domenica 19 novembre 2017

In tagli ripidi (Giulio Perrone Editore) di Alessandro Brusa letto da Anna Maria Curci

Nel romanzo Il doppio regno, Paola Capriolo fa scrivere all'io narrante, in un diario scritto in un misterioso albergo nel quale si ritrova (accolta? prigioniera? di sé oppure di 'altre forze'?) queste parole: «A volte scrivo poesie sulla carta da lettere dell’albergo, ma è una definizione impropria: sono quasi sempre coppie di parole che per qualche ragione mi sembrano “far rima” tra loro. L’ultima ad esempio è composta di due soli versi, il primo verso è “ferita”, il secondo “miracolo”. Sono certa che esiste una lingua nella quale si può passare dall’uno all’altro termine, con la semplice aggiunta di una lettera, tuttavia non so perché queste due parole e il loro strano legame mi appaiano così gravidi di significato.»
Questa lingua così distante eppure così vicina, "la lingua lontana" di Alessandro Brusa, nella quale la parola "ferita" si discosta dalla parola “miracolo” semplicemente in virtù dell'aggiunta di una lettera finale, è la lingua tedesca, e il prodigio, fonte di stupore, avviene con le parole "Wunde" e "Wunder".
Perché questa premessa? Perché leggo In tagli rapidi di Alessandro Jacopo Brusa come compiuta realizzazione di una architettura poetica le cui fondamenta stanno nel cozzo e nell'incontro lacerante e prodigioso di questi due principi: il vulnus perpetrato, ripetuto, innanzitutto sul corpo e il cammino (passo costante, incursione di 'pontiere') nel mondo del meraviglioso.
Lo attestano, come ben scrive Fabio Michieli nella prefazione, le antitesi ripetute, lo attestano quei versi scritti nella carne, tatuaggi e scalfitture sulla pelle, mirabili sintesi di lacerazione e intuizione («dolore scorsoio») lo attestano, ancora, quei richiami a miraggi, illuminazioni e squarci nel deserto, nonché i richiami non solo biblici, ma anche al mondo incantato eppure di primordiale crudeltà e di successiva “Zerrissenheit" – “travaglio interiore” che è stato precedentemente «lo strappo/ che tra le scapole/ toglie vertigine/ ad ogni altezza». Una antitesi-sintesi che va dalle fiabe popolari raccolte dai fratelli Grimm al pure ottocentesco e ancora modernissimo vagare senz'ombra del Peter Schlemihl («all’ombra che non ho») di Chamisso, dei cui mirabili stivali, trovati a portare conforto con l’esplorazione della natura a un’esistenza di perenne emarginazione, privata dell’ombra, si trova una chiara eco in un felice ossimoro: «ma io dormirò sereno/ perché lui mi stringe in/ distanza di sette leghe.»

La prima poesia della prima delle cinque sezioni che compongono la raccolta – Il vento che insegue veloce, Il tempo che abitiamo in punta, Il taglio nel legno, Nel nome del figlio, E giriamo in cerchio di amanti – è un efficace esempio del ritmo sostenuto e della versificazione qui adottata da Brusa, che individua in questo libro la terza tappa, quella conclusiva, di un percorso iniziato con il romanzo Il Cobra e la Farfalla e proseguito con i testi poetici di La raccolta del sale. Essa può essere interpretata altresì come dichiarazione e tributo alla scaturigine e alle intenzioni del moto poetico: «D’uso io annuso l’aria che tira/ : perché ho memoria/ perché ricordo ogni emozione/ che porti/ perché scandaglio la storia/ ed ogni tua percezione/ e scatto come grilletto/ cercando lo scontro/ o cercando la fuga». L’affermazione dal sapore evangelico contenuta nei versi dello stesso componimento che seguono quelli citati, vale a dire «non sono nata per le cose del mondo», è insieme fieramente consapevole e sofferta e segna la presa di distanza – non a caso “distanza” è termine di evidente ricorrenza nella raccolta – da ciò che, tuttavia, è oggetto di vivida, profetica, e in quanto tale dolorosa percezione.
Non stupisce, pertanto, che sia l’ossimoro a sostenere frequentemente l’impalcatura del testo poetico, accompagnata dall’incalzare della fuga, intesa qui come composizione musicale e realizzata con rime interne e passaggi per cambi di vocale: «mi definisco per sottrazione/ per ciò che aggiungo/ all’ombra che non ho/ e d’ambra opaca/ tengo nelle viscere la mano/ che tua mi spande».
Di musicalità che rende lo strazio – quasi che l’archetto dello strumento si trasformi in punta acuminata e la cassa armonica si faccia legno da incidere – testimonia tutta la raccolta, con una sezione tra le cinque a fungere da dominante. Si tratta proprio della sezione centrale, Il taglio nel legno, nella quale ogni testo è stato composto in sintonia con una composizione musicale di cui Brusa riporta il titolo in chiusura. La poesia si misura qui con brani di Brahms, Bach («In su la nota un pezzo/ - tenuto, e corda -/ il taglio nel legno/ e la lima stesa/ lo porgono a me/ che sospeso lo tengo/fitto»), Mahler, Marais, Vivaldi, Pergolesi, Šostakovič. I Kindertotenlieder di Mahler sono l’annuncio e il controcanto a questi versi: «Scale appese/ al grave crescere e salire/ di un dolore piccolo,/ pronunciato nel tempo/ che neve, separa/ dal sole a ponente.»
Altra musica risuona nei testi della sezione In nome del figlio, forse quella della PFM in Lettera al padre, dove pure, come avviene qui, i ruoli di padre e figlio vengono mescolati, rimandati uno all’altro, ribaltati: «Di questa nascita/ riempio il tempo/ che io solo conosco/ e incammino sulle/ tue incertezze». Alessandro Brusa è figlio di un poeta, Maurizio Brusa, come ricorda Marco Simonelli nella postfazione. Chi scrive ha pianto la morte improvvisa, a breve distanza da quella del di lui padre Omero, di Maurizio Brusa, poeta elegante e schivo, defilato e incisivo. Chi scrive si sofferma sui versi di Alessandro Brusa e pensa a questioni aperte e punti fermi. Resta aperta, intenzionalmente, la domanda circa il destinatario di questi versi: «hai smarrito la parola/ ed il tuo verso/ che di obbedienza/ hai perduto.» Resta ferma, invece, la dedizione completa, di spirito e corpo, alla resa nel testo: «Di questo corpo ho fatto testo/ se del tuo corpo tengo il segno/ che di quella nascita mi ha fatto.»

Anna Maria Curci


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