C'è dato un tempo
per ogni tempo.
C'è
una magia in ogni cosa,
nel perdono
in un bacio che ferma l'addio
nella
ragione di essere nati.
Penso
non sia il cambiamento
ma l'abitudine
l’unità
di misura dei viventi,
ciò
che ci rassicura e ci consola
ciò che ci viene naturale fare.
E poi gli occhi,
con
cui misuriamo la realtà
che sia di fiato e di sabbia,
che ci prepari alla nostalgia
o all'abbandono.
È
come seguire la danza
di una foglia nel vento
e
indovinare da quale parte cadrà.
*
Respiri emanano calore
sopra l'abitudine dei sensi.
Sapere se la terra ha corpo
e mani
e il
cielo occhi
per vedere quanto colore
c'è in un sorriso,
o in quel sasso che riflette
luce
e si chiede qual è il suo
posto
come io qui.
*
Tra cera colata
e odore di incensi e memorie
si consuma la vita su
mosaici
scoloriti da occhi e tempo.
Visi e teschi si fanno
compagnia
in un avello senza tormento.
Il sacrificio del corpo e
del sangue
si riduce a un fermo
immagine
nel mestiere moderno di fare
copia
e calco di ogni cosa sia
stata nella storia.
Ma anche riprodurre è
un'illusione
se il tempo non si ferma,
non rimane.
Ecco perché qualunque senso
è poco
di fronte a ciò che ci fa
più grandi.
Firenze, Chiesa di San Miniato
*
Vorrei avere lo scatto di un
geco
che guizza per fuggire,
la sintesi nei suoi
movimenti
l'agilità di saltare i
sentimenti difficili
essere minuscola e
nascondermi
o confondermi con ciò che mi
circonda,
scegliere sentieri facili da
percorrere
nessuna asperità sul terreno
solo foglie rosse e dorate
e un tappeto di sogni
dove sdraiarmi a pensare che
sei vita
sei spinta alla vita
e io sono corsa incessante
per raggiungerti
nell'umano mistero della
felicità.
Ho avuto in dono da Monica Martinelli, l’autrice, creatura
gentile ed aggraziata come una figura botticelliana, il suo libro qualche anno fa: mi pare di ricordare
poco dopo la pubblicazione e l’ho molto apprezzato.
Perché
non ne ho parlato prima? Perché l’ho lasciato decantare per quasi un lustro?
La
risposta ha richiesto molto tempo ed una indagine su me stessa quasi
psicanalitica, che è stata faticosa e da cui rifuggivo con mille scuse: alibi
per non volere far chiarezza su certi aspetti di me, contraddittori o
aggrovigliati che mi squinternavano, o comunque non rientravano a formare
quell’equilibrio globale di persona cui tendo da sempre. Con scarso successo
evidentemente, da quanto dico.
Monica
Martinelli, nell’assoluta diversità con la mia persona - nell’anagrafe (lei è
giovane), nella formazione tecnica, economica, finanziaria, nell’attenzione al
mondo delle scienze (fisica, chimica, geologia, come emerge anche nelle sezioni
del suo libro), tutti aspetti totalmente divergenti dalla mia forma mentis -
aveva trovato la chiave per entrarmi dentro. La sua poesia mi faceva da
specchio in quello “sconforto di essere
creature” che stimola alla vita, ma estenua, nel desiderio di slanci, di voglia
di fare, di lasciare tracce chiare del nostro passaggio, ma che sfuma in troppi
momenti di inadeguatezza che lasciano inappagati, dolenti fino allo stremo
delle forze mentali. Monica era troppo per me, per questo le sfuggivo: per mia
vigliaccheria. Finché ho potuto. Per quasi cinque anni. Ma, come dice
giustamente lei nella bellissima poesia di esordio del libro - la prima che vi
ho proposto - riecheggiando il testo del Qoelet (Ecclesiaste), arriva un
momento per ogni cosa.
Penso
adesso alla verità della seconda strofa della poesia di Monica: non il
cambiamento (raro momento di esaltazione), ma è
… l'abitudine
l’unità di misura dei
viventi,
ciò che ci rassicura e ci
consola
ciò che ci viene naturale fare.
Penso, in questi tempi di coronavirus, a quanta
gioia nel mio stare con la persona amata asserragliata a casa, a meditare su me
stessa e sull’abitudine degli occhi, a cercare di capire meglio che cosa
voglio ancora fare nella vita e cosa, realisticamente parlando, sono in grado
di fare. E poi lavorare ai miei studi con testa, con cuore, con volontà, con
amore. Nell’abitudine la creatività: tra quattro mura tutta la gamma dei
contrastanti sentimenti dell’uomo. La speranza con la disperazione, la
nostalgia insieme alle progettazioni,
l’utopia con la rassegnazione. Noi siamo tutto e il contrario di tutto.
Da qui la ribellione, la rabbia, contro la nostra magmatica mente, contro lo
squilibrio, nel tentativo forse vano di riuscire a trovare un approdo.
In una sua poesia Monica dice:
ogni
cosa cerca spazio
per
trovare ormeggio
nel
corpo in cui dimora.
E
poi ci si affeziona anche al dolore
all’ospite
sgradito
ignaro
di solitudine.
Ribadisco che comunque Monica è troppo sfaccettata
per me. Valgono, in relazione a lei, le parole che Juan Gris scrisse al grande
poeta Vicente Huidobro, che gli aveva dedicato il volume Poesie artiche:
“ E’ troppo bello per me, non riesco a penetrarlo”. Parole semplici ma
essenziali nella loro verità.
Ne parlai un giorno con la mia amica Cinzia, poeta
e cultrice di poesia sudamericana. Mi capita, di fronte a testi poetici magari
singoli, meno spesso rispetto ad autori in generale, di sentirmi invasa come da
un’ondata sentimentale che prende totalmente per profondità e bellezza, ma
lascia inermi, senza parole, anche perché ogni parola diventa inadeguata a
definire ciò che si sente. Può essere la possessione da parte delle Muse di cui
parla nel Fedro Platone? O quella che ha provato un paio di volte
Orazio, poeta apollineo, di fronte alla dirompenza dionisiaca della poesia di
Libero - Bacco?
Non lo so. Posso dire che la poesia di Monica mi ha
creato problemi per “eccesso”. Per questo motivo non tento neppure di
avvicinarmi a questo libro prezioso in maniera sistematica. Vi ho offerto pochi
spunti con i quattro testi riportati più sopra, di diversa connotazione. Io li
amo tutti: desidererei che fossero letti più di una volta e uno per volta;
vorrei che il lettore si lasciasse penetrare, avvolgere, non solo dalle parole
ma dallo spirito che dai versi si espande, occupa spazio, esterno ed interiore,
fino forse a cambiare negli altri le abitudini degli occhi e, ancor più,
dell’anima. Solo dopo il lettore può riflettere. E’ questione di un momento
fulminante o di cinque anni. Dipende dalle persone.
Mi piacerebbe segnalarvi, come conclusione, questa
poesia scritta al mare di Sperlonga al tramonto. Io la trovo perfetta: il
contatto con la natura, simbiotico, porta all’introspezione non solo del sé, ma
dell’epopea di ogni uomo alla ricerca di una pacificazione finale, ove ogni
dolore spezzato su scogli rassegnati si plachi in grande malinconia,
senza confini nel mare e nella sera.
Mi
smarrisco nel rumore del vento
e nel
continuo accadere
di onde
pazienti
che nel
fragore si danno voce.
Il
pensiero si stordisce nel ricordo
e si
ferma a cercare ristoro
da un
dolore ininterrotto
che si
spezza su scogli rassegnati.
Ma quando il sole spegne la
sua luce
e le onde si muovono nel
modo giusto
lì si accende la grande
malinconia
che solo il mare può vedere.
Sperlonga, al tramonto
Sorpresa doppiamente e grata a Marvi Del Pozzo per questo regalo prezioso che mi ha emozionata per parole e contenuti. Felice umilmente di aver smosso emozioni e riflessioni nel profondo e indagini psicoanalitiche - senza troppa fatica spero - che è proprio il fine della poesia. C'è sempre un pò di timore, sicuramente non di vigliaccheria, quando andiamo a scandagliare noi stessi, nella scrittura così come nella lettura.. E la sensibilità e la squisitezza d'animo di Marvi, lettrice e critica attenta e raffinata, hanno donato a questo libro, e quindi a me, il riflesso di un'esigenza spirituale e gnoseologica. Grazie ovviamente a Cinzia Marulli per avermi ospitata qui su ParolaPoesia!
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