Del tutto assente sugli organi di stampa
più rilevanti in Italia -per quanto mi risulta- il ricordo della morte di
Aléxandros Panagulis (primo maggio del 1976). Politico, rivoluzionario e poeta
Panagulis resta storicamente figura di primissimo piano nella lotta contro la
dittatura dei colonnelli in Grecia (colpo di Stato del 21 aprile 1967); nonché
protagonista del celebre romanzo-verità Un uomo di Oriana Fallaci (prima
ed.1979), che in tale libro narrò la storia di colui che per pochi e intensi
anni fu suo compagno nella vita. Non sarà inutile qui citare il prologo del
libro della scrittrice fiorentina “…La solita tragedia dell’individuo che non
si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo
muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù
sottoterra, mentre l’orologio senza lancette segna il cammino della memoria”.
Ma veniamo al titolo del presente scritto, che è quello testuale della silloge
di Aléxandros Panagulis uscita in prima edizione italiana nell’aprile del 1974
per la Rizzoli (silloge pressoché introvabile oggi in libreria): un titolo
folgorante, che immediatamente qualifica l’autore come scriptor rerum (e non
potrebbe essere altrimenti!). Ora è importante ricordare il nome di chi ebbe a
scrivere la prefazione della raccolta in oggetto: Pier Paolo Pasolini, il quale
incontrò in Italia Panagulis dopo la liberazione dal carcere; avendo del resto
già dedicato ad Aléxandros una bellissima poesia intitolata Panagulis, inclusa
in Trasumanar e organizzar (1971), ultima silloge del grande scrittore e
regista. Occorre sottolineare l’inevitabilità dell’incontro umano-poetico di
Pasolini con Aléxandros Panagulis: al netto delle raccolte postume di un
indimenticabile Pier Paolo in veste di saggista e critico letterario
(riferendoci a Passione e ideologia, 1994 e Descrizioni di descrizioni, 1996 ;
non figurando per l’appunto in esse il nome di Panagulis). Tuttavia esiste una
poesia di Pasolini del 1966 dal titolo Poeta delle ceneri (pubblicata su Nuovi
Argomenti; Roma, luglio-dicembre 1980); poesia dalla quale conviene estrapolare
i seguenti versi: “Perciò io vorrei soltanto vivere/ pur essendo poeta/ …Vorrei
esprimermi con gli esempi./ GETTARE IL MIO CORPO NELLA LOTTA”. Ecco. L’ultimo
verso, appositamente evidenziato, ci spiega bene le ragioni poetico-umane per
le quali Pasolini fu profondamente solidale con Panagulis, scrivendo fra
l’altro la suindicata prefazione a Vi scrivo da un carcere in Grecia, il libro
di cui ci occuperemo adesso da vicino; non senza avere rammentato che tale
silloge, in Italia, venne pubblicata dopo quella del 1972 dal titolo Altri
seguiranno: poesie e documenti dal carcere di Boyati (Flaccovio editore in
Palermo; con nota introduttiva di Ferruccio Parri e dello stesso Pasolini, Premio
Viareggio Internazionale). In Vi scrivo da un carcere in Grecia, da ricondurre
per Pasolini cronologicamente al “Secondo Boiati” (1970-3) -ossia alla seconda
fase della prigionia di Panagulis fino alla sua liberazione- siamo al cospetto
di chi, già “trasformato in poeta attraverso la tortura”, ora ha preso
coscienza della funzione autonoma della letteratura in base a un “nuovo
discorrere…oltre i confini nominali della giaculatoria”. Ciò non significa
secondo Pasolini la scomparsa nella nuova poesia di Panagulis di due poli
stilistici essenziali, ovvero la “furia anaforica” e la “clausola gnomica”;
solo che adesso la prima può sciogliersi distesamente nella seconda “come uno
stretto e magro fiumicello in un largo lago”: citando il prefatore al riguardo
una delle più belle poesie del volume, A
mio fratello, tenente Giorgio Panagulis, con riferimento soprattutto ai versi
finali di essa. Sia però concesso a chi scrive proporre al lettore, estrapolata
da detta poesia, la seguente strofa, laddove lo scriptor rerum Aléxandros raggiunge un vertice di struggente
e asciutta tenerezza: “Eravamo fratelli, fratello/ ma anche amici/ amici e
fratelli/ e non insultavamo/ il nostro amore/ adornandolo di parole/ Il
grigiore di ogni giorno/ le solite piatte parole/ le parole quotidiane/ gli
scarni gesti della vita/ e quelle nostre rabbie/ e il silenzio/ parlavano
chiaramente d’amore”. Naturalmente di fronte ai versi di Panagulis non bisogna
perdere il filo: nel senso che, sempre per Pasolini, va rammentata la durevole
dicotomia in essi attiva e per la quale Panagulis è e resterà
inconfondibilmente se stesso, come uomo e poeta: “Libertà da una parte,
tirannia dall’altra: che non possono essere superate da sintesi di alcun
genere. O coesistono, oppure una uccide l’altra”. Si legga, in merito, una
poesia inclusa nella silloge quale La tinta: “Ho dato vita ai muri/ gli ho dato
voci/ perché mi facciano un po’ di compagnia/ I secondini cercano e ricercano/
dove trovai la tinta/ I muri della cella/ tengono il segreto/ I mercenari frugano
e rifrugano/ e non trovano la tinta/ Non gli è venuto in mente/ di frugarmi le
vene” (S.F.M.Isolamento, Giugno 1971). Il nostro grande scrittore e regista
riconosce nel rivoluzionario greco l’autore di una parola poetica di natura
atroce, dovuta alle “sevizie, gli anni di prigionia dentro un cubo di cemento,
i polsi stretti giorno e notte dalle manette…e tuttavia, le guasconate,
l’irriducibile calcolo dell’estremismo, l’accettazione provocatoria (e sublime)
della morte. Eppure un poeta come Panagulis che davvero ha gettato il suo corpo
nella lotta considera “basso” per il nostro prefatore “parlare del corpo…Il suo
perpetuo sforzo… è di tradurre in termini compiutamente metaforici… le
esperienze vissute col corpo… Di tutto ciò si proietta nella sua poesia
scritta, soltanto un’ombra. Ma, come appunto accade nella poesia, quest’ombra
si fa a sua volta corpo. Valgano a parer mio in tal senso dalla raccolta in
oggetto i versi di Devi vivere: “Se per vivere, Libertà/ chiedi di mangiare la
nostra carne/ e per bere/ vuoi da noi sangue e lacrime,/ te li daremo/ Devi
vivere”. La Grecia nei decenni successivi alla morte più volte ha reso omaggio
a Panagulis: francobollo, scheda telefonica e stazioni del metrò nella
capitale. Aléxandros fu in tutta evidenza ucciso nella notte fra il 30 aprile e
il primo maggio del 1976 dai sicari del nuovo governo pesantemente colluso con
la giunta dei colonnelli (“compromettenti” le indagini da lui condotte in veste
di parlamentare ormai isolato). Ebbene Panagulis - ovunque simbolo di lotta per
la libertà e la democrazia - quasi si è materializzato ai miei occhi di recente
a Roma, in un vagone della metropolitana, osservando da parte mia il triste
rituale di massa dei nuovi oranti - i passeggeri - con sguardi inebetiti sugli
smartphone (in autistico raccoglimento, insomma): a me declamando, Aléxandros
(a voce bassa per non disturbare i presenti), la seguente sua poesia tratta
sempre da Vi scrivo da un carcere in Grecia e intitolata Gli ingranaggi: “Che
tristezza per quelli che accettarono/ d’essere gli ingranaggi d’una macchina/
credendo voce loro/ i monotoni suoni della macchina/ Che orrore quando vedo/
mani acefale muovere la macchina/ con movimenti ritmici, gli stessi/ cui la
voce di altri dà comandi/ Che disgusto inaudito/ osservare occhi e bocca/ di
chi per conto d’altri parla e guarda/ Anche loro ingranaggi della macchina…”.
Andrea Mariotti, giugno 2016
Il presente articolo è stato pubblicato sull'ultimo numero della rivista "I fiori del male" e viene riproposto in questo blog su autorizzazione dell'autore.
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