venerdì 6 novembre 2020

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Emanuela Botti, Le fate ingorde (Ed. La Vita Felice 2018)

Emanuela Botti, milanese, è una signora affascinante di fisico e di mente, madre di tre figli, di facile spirito comunicativo, estremamente vivace di fronte al mondo ed alle sue problematiche che tratta in poesia nei riflessi sociali come nei risvolti individuali, spesso difficilmente sostenibili, soprattutto se il soggetto appartiene al genere femminile. Si è accostata alla consapevolezza della sua scrittura grazie alle gare del Poetry Slam Italia, in cui si è distinta a furor di pubblico, come suole accadere in questi agoni, e da allora la poesia è diventata suo percorso autorevole e continuo.

Questo libro, edito da La vita felice, consta di tre sezioni: si tratta di un viaggio doloroso e necessario a partire da momenti ruggenti, di rabbia e senso di rivalsa nei confronti di un mondo maschilista, attraverso poi percorsi più elegiaci di sofferenza e di abbandono, fino all’approdo ad una sua personale pacificazione interiore.

La dignità del proprio sesso e l’idealità dell’amore si accordano con grazia e levità in una scrittura che esalta la composizione degli opposti nell’equilibrio della completezza ed in una forma di comunicazione netta, pulita, sinteticamente efficace.

Il titolo del libro evoca nell’immediato alla mente il bel film, Le fate ignoranti, di Ozpetek.  Non mi sembra un caso: infatti riscontro molte corrispondenze tra libro e film. È ugualmente complesso, quasi ossimorico, stridente, duro e tenero insieme, violentemente carnale eppure altamente spirituale. Come il film, questo è un libro contraddittorio, in quanto va al di là della logica e sempre oltre le convenzioni generalizzate. Del resto i sentimenti umani sempre sono ambivalenti, impostati sulle nostre condizioni di incoerenza o di contrasto psico-fisico di emozione o di dubbio, sulle nostre pulsioni terrene e sulle nostre aspirazioni all’alto.

Le fate, creature magiche, mistero dell’eterno femminino di cui da sempre si favoleggia, ma anche dell’ingordigia della donna d’oggi, positiva, concreta, realistica, che vuole tutto con determinazione, anche per riscattarsi da secoli - millenni direi - in cui è stata depredata di tutto, defraudata dell’anima, delle sue potenzialità intellettuali, delle esigenze fisiche del suo corpo concupito, spesso violato dalla prepotenza sessuale maschile, corpo femminile considerato comunque come cosa al servizio di una società di stampo maschilista, lei vittima designata delle incombenze quindi anche della famiglia, della casa, della manovalanza spicciola e continua.

Emanuela canta tutto questo ricco mondo di donne, che non sono sante con l’aureola ma creature vive, fatte di impasto complicato, rabbia, bisogno di comprensione, senso di rivincita, erotismo impellente, desiderio, ma anche ricche intuizioni alte, tenerezze, spaesamenti, struggimenti emotivi, motivi contraddittori e complessi. Così come sono, del resto, i movimenti di ogni anima umana, anche di uomini - e non solo di donne - che vivano, che crescano, amino, odino, soffrano, gioiscano. Questo il fascino e la ricchezza di ogni vita che senta, che rifletta, che crei, che creda  o che disperi. La grandezza dell’Essere, insomma.

                                                                                                                                Marvi del Pozzo

Sogni accartocciati                                                                     

in memoria di tutte le donne vittime sul lavoro

 

L'abito rosso è rimasto lì

sgualcito sulla corda ad asciugare

 

Volevi stirarlo di sera, quando l'aria è più fresca


già immaginavi la seta scivolare tra le gambe

sulla pelle giovane sentivi il calore della voglia

scaldava le sue mani

 

L'abito rosso è rimasto lì

tra i tuoi sogni accartocciati sul rispetto negato

da servi del dio denaro, danzatori senza scheletro

ubriachi del tuo lavoro

 

Non so il tuo nome, ma ti conosco

Donna nata da Donna, non da costola padrona

 

L'aria  è fresca stasera

io sono rimasta qui

a stirare l'abito rosso della tua dignità

 

Hermana, yo te creo

alle donne vittime della violenza

 

Sorella io ti credo

sento l'eco chiamato paura

un silenzio di sensi atterriti

secca la gola

la pelle

le unghie

sento la rabbia schiumare dal branco

un gregge sbandato di lupi codardi

vile deflora il tuo prato

 

Brucano

illusi tu sia loro cibo:

ingoiano solo la loro miseria

 

Non serve il tuo grido sorella io ti credo

 

Mi ha molto colpita, forse per il periodo di vita in cui mi trovo, cosa che mi rende particolarmente coinvolta, il senso della malinconia del tempo che passa, di amori e cose che sfuggono tra le dita. Difficile imparare la scienza degli addii.

Efficace anche la brevità del dire di Emanuela: il suo stile essenziale, scarno, esalta, nell’efficacia delle immagini, la densità poetica del contenuto. Particolarmente intenso, reso in maniera quasi commovente, il senso della brevità ineluttabile di ogni percorso umano, così come l’autrice lo affronta nelle poesie, bellissime e sintetiche come sempre che vi propongo:

 

Pietre di memoria

 

Affama i ricordi l'autunno

la sua nebbia, insipida e ruvida

come può essere un cuore

 

I ricordi

un chiacchiericcio opaco

 

Meglio un urlo di memoria e dolore:

gelerà in pietra il perdono incattivito

e avrò ali

non artigli

 

Ricami

 

Avevo sabbia negli occhi

sentivo le ciglia indurite

e l'ora ricamava verità alle mie rughe

 

Guardavo lontano, troppo

la sabbia negli occhi era fuoco

capivo d'essere viva

mentre ascoltavo il cuore morire

 

Poca voce

 

Tu sai cosa chiedere

così, ad arte regali silenzio

un muto rifiuto

 

Più facile sembra non raccogliere ciò che vorresti

così

un altro istante muore

 

Mi resta poca voce

e tanti addii

non è arte semplice pronunciare parole già vissute

 

Tutta la sezione con cui si conclude la silloge, Riprendere il sentiero, porta in sé una conquistata serenità nel pensare e nel sentire, rispetto al “ribollire” delle due ripartizioni precedenti. Ed è il portato di un processo naturale, logico e psicologico, questa ricomposizione del sé. Dopo la rabbia, la legittima acrimonia nell’affermazione dell’io femminile, misconosciuto e vilipeso, dopo la decisa rivendicazione dell’eros che, con l’alternarsi di altezze e baratri abissali, fa parte di una femminilità storicamente, volutamente ignorata, l’autrice - lo abbiamo già detto - giunge alfine ad una serena pacificazione. La ricomposizione è potuta avvenire attraverso questo sofferto viaggio, scavato dentro la propria interiorità. È stata per l’autrice una personale Divina Commedia, viaggio doloroso ed impervio, ma dalla sofferenza è nata una consapevolezza che va ben oltre l’accettazione di sé, che porta ad intuire, e forse a disegnare, una nuova geografia per tante altre donne del nostro tempo.

 

Rimasugli

 

Guardami

un tiepido sorriso che invidia una risata

come un rossetto caldo vermiglio

dimenticato aperto tra rimasugli d'ovatta

 

Un raggio polveroso lo brilla

e gli attimi, non il tempo

lo asciugano

 

È l'ora

 

La luce sta calando

il vento caldo soffia polvere

come i baci di chi non c'è

 

È l'ora dove senti che il male non dimentica

ma l'amore ti protegge ancora

 

Alla scuola del mio canto

 

Quando canto sono oltre la caduta

amo la mia voce

 

Canto il tonfo dei tuoi baci

ne sento l'eco

 

Poi tra gli occhi raduno lontananza:

con gli anni s'impara

 

 

 

 

 

 

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