorità.

Il titolo della sezione e della prima poesia rimanda immediatamente alla canzone The crystal ship della band americana dei Doors, pubblicata nel primo album del gruppo americano, dal titolo the doors, nel 1967. Il testo della canzone è dei più struggenti: «i giorni splendono pieni di dolore/ rendimi parte della tua pioggia gentile/ il tempo in cui fuggisti era un tempo troppo insano / ci rincontreremo, ci rincontreremo/ ah, dimmi dove risiede la tua libertà/ le strade sono lande che sfuggono alla morte/ rendimi libero dalla ragione per cui/ tu dovresti piangere, io dovrei volare.» Non vi è dubbio come vi sia una consonanza fra i versi di Jim Morrison e quelli del primo testo della sezione: «vorrei partire e andare lontano/ con te, sulla tua nave di cristallo,/ verso l’isola bella delle fiabe/ dove mai non s’invecchia e non si muore/ e dove solamente si è fedeli/ alle luci lontane e alle canzoni.» Per comprendere la scelta testuale di Caronia è necessario tornare nuovamente alla prosa. In Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi, il poeta annota come, nello scrivere il testo di The crystal ship, Jim Morrison fosse stato ispirato dalla leggenda celtica di Connla il rosso, figlio del re. Costui – narra la leggenda- si invaghì di una fanciulla fatata, capace di portare il giovane nel regno dell’eterna giovinezza. Il re riuscì, tramite l’intervento di un druido, a far sparire la fanciulla, ma questa lasciò al suo posto una mela. Connla si nutrì per una mese solo della polpa della mela, che ad ogni morso rigenerava se stessa, ma che allo stesso tempo accresceva il desiderio per la giovane. La leggenda racconta che la fanciulla fatata ritornò dal giovane e vide che il desiderio per lei non era mutato. Si mise a cantare e, alla fine del canto, i due andarono verso il luogo dell’eterna giovinezza su una barca di cristallo. Sabino Caronia, al pari di Morrison, gioca con gli archetipi della mela, simbolo giudeo cristiano del desiderio, e della nave di cristallo, segno celtico e pagano della morte e del viaggio verso l’oltretomba. La leggenda di Connla, richiamata nella poesia attraverso il testo dei Doors, racconta quello che è l’amore per il poeta: un desiderio che si accresce nell’assenza, un mito, una fanciulla fatata che rigenera se stessa in ogni verso; ogni testo è un morso di quella mela della leggenda celtica, che allo stesso tempo ha stregato Adamo regalandogli – insieme all’amore - la conoscenza della sofferenza e della morte. La poesia è quella nave di cristallo che attraversa gli acquitrini del tempo, regalando la memoria intatta della passione. L’assenza non è che un volano, una possibilità dell’amore che ritorna, e, che in questo ritorno, ferisce: «non importa se non ti vedo,/ non importa se non ti sento,/ tu sei sempre con me,/ tu sei dentro di me,/ ogni giorno, ogni notte,/ eterna presenza.» La leggerezza di questi testi nasconde una profondità antica, una stratificazione di vita che lascia stupiti. 
Luca Benassi



Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi L'usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d'Arabia (Bulzoni, 2000) ed ha curato tra l'altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo (Edizioni Associate, 1995).
Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura italiana contemporanea all'Università di Perugia e ha collaborato con l'Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l'altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000). Membro dell'Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L'Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L'ultima estate di Moro (Schena Editore 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio 2009), La cupa dell'acqua chiara (Edizioni Periferia 2009), la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura 2013) e da ultimo il libro di poesie La ferita del possibile (Iride, 2016).

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