Restare
Gli occhi si
sono fatti di sale nel voltarmi
i pensieri
si sono fermati nei gesti, nel silenzio delle cose fatte;
ho raccolto
le briciole del dopopranzo
e le ho
scosse nell'aria vitrea del giardino
dove è
appena spiovuto e irrompe il sole.
Qui, anche
il più lieve soprassalto del merlo oltre
la siepe
sta fermo e
stanno ferme le mie parole come navi in bottiglia.
La vostra
lingua è la mia, ma la mia non è la vostra
mi sono
sentito pensare mentre in casa lampeggia in penombra
il televisore
e una musica epica diffonde l'eleganza di una berlina.
Tengo per me
cos'è curare il fuoco
l'odore
spesso di legna bagnata, lo stoppino fra le dita
lo stare
di tutti i giorni nelle cose da fare, dentro un'altra luce
rotta dalle
nuvole, un diverso tramontare allacciato agli alberi alti
pieno negli
occhi delle case, sulle bestie dei poveri;
un po'
qua un po' là
si sta
soli così, oggi, un giorno così, un giorno più soli.
Una rosa
Che cos'è
quella rosa sul tavolo
ferma nella
sua freschezza come un lago alpino
alta nel suo
silenzio più del fragore
dei
quotidiani affastellati lì accanto
più del
disordine dei notiziari,
la
concitazione delle chiavi di casa.
Che cos'è
questa parola verdeggiante d'amore
se non il
suolo dove lasciarsi cadere
la penombra
di un bosco da attraversare
e la mano
che si apre e prende la mia
e mi conduce
a me.
In
genere non mi soffermo sulla biografia degli autori, lascio che i loro versi
parlino alla sensibilità dei lettori ed in qualche modo si presentino essi, da
soli, indipendentemente dal vissuto del poeta che li ha composti. Per Cappello
ritengo necessario fare eccezione.
La
sua vita drammatica e breve è talmente connaturata con la poesia e la poesia
talmente espressione, reale e sublimata insieme, di quella vita, che non mi
pare possibile prescindere dalla sua esemplare vicenda umana di completezza, di
dolore, di morte. Poiché sulla biografia di Cappello, quindi, mi soffermerò a
scrivere più a lungo del solito, ed un eccesso di sintesi sulla sua poesia
potrebbe risultare riduttivo del suo valore artistico, eccezionalmente ne
parlerò in due diversi appuntamenti delle nostre Letture condivise.
La
sua vita breve, dunque.
È
morto a cinquant’anni il 1° ottobre del 2017. Nato a Gemona nel Friuli l’8
agosto 1967, era originario di Chiusaforte, località di montagna, in una gola -
come dice l’autore - “allagata
dall’ombra” tra le montagne, neve, pietraie, cose che
“avevano confini
piccoli, gli orti poveri, le cataste
di ceppi che
erano state un’eco di tempo in tempo rincorsa
di falda in
falda dentro il buio”.
La
casa era stata costruita, pietra su pietra, con metodici risparmi e immensa
fatica fisica dai suoi antenati. Lì dai cinque agli otto anni, come l’autore
stesso ci racconta in Questa libertà,
Rizzoli 2013,
“d’inverno
aspettavo il ritorno di mio padre. Lavorava ad Arnoldstein come scaricatore,
tornava la sera sotto una cerata verde... mio fratello ed io gli correvamo
incontro abbracciandogli le gambe nella penombra del corridoio. Nei suoi
pantaloni di velluto a coste si fermava l’odore del lavoro: limatura di ferro,
grasso di camion, legno, catrame”.
Non
aveva ancora nove anni Pierluigi, quando alle 21 del 6 maggio 1976 la prima
scossa del violento terremoto del Friuli abbatté la vecchia casa: la famiglia,
sfollata, rientrò nel ’77 e
faticosamente ricostruì pietra su pietra.
Crescendo
l’autore, che diceva sempre di “appartenere
al cielo” più che alla terra, si iscrisse e frequentò ad Udine l’Istituto
aeronautico. Era un bellissimo giovane, sportivo, promettente campione di
atletica leggera. A sedici anni la tragedia. La racconta il poeta e saggista
Alessandro Fo nella vasta prefazione a Un
prato in pendio. Tutte le poesie 1992-2017, di Pierluigi Capello, Rizzoli
BUR 2018:
“Un pomeriggio accettò un passaggio in moto da un
amico. La moto uscì di strada e si schiantò su una roccia. L’amico perse la
vita, Pierluigi riportò lesioni gravissime che hanno trasformato la sua
esistenza in un calvario ospedaliero e l’hanno costretto per sempre su una
sedia a rotelle. Il commento del medico accompagna la diagnosi con le parole
della condanna all’ergastolo:
fine pena mai”.
Dopo
i diciotto mesi d’ospedale, nella sua esistenza da invalido grave Cappello, che
si sentiva votato per il cielo, si costruì una vita “aerea”, votata sì alla terra ma all’ariosità della scrittura, della
poesia in particolare, che riesce a rendere sopportabile, per chi abbia
notevole forza d’animo, ogni bruttura, ogni degradazione fisica della malattia.
In
primo luogo si è affinata in lui una sensibilità poetica attraverso la
meditazione, allenandosi l’autore a dover considerare il mondo e la sua vita
dalla realtà di una sedia a rotelle, invalidante, senza rimedio. In Cappello
questa situazione non lede, anzi acuisce, la voglia di capire, di fare, di
amare la vita, di coglierla a costo di spostarsi a parlare nelle scuole e poi a
ritirare premi per l’Italia, in ambulanza sempre, per tutto il resto della
vita.
La
capacità di cogliere le sottigliezze della realtà passa attraverso un’estenuata
intelligenza emotiva, affinata da lunghe ore in solitudine, nel dolore, nella
ricerca del senso di una vita difficile e nel trovarlo, questo senso, senza
autocompiangersi, senza chiedersi: perché
proprio a me?
Il
risultato è una poesia immensa, vitale e crepuscolare insieme, coinvolgente per
forza immaginativa e perché fa parlare in modo nuovo le piccole cose della
natura e della quotidianità. Le anima di vita: sono come persone che
condividono i momenti di solitudine umana, accompagnandone la sorte. Ma per chi
ama la vita segreta, i destini, ricercati, di cose e paesaggi, c’è l’incontro
col metafisico, col senso della storia, individuale e collettiva, e - direi di
più - col Cosmo, coll’Universo. L’autenticità del dire si trasferisce
immediatamente al lettore, da anima ad anima. Ci si trova a sentire ciò che è
vero e lo si discrimina istintivamente da ciò che è infingimento, buona
costruzione artigianale, magari, ma che è costruzione a tavolino. Non testa,
animata dal cuore, dalla propria verità. Ripeto sempre: Poesia non è un
prodotto di vendita, ma un modo di essere e di sentire. La fantasia,
l’immaginazione sono state la sua forza: anche il letto in cui fu relegato nei
lunghi soggiorni clinici (lottò a lungo contro il cancro, prima di essere
vinto) diventò, come disse, “un tappeto volante” con cui trasformò una
disgrazia in una nuova occasione. La comunicazione con gli altri e le amicizie
sincere gli riempirono la vita.
Susanna
Tamaro, amica di tanti anni, dopo la morte di lui ha scritto il libro Il tuo sguardo illumina il mondo,
Edizioni Solferino 2018, in cui rievoca un’amicizia speciale, una vicinanza
suggellata anche dalla loro disabilità, seppure diversa: lei con una sindrome
neurologica cronica che, fin dall’infanzia, l’ha confinata in una dimensione di
“diversità” e solitudine.
Il
cantautore Jovanotti, che scrisse per Cappello la prefazione al libro Stato di quiete, Rizzoli BUR 2016,
coetaneo del poeta, pur non avendolo mai incontrato di persona, fu a lui legato
da grande amicizia epistolare. Dovevano conoscersi in un appuntamento
concordato proprio nei giorni in cui il poeta morì: Jovanotti ha creato in
memoria della loro strana vicinanza la bella canzone Le tasche piene di sassi, riprendendo proprio un verso di Pierluigi
Cappello, citato dalla poesia che vi propongo.
I vostri nomi
Ieri sono passato a
trovarti, papà,
la
luce in questi
giorni non è tagliata dall'ombra
negli
alberi senza
vento c'è l'odore secco dell'aria
per come posso, ti ho
portato il racconto dei temporali,
l’odore
di inverno
sulle tempie
a Chiusaforte è nevicato,
nevica sempre
e
le fontane sono
ghiacciate
penso, per qualche momento,
che tu sia ancora lassù
ad accatastare legna con
cura
e
in luoghi come
questi
la casa di riposo con la
pista per le bocce
dove
state raccolti
come le foglie nel parco
uniti nell'attesa, lontani
dalle città assediate.
Dicevate
domani,
dicevate questo è il figlio
e
con il silenzio
del fischio nella bufera
i vostri nomi sono andati
via
voi
che siete stati
popolo e ombra
remissione e forza
il tuo nome, papà, e quello
di Bruno, che non era un'antilope
e
tirava sassate
al pettirosso sul ramo più alto
o
quello di
Giordano, o quello di Cesare, o quello di Alfredo, l'artigliere
o
quello di quelli
che, come te, sono stati bambini
che
hanno detto domani.
E
adesso non è
troppo dire
quanto poche sono le foglie
cadute
sui
giorni di
novembre
per
dire cos'è
l'inverno negli occhi mentre viene
tutto
il poco
possibile è qui,
nei
vostri corpi
piegati come l'ulivo
sulle
vostre facce di
monete graffiate
in
questo spazio,
in questo tempo confusi
come
il cielo e la
terra quando nevica,
e
se c'è un'uscita,
papà, anche se non posso dire domani,
la
sua luce sulla
soglia
è questo stare dei tuoi
occhi dentro i miei
questo
pensarvi vivi,
liberi e scalzi
le
tasche piene di
sassi, la memoria di voi
che
trema in noi
come una stella incoronata di buio.
Secondo un’opinione puramente personale ritengo I vostri nomi una delle più belle poesie scritte da un figlio per
il padre, in sincerità e completezza. È una poesia affettuosa ma anche austera,
civile: parla a generazioni intere del nostro recente passato. Non c’è retorica
né sentimentalismo piagnucoloso, ma una tenerezza che è spontanea e che è dei
grandi, come afferma lo psichiatra-umanista Eugenio Borgna nel suo splendido
volume Saggezza, Il Mulino 2019. La
tenerezza è dote misconosciuta e rara ma indispensabile nell’arte quotidiana di
vivere, che rischia oggi di smarrire speranze ed ideali, senza i quali non è
possibile dare senso alla vita. “Non c’è cura - dice Borgna - cura dell’anima e
cura del corpo se non è intessuta di saggezza e di gentilezza, che nascono dal
cuore dell’interiorità e dalla consapevolezza che siamo tutti chiamati a un
comune destino di dignità e solidarietà” .
Riscontro nella poesia I vostri
nomi la totale mancanza del gusto contemporaneo, una moda di inanellare
metafore e poi costruirvi intorno un testo poetico con un lavoro metodico a
tavolino.. Questo “sentire” in autenticità il mondo dalla sua stanza, dal suo
giardino, dal circoscritto suo limite del “qui”
coinvolge il lettore in maniera straordinaria. Dal “qui” ad un “oltre” che è
umanità, storia, metafisica e terra, nuvole e cielo, il passo diventa breve. La
spontaneità e il suono espressivamente nitido della parola nella sua semplicità
nuda non raffreddano le atmosfere poetiche, anzi le esaltano.
E per concludere oggi la prima parte della condivisione su Luigi
Cappello, la lettura di tre poesie sul tema della natura ed affetti di vario
tipo.
Pratoline
Alla piccola Chiara
La bocca è un'alba schiusa
la meraviglia è nelle cose
guardate
giri una corolla tra
l'indice e il pollice,
l'imprecisione del gesto
lascia splendore
un giorno
l'ombra ti sarà restituita
la cenere negli occhi
per camminare più sicura,
legati alla terra
sguardo e condanna
le pratoline fioriscono nel
verde
in ferocia e purezza, la
vita senza memoria
i tuoi piedini nel sole.
Sonno estivo
Seduti, le gambe allungate
nel silenzio,
uno a uno ci siamo portati i
nostri giorni
solitudine con solitudine,
impazienza e attesa;
e adesso che le tue spalle
sono vicine alle mie
che il mio calore è il tuo,
quanto so dimenticare è
nell'indugio
delle dita avventurate sulla
tua pelle bionda,
sui tuoi capelli scuri,
nella paura che avvicina il
nostro corso di scampati
senza rumore e senza
appello, come quando
il verde di marzo spinge dai
rami
e si fa abbracciare dal
mondo,
come quando l'aria vive
nello screzio
degli alberi carichi di luce
e c'è penombra nella stanza,
e la
pace del prato
è nei tuoi occhi,
ci perdona, si stringe
intorno a noi.
Scritta da un margine
Non si tratta di riempire,
si tratta
di far parlare il vuoto.
L'ortensia
si è piegata al frutto della
luce
ma non c'è tensione oltre le
siepi di lauro,
nella tenue foschia di mezza
mattina. Sarà
il tremolare delle gemme di
marzo, sarà
l'aria spartita dal raschio
di un autocarro
e il ricomporsi del silenzio
che chiude una scia.
Dalla testolina di un
passero, la prospettiva
accompagna lo sguardo alle
quinte di alberi alti
dove il cielo si rompe in
turgore e il bianco
ha il sapore di un inno; si
vive
appena sopra la superficie
del sogno
e
tutto
accade a un passo da qui.
A PIERLUIGI CAPPELLO(08/08/1967---01/10/2017
RispondiEliminaUN POETA MI HA DETTO
PRIMA DI MORIRE
La mia sedia a rotelle
è un recinto,
ma al netto
d'un incavo di macerazioni
non grido, non sbraito.
Ho trovato la libertà.
Nel diluvio d'un'esistenza
stormi di versi
oltrepassano abissi e
volano
bevendo cieli senza lacrime.
Poi come colombe ritornano
posandomi nell'anima
ramoscelli d'ulivo,
per la sua pace.