Riprendendo
a parlare di Pierluigi Cappello in questa seconda parte, mi rendo conto che non
ho accennato all’ambivalenza del successo, pure immediato, della sua poesia. In
effetti era un poeta molto letto ed amato dal pubblico, come molti furono i
riconoscimenti ed i premi letterari ottenuti, eppure molta parte della critica
letteraria e numerosi “colleghi” poeti lo hanno considerato con snobismo, come un caso di poesia di
“facile intenerimento” a causa della sventurata sorte di un giovane infelice.
Il suo sarebbe stato un successo più legato alla biografia che al valore
poetico intrinseco. Superficialità, invidiose malevolenze non hanno impedito,
alla lunga e post mortem, un giudizio più equanime e serio sulla grandezza di
tale poesia: del resto la sua figura di friulano montanaro, figlio e cantore di
un mondo marginale e provinciale, ne rendeva difficile la comprensione alle
ambiziose voci poetiche cittadine, espressione di una civiltà del benessere,
smaniosa di successi, gloria e corone d’alloro. Era facile etichettare la
poesia di Cappello come poesia piena di sentimentalismi, espressione peraltro
di una civiltà contadina che aveva fatto il suo tempo.
Ma
egli, pur combattendo la propria solitaria battaglia tra parola e corpo, si
sentiva poeta proprio in quanto appartenente alla comunità montana di poveri
lottatori ai margini del paese, che dovevano lavorare in Austria o in Germania,
o che si sfiancavano tra sventure, incidenti, terremoti, abbandoni,
sfollamenti, con la forza di non abbattersi mai, che regalavano al mondo la
stessa lezione morale della Ginestra
di Leopardi, ma senza la presunzione di volerla dare, questa lezione, a
chicchessia: si era così, forti e tenaci, per natura, per un senso di dignità
umana e di appartenenza all’Umanità. “Sono
nato al di qua di questi fogli”, scrive il poeta.
La
forza della solidarietà all’Umano, dell’ostinazione nella pacatezza, era nel
DNA del friulano e servì indubbiamente, come ancora di salvezza, al giovane
Cappello dopo la sventura, ma resta anche come cifra distintiva della sua
poesia.
Parlavo
dei riconoscimenti ottenuti. Tra i più rilevanti:
*
Laurea honoris causa in Scienza della formazione presso
l’Università di Udine (2013)
*
Cittadinanza onoraria di Udine (2013)
*
Premio Montale, ultima assegnazione prima
della sospensione di tale riconoscimento (2004)
*
Premio nazionale letterario di Pisa (2006)
*
Premio Viareggio (2010), ottenuto col suo
volume Mandate a dire all’Imperatore
Ritengo
che basterebbe la poesia iniziale di questa felice raccolta (Mandate a dire all’Imperatore, Edizione
Crocetti 2010) per tacitare ogni voce accusante i versi di Cappello di “facilità” e di sentimentalismo da
donnicciole.
Mandate a dire all’imperatore
nulla nessuno in nessun luogo mai
Vittorio Sereni
Così come oggi tanti anni fa
mandate a
dire all'imperatore
che tutti i
pozzi si sono seccati
e brilla il sasso lasciato
dall'acqua
orientate le vostre prore
dentro l'arsura
perché qui c'è da camminare
nel buio della parola
l’orlo di lino contro gli
stinchi
e, tenuti
appena da un battito,
il sole
contro, il rosso sotto le palpebre
premerete
sentieri vastissimi
vasti da non
avere direzione
e accorderete la vostra durezza
alla durezza
dello scorpione
alla
ruminazione del
cammello
alla fibra
di ogni radice
liscia,
la stella
liscia, del vostro sguardo
staccato dall'occhio,
palpiterà
né zenit né nadir
in nessun luogo, mai.
Forse
è necessaria qualche spiegazione al titolo della raccolta e a questo suo primo
testo.
Il Milione di Marco Polo ed il suo viaggio
esotico nel Catai alla corte di Qubilai Khan ha ispirato varie opere
letterarie. Ricordo la scenografia fantastica, quasi mitica, di Samuel Taylor
Coleridge (1772 - 1834) che in Ballate
liriche inventa un palazzo orientale di Kublakhan sospeso sul fiume della
vita, dimora della felicità perfetta. L’armonia, per l’autore, è in un
“altrove” esotico lontano dalla razionalità dell’Occidente.
In
età contemporanea, nel 1940 Dino Buzzati col Deserto dei Tartari” e nel 1972 Italo Calvino con Le città invisibili trattano i temi - a
partire dall’avamposto della Fortezza Bastiani contro fantomatici Tartari che
non attaccano mai, l’uno; le città ideali, fantastiche, perciò invisibili,
l’altro - trattano i temi, dicevo, dell’alienazione, dell’incomunicabilità,
dell’estraneità del mondo.
Calvino,
nell’impossibilità di conoscere, si cala in realtà letterarie “virtuali”: la
comunicazione diventa combinatoria con altre opere del passato (qui il
Milione), diventa attività ludica. Del resto la comunicazione passa non
attraverso la lingua, Marco Polo non conosce il linguaggio del Khan, ma
attraverso gesti, sguardi, il gioco degli scacchi, eccetera. Il riferimento
alla vicenda, rielaborata, dell’incontro tra Polo e il Khan, cioè tra due
culture apparentemente senza alcuna possibilità di contatto, fa da cornice ai
racconti sulle Città invisibili.
In
Buzzati il tema è l’attesa, l’alienazione di una routine senza termine, di una
vita incasellata in norme assurde mai a misura d’uomo. Solo il sortilegio, la
malia del deserto dà gioia, ma aumentano lo sperdimento, le follie individuali,
l’estraneità al mondo, nell’attesa vana dei Tartari, i nemici, i diversi da
noi, che non arriveranno mai.
Il
punto di partenza per Cappello è tuttavia un racconto di Kafka del 1918, dal
titolo Un messaggio dell’Imperatore
che parla del Khan, imperatore dell’immensa Cina, che sul letto di morte, tra
nobili e dignitari di corte, fa chiamare un messaggero e lo invia con un
messaggio segreto, sussurratogli all’orecchio, ad un oscuro, comune suddito
della periferia dell’impero. L’inviato giura di obbedire al comando ultimo del
sovrano e parte, ma si perderà nei meandri dell’immenso palazzo, nei labirinti
dei giardini, e non arriverà mai ad uscirne. Il suddito lontano si sente come
depositario di un segreto che sta per arrivargli, ma passerà ogni sera alla
finestra ad attendere un messaggero che non arriverà mai. La chiusura del racconto
è onirica e fiabesca, tuttavia, forse per mitigare il tema cupo
dell’incomunicabilità, dell’attesa, dell’alienazione del potere, del
soffocamento del popolo tra falsi valori, norme e burocrazia.
La
poesia di Cappello, che ha quasi come un sottotitolo l’evocativo verso di
Vittorio Sereni dalle quattro negazioni nulla
nessuno in nessun luogo mai, ribalta i ruoli del
racconto di Kafka: qui sono i sudditi, è il popolo che deve comunicare al
potere qual è la situazione concreta del vivere, perché chi comanda, chiuso nel
suo Limbo, nel bozzolo dei suoi privilegi, non lo sa. Ci si domanda quindi come
possa legiferare per il bene comune, ma il discorso civile sfuma, è solo una
domanda che può affacciarsi alla mente di straforo, perché il problema
prioritario è quello esistenziale, della sofferenza umana di tutti e dell’uno,
della mancanza di riferimenti:
“i pozzi
seccati”, “qui c’è da camminare nel buio della parola” in sentieri “vasti da non avere direzione” “né zenit né
nadir // in nessun luogo mai”.
Questo
imperatore, quindi, potrebbe essere un Dio, inaccessibile e lontano, che lascia
i suoi “alla durezza dello scorpione”,
con un sole “contro”, con un “rosso” di indicibile stanchezza e
tormento sotto le palpebre?
L’oscuro
suddito di Qublai Khan , nel racconto di Kafka,
ignaro del messaggio “sta alla
finestra e ne sogna quando giunge la sera”; l’imperatore di Cappello,
potere civile o divino che sia, non si pensa che risponda. Resta l’uomo col suo
mistero, col suo dolore esistenziale, filosofico e metafisico, nella sua
solitudine tremenda.
Ombre
Sono nato al di qua di
questi fogli
lungo un fiume, porto nelle
narici
il cuore di resina degli
abeti, negli occhi il silenzio
di quando nevica, la memoria
lunga
di chi ha poco da
raccontare.
Il nord e l'est, le pietre
rotte dall'inverno
l'ombra delle nuvole sul
fondo della valle
sono i miei punti cardinali;
non conosco la prospettiva
senza dimensione del mare
e non era l'Italia del
settanta Chiusaforte
ma una bolla, minuti
raddensati in secoli
nei gesti di uno stare fermi
nel mondo
cose che avevano confini
piccoli, gli orti poveri, le cataste
di ceppi che erano state
un'eco di tempo in tempo rincorsa
di falda in falda, dentro il
buio. E il gatto che si stende
in questi posti, sulle
lamiere di zinco, alle prime luci
di novembre, raccoglie
l'aria di tutte le albe del mondo;
come i semi dei fiori,
portati, come una nevicata leggera
ho sognato di raggiungere i
miei morti
dove sono le cose che non
vedo quando si vedono
Amerigo devoto a Gina che
cantava a voce alta
alla messa di Natale, il
tabacco comprato da Alfredo
e Rino che sapeva di
stallatico, uomini, donne
scampati al tiro della
storia
quando i nostri aliti di
bambini scaldavano l'inverno
e di là dalle montagne
azzurrine, di là dai muri
oltre gli sguardi delle
guardie confinarie
un odore dì cipolle e di
industria pesante premeva,
la
parte di
un'Europa tenuta insieme
da
chiodi ritorti
e bulloni, martelli e chiavi inglesi.
Il futuro non è più quello
di una volta, è stato scritto
da
una mano
anonima, geniale
su di un muro graffito alla
periferia di Udine,
Il
futuro è quello
che rimane, ciò che resta delle cose convocate
nello scorrere dei volti
chiamati, aggiungo io.
E qui, mentre intere città
si muovono
sulle piste ramate degli
hardware
e il presente irrompe con la
violenza di un tavolo rovesciato,
mio padre torna per sempre
nella sua cerata verde
bagnata dalla pioggia e
schiude ai figli il suo sorridere
come fosse eternamente
schiuso.
Se siamo ancora cosa siamo
stati,
io sono lo stare di quell'uomo
bagnato dalla pioggia,
che
portava in casa
un odore di traversine e ghisa
e, qualche volta, la gola di
Chiusaforte allagata dall'ombra
si raduna nei miei occhi
da occidente a oriente,
piano piano
a misura del passo del
tramonto, bianco;
e anche se le voci del mondo
si appuntiscono
e qualcosa divide l'ombra
dall'ombra
meno solo mi pare di andare,
premendo un piede
dopo l'altro, secondo la
formula del luogo,
dal
basso all'alto,
seguendo una salita.
***
Le parole
Annodammo la nostra infanzia
ai capelli delle nuvole
e non fu la pioggia, fummo
la pioggia;
la mano dell'uomo ci sradicò
dall'aria
e lungo i canyon della
nostra pelle
attecchì il pensiero;
le nuvole furono scrittura,
la nostra voce un nodo
sciolto,
noi da una parte, da
un'altra parte il cielo.
***
Da lontano
Qualche volta, piano piano,
quando la notte
si raccoglie sulle nostre
fronti e si riempie di silenzio
e non c'è più posto per le
parole
e a poco a poco ci si raddensa
una dolcezza intorno
come una perla intorno al
singolo grano di sabbia,
una lettera alla volta
pronunciamo un nome amato
per comporre la sua figura;
allora la notte diventa cielo
nella nostra bocca, e il
nome amato un pane caldo, spezzato.
***
Commiato
Costruire
una capanna
di
sassi rami foglie
un
cuore di parole
qui,
lontani dal mondo
al
centro delle cose,
nel punto più profondo.
Ancora un pensiero su Ogni goccia balla il
tango, Edizioni BUR Ragazzi 2014.
E’ un libro di rime scritte per la nipotina
Chiara, figlia del fratello, allora di sette anni. Due anni prima la bambina,
all’asilo, doveva recitare per la festa del papà una poesia che giudicava
difficile e bruttissima. Pregò lo zio di scriverne un’altra per l’occasione e
per lei. Fu un successone e Chiara, dopo la festa scolastica, telefonò
raggiante allo zio, piena di gioia e di meraviglia: “lo sai zio che quando
due parole rimano a me scappa da ridere? Però nella poesia che mi hai scritto è
ancora più bello. E’ come quando volo giù dalla scivolo nel parco, perché zio?”.
Lo zio provò a spiegarle qualcosa dell’incanto
misterioso da cui nasce la poesia, che si apre e resta enigma, che è esilità e
potenza insieme, che è suono evanescente e forma concreta. Le parole possono
essere note, disegnano cose che si sapevano già, “ma ci appaiono come una scoperta, una porta che si apre, una
corsa giù per lo scivolo che un po’ ci dà gioia e un po’ ci fa paura. Quella
paura bella perché, quando arriva, in un attimo l’abbiamo scampata”.
Da questo delizioso libro di filastrocche per bambini, ma non solo per loro, propongo
alcune rime in modo da finire il discorso su Cappello con quella serenità e
tenerezza che era connaturata in lui e, penso, non gli dispiacerebbe ritrovare
in queste righe conclusive.
La pioggia
Questa
pioggia è da ascoltare,
è il
concerto delle gocce:
fatto in
battere o in levare
suona
note dolci o chiocce.
Fruscian
gocce sopra il prato,
tamburellano
le foglie
ridon
tutte sul selciato
piange
il vetro che le accoglie.
Sembra
quasi dire il cielo
sono
triste e allora piango,
ma in
compenso, in parallelo,
ogni
goccia balla il tango,
molte
scendon le grondaie
tristi
alcune, alcune gaie.
***
Neve
Nasce un sogno ad ogni
fiocco
mentre sogni alla finestra,
te li porta lo scirocco
tutti
insieme in un'orchestra.
È
l'orchestra silenziosa,
è il
silenzio della neve
che
scendendo piano sposa
il tuo
sguardo acceso e lieve.
Tutto
tace e si fa notte
e dal manto
delicato
fantasie
sono tradotte
nel tuo
sogno smemorato.
***
La rana
Un salto
di qua
un salto
di là
la senti
la sera
la senti
d'estate
e che
serenate
e che
primavera
è tutto
un cra-cra!
Poi
trova uno stagno
e - pluff - si fa un bagno
si scorda l'estate
e il caldo che fa.
***
Le lucciole
Un
puntino, più un puntino,
poi
pian piano un altro ancora,
tutti
accesi, nel giardino,
finché
il buio si colora:
luccioline,
fiammicelle,
in
crescendo, poi in calando,
si
travestono di stelle
a
mezz'aria, palpitando.
Sembra
luce che sospiri
al profondo
cielo vasto
come
astronomo che ammiri
delle
stelle il lento fasto.
E se poi
le luccioline
se ne
vanno ad una ad una
come
luci chiacchierine,
figliolette
della luna
resti tu come incantato,
resta il buio innamorato.
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