sabato 9 novembre 2019

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Anita Menegozzo

Vi presento oggi Anita Menegozzo, poetessa veneziana, anzi si presenta da sola con la poesia
           

Biografia
 
Lasciatemi il diritto al mio banale
a voi quello che sogno perché scrivo
a me quello che resta del mio sogno
Si vive dentro un nome e non di quello
si vive per capirlo
uscirne
e poi passarlo
prezioso ma leggero
e ancora più selvaggio a cavalcarlo
Non altro tra il vagito ed il saluto
se non quel gesto privo di rimedio
che fa spiccare in volo ciò che sento
in piedi sulle punte e braccia tese,
le mani più che posso oltre la testa
lo sguardo oltre me stessa
sperando che chi passa
una mia qualche briciola raccolga

Voce particolarmente originale ed intensa della poesia contemporanea, tra tutte quella che incarna più da vicino – a mio avviso – il pensiero di una grande saggista e scrittrice, defunta nell’agosto scorso, Toni Morrison. In un suo saggio, che presto sarà pubblicato in Italia da Frassinelli, la Morrison parla dell’importanza di ogni parola e scrive: “Forse nella morte sta il significato della vita. Ma produciamo il linguaggio e nelle parole è  la misura delle nostre vite”.
La parola poetica, infatti, crea vita e salva la vita nelle vicende dolorose dell’esistenza con la sua forza: la parola della poesia, come la goccia scava la pietra, scava nell’anima una sua traccia, che può restare indelebile. Non ha fretta, la poesia è un tempo che indugia, che non si chiude. Sono parole che fanno del bene, che avvicinano non che allontanano, anche quando sono stridenti o dirompenti, quando sembra sezionino il cuore. Le parole di Anita non stendono giù con un pugno, anche  quando negli accostamenti sono violente o laceranti. Procurano invece compartecipazione, coinvolgimento, riflessione, diventano “parole – creature viventi” (Eugenio Borgna): ci insegnano a conoscerci e a conoscere perché non sono parole morte, ma vive di passione e di dolore autentico e, come giustamente dice Simone Weil, “non c’è conoscenza senza sofferenza”.
E’ bello scoprire la nascita di queste parole poetiche di Anita e seguirne la vita: non sono simulacri, non sono maschere letterarie, ma crescono in progressione come creature viventi, pronte ad una vita di passione, fino in fondo, lottatrici. Come l’uomo in generale sperano di non morire mai e forse ci riusciranno ad eternarsi, tanto sono vere e potenti. Le parole poetiche vendicano gli autori, talora, e li compensano delle vicende della vita, dolorose e sempre combattute, mai nulla di regalato o di scontato.

La poesia di Anita è di ampio respiro e di vaste tematiche. Si parla spesso di natura antropomorfa, cui presta voce, sentimenti, quasi forma fisica umana. Si parla di sentimenti: molto vengono analizzati i moti del cuore, totalmente dissimili, dell’uomo e della donna nel contrastato modo di concepire un rapporto semplicisticamente definito d’amore. Ma esamina col cuore anche momenti tragici della storia dell’umanità, come nei testi legati al film Roma città aperta di Rossellini o alle madri di Plaza de Mayo. Sono poesie da brivido, che chi legge non potrà scordare più e che porteranno a scelte di vita inevitabilmente schierate verso il bene, la pace, i valori umani. Una poesia che costruisce, che educa, che lavora in noi, senza una volontà dichiarata dell’autrice, ma solo con la semplice forza della  parola, dell’essere poesia.
E’ una poesia di espressionismo magico, che sembra essersi fatta da sé, strana, persino stravagante negli accostamenti lessicali, quasi mai logici, sempre analogici, nell’uso originale di figure retoriche: iperboli, anafore, metafore, usate in modo inconsueto ma che risultano di grande naturalezza. E’ tutta una figura fonetica, giochi sonori di assonanze sguinzagliati attraverso la musica lenta e maestosa di endecasillabi, alternati a combinazioni metriche diverse che servono a frenare, interrompere, dilatare gli effetti musicali troppo uniformi. Ne emerge una struttura di canto perfettamente armonizzato. La musica, però, non sempre è edificante: c’è una musica atonale di dissonanze, di dirompenze, di sconnessione con le regole della musica tradizionale. Così è anche la poesia di Anita: non fermatevi al ritmo che talora volutamente si inceppa, non giudicatela se il verso talora ha una sillaba in più o in meno dei canoni classici, cosa che sembra rendere la lettura ad alta voce più faticosa. E’ un effetto suggestivo che risulta così amplificato ed insistito, da creare un’eco interiore dirompente nel lettore, effetto a parer mio proprio ricercato e voluto dall’autrice.
Ci sono tuttavia anche poesie di assoluta perfezione ritmica e stilistica: anche qui possiamo constatarlo dalla lettura ad alta voce, dalla caduta precisa di ogni accento nel verso, sempre calibrato nell’andamento e nelle pause che creano  un’onda musicale di raro equilibrio. Si veda, ad esempio, Il suono dell’inchiostro.

Ho conosciuto casualmente Anita quando un giorno del maggio scorso entrò nella sala dove parlavo del poeta cileno futurista Huidobro. Ora capisco perché il suo intervento alla fine fu così puntuale. Le immagini ardite e il clima poetico alogico di Huidobro sono la sua chiave creativa, come per esempio nella poesia Neve, in cui la neve è essa stessa una candida luna che cade in fiocchi:

Neve
Se sono stata sola
nella neve
ad ascoltarmi i passi
lei mi reggeva
che non sprofondassi
Incarnazione bianca del silenzio
mi abbraccia
ancora adesso
eppure senza chiedermi la luna
perché la luna
in fondo
altri non è che lei
che cade in fiocchi
Da sempre
fingo un senso di sorpresa
ma io la sento prima quando arriva
e la indovino tutta dall'odore
fra il mistico
il filosofo
e il fratello
Profumo che farebbe il pane in forno
se il freddo fosse cuoco
come il caldo
La neve mentre cade tutta intorno
per un momento
il mondo sa di buono

E’ una poesia che succede, che accade, che ha una sua conformazione artistica che forse va, per magia, al di là degli effetti voluti dall’autrice. E’ creazione artistica allo stato puro e vive della sua vita autonoma.
Non chiediamoci il rapporto tra abbandono al sogno e concretezza reale, tra reale ed immaginifico, tra possibile ed impossibile, tra logico ed analogico. Il miracolo dell’arte poetica dirime ogni contrasto. Le voci del mondo sommerso, fatte di un sentire sommesso e misterioso, dicono più di mille parole accademiche.

Per dodici volte
Per dodici volte: FRANCESCO
non altro fragore non altro silenzio che dodici volte: FRANCESCO
per dodici eterni rintocchi per dodici estremi richiami
E' Pina che insegue il suo uomo che insegue quel camion tedesco
la Pina che chiama
la Pina che sveglia che invoca che vuole FRANCESCO
e prega e bestemmia FRANCESCO che pare perfino arrabbiata
Se solo ti prendo ti giuro da me non ti salvi FRANCESCO
FRANCESCO ci sono e resisto FRANCESCO se corro ti prendo la mano
mi aggrappo di peso e ti salvo ricorda FRANCESCO ti amo
E grida la Pina da belva ferita
la voce che suona a martello
e noi lì a sperare che almeno stavolta
finisca in un modo diverso.

Finché non sentiamo sparare e resta il suo corpo riverso
L'han fatta tacere la Pina
perché col tuo nome tra i denti
avrebbe ridotto l'esercito in fuga
avrebbe convinto i tedeschi alla resa
vincendo la guerra da sola
Per questo hanno preso la mira
sì come si abbatte un uccello
e lei si è schiantata di colpo
che ancora gridava FRANCESCO
Noi tutti possiamo sentirla
davanti a un nemico se cala il silenzio
la Pina che chiama gridando
ognuno di noi come fosse FRANCESCO
E se guardi bene di piume di Pina
ancora ne stanno cadendo
accade durante le notti più lunghe
oppure nei giorni di vento

Vieni
Vieni con me in giardino
tracciamo un bel confine profondo nella ghiaia
e poi si fa la guerra
giochiamo che tu eri il mio nemico
che io sono il più forte e così vinco
Facciamo che quest'oggi tira vento
e ti ho ferito a morte
se no mi avresti ucciso tu per primo
Si fa a chi spara meglio
si fa a chi è più veloce
e va da sé si sa che poi si muore

Non ho capito ancora
perché da qualche cielo sulla
testa nessuno ci interrompa
nessuno chiami mai per la merenda
dicendo tutti a casa senza scampo
Su presto che a momenti farà buio
Su presto che a momenti farà freddo

Certi fiori
E’ quel posar la testa
i bimbi
al sonno
che ho visto solamente in certi fiori
scampati al temporale
perfetti d'abbandono
e paghi di asciugare dentro un raggio
Un cucciolo e il suo sogno si sognano l'un l'altro
Covarli può lasciarti senza fiato
ma a vivere ti basta il suo respiro
e ricamargli il viso con lo sguardo
Reggendo il suo dormire
reggi il mondo
che possa rigiocarci al suo risveglio
Ma se tu bracchi d'ansia
il suo domani
lo stringi troppo forte
che quasi
gli fai un male che si sveglia

Il suono dell'inchiostro
Ho scritto molto e intorno a molte cose
parole senza l'ombra di intenzione
piovevano nel cavo delle mani.

Illusa di poterle trattenere
illusa di riuscire a raccontarle
le ho scritte senza meta
senza pretesa alcuna di capirle
di farle sembrar vere
che il suono dell'inchiostro
bastava per cantarle.
               
Scalciando
In principio tuffammo di testa
scaturimmo scalciando
da madre infinita
fin giù fuori a toccare la terra.
Contestammo incompresi
la fretta dell'ultima spinta
e vi fu chi derise quell'aria smarrita
se pur con tenerezza.
Da quel giorno ogni giorno è leggenda
ma alla fine di questa partita
servirà ancora un tuffo alla cieca
l'espressione da salto nel buio la stessa
forse un po' più stupita.
Ciò che conta è imparare a lasciarsi cadere
con la stessa incrollata fiducia
come i primi anche gli ultimi passi
Ciò che conta è cantare la favola intera
senza averla del tutto capita

Plaza de Mayo
Chissà da quanto tempo che non dico
io stringo forte al collo
un cencio bianco antico che sa di nodo in gola
Il poco fiato stento che è rimasto
lo tengo insieme giorno dopo giorno
e nodo dopo nodo dopo nodo
e notte insonne dopo notte in bianco
Col tempo incanutisco
ma per eccesso puro di dolore
imbianco e non invecchio
e tengo insieme tutti quanti i pezzi
di un viso troppo stanco nel fazzoletto liso
che lego ancora stretto al mio ricordo

Io sopravvivo tutta di traverso
come un granello lacrima nell'occhio
Per ogni nodo un figlio mai tornato
che te lo sei sognato che non è mai esistito
Voi tratti via di notte
come si fa da sempre per anime al macello
voi tutti giù ingoiati dal silenzio
come fioccasse neve incontro al buio
sporgetevi da ovunque vi troviate
se per un solo istante dall'alto mi guardate
sarò quella qualsiasi tra le madri
tra mille poco più che un fiore bianco

                              Marvi del Pozzo

Anita Menegozzo ha pubblicato i libri di poesia: La goccia di me stessa con cui scrivo (Edizioni el squero, Venezia 2014); Starti tra le mani (Edizioni  el squero, Venezia 2015); Poetare dell’amore non mi basta (Edizioni  el squero, Venezia 2018)








venerdì 11 ottobre 2019

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Angela Suppo, Senza indicazione di Tempo (Ed. La Vita Felice 2019)


Adolescenza
 
Come è audace
il papavero
che, a marzo, alza la testa!

Adolescente impudente,
frettoloso di vita,
inquieta il prato
di primavera.

***

Le rane di primavera

Le rane fornicatrici
delle notti di primavera
annunciano la loro stagione.

Anche per noi:
inteneriti ascoltiamo,
nel quieto delle coperte,
uniti dal nostro autunno.

***

Montegrazie respira
dietro le porte.
Verdi come pensieri,
freschi di alberi e sole.

Montegrazie invecchia
i suoi vecchi e stupisce di bambini.

Montegrazie mi regala
chiarore di aria e di foglie.

Innamorata mi affaccio:
creature vegetali, e il mio geco,
guizzanti pennellate di verde su verde,
si illuminano al sole.

***

Lascia crescere la cicoria:
non darmi foglie ignave
e piccolette,
ma il crocchio vegetale
che sai,
e olio e aceto e sale.

Dammi il tepore
della terra nuova,
e in campi girasoli
che il caldo innamora,
e abbatte di desiderio.

Dammi terra matura
e campi di silenzio, e alberi lontani
per ascoltare il vento.

***

Separazione

Te ne sei andato.

Le tue cose raccolte dal cassetto,
nelle valigie delle vacanze,
(più non saranno:
bagagli e luoghi diversi –  io spero –
ci attendono).

Dopo ho spostato il tavolo,
le sedie.
Dopo ho spostato mobili
e disappeso quadri.

Potrei, oggi, rivoltare la casa,
come se anche la mia anima,
leggera, componibile,
io potessi rovesciare,
e cancellare,
e cancellarti.

***

Storia di luglio

In quella città – diceva –
¬abbiamo camminato
sotto portici e logge,
e conversato, la sera,
tra bicchieri, scoppi di risa,
frammenti di pensieri.

Ci bastava tacere
per seguire il sentiero
della mente dell'altro,
e consentire ai confini
datati di una storia,
già tutta affidata alla memoria,
in uno scatto di fotografia,
senza diritto alla malinconia.

***

Ex

Come amante sei stato
il solito pretesto sbagliato,
per dire che non va.

Un uomo scelto a caso,
forse desiderato
per sfida e farsi male.

Come amante
non certo dei migliori,
avaro di fiori
e di parole,
prodigo solo di gambe
sotto i tavoli.


Oggi vi presento alcune poesie di Angela Suppo, tratte dal suo primo libro Senza indicazione di tempo, Edizioni La vita felice 2019.
E’ il canto libero, senza condizionamenti, senza appartenenza, di chi con sguardo poetico ed attento considera le esperienze vissute in una parte considerevole della vita con l’occhio equilibrato di chi è già andato oltre, superando gli scogli dolorosi del tempo e parla quindi a se stessa ed agli altri cogliendo, senza più acrimonia ma con saggezza ed armonia, spesso addirittura con stupore bambino, i giochi della vita e la sconcertante epopea di tutti noi che svolgiamo un percorso del vivere più o meno analogo seppur variabile negli eventi spiccioli delle diverse vicende.
Ma il tempo di Angela non è solo soggettivo, anche se molta parte ha quello della sua prima giovinezza, delle scoperte, della natura con cui imbastisce accordi affettuosi, di cui ama investigare la vita segreta al fine di percepirne, o almeno intuirne, l’essenza. Le risposte arrivano da anima ad anima attraverso la misteriosa corrispondenza panica insita nelle creature, in tutte, siano esse vegetali od animali, o anche appartenenti a mondi solo apparentemente amorfi e senza storia come il mondo delle cose, degli oggetti.
C’è poi il tempo del ricordo, quello dolce e quello amaro, quello dell’autocritica, quello dell’ironia sugli altri e su noi stessi. C’è il momento in cui disseppelliamo i nostri fantasmi, c’è quello in cui ci ritroviamo altro da noi perché i decenni passati ci hanno mutato dentro e fuori e soffriamo quindi di questo mancato riconoscimento di noi stessi; altri momenti viceversa in cui quasi anacronisticamente ci riscopriamo magicamente identici al noi di vari decenni prima, come non ci fossimo mai mossi dall’adolescenza, con la stessa indistruttibile passione di agire, di sentire, di amare, di godere la vita e ci sentiamo padroni, col mondo in pugno come allora, in preda ad un sentimento di onnipotenza per ricchezza di emozioni e di passioni uguali come un tempo.
Tutti questi momenti di tempo esistenziale trovano spazio nelle poesie di Angela, ma c’è anche in lei un estrinsecarsi diverso del concetto di tempo.  C’è infatti il tempo come entità metafisica, quello che non ha bisogno del controllo dell’orologio, c’è la ricerca di un’eternità possibile, c’è il tempo dilatato della preghiera nella realtà di un Dio che non risponde ma la cui presenza si ricerca e che continua ad aleggiare senza preclusione di tempo, senza valutazione di ore, mesi, anni o vita intera. E’ la ricerca di un senso ultimo, la risposta a dubbi che durano da sempre, cui forse non c’è risposta mai, logicamente parlando. Ma c’è anche la stagione metereologica che si eternizza al di là del trascorrere del mese, dell’anno in corso: “il papavero audace, adolescente, impudente che a marzo alza la testa”, come dicono i versi, vivrà per sempre, per tutti i mesi di marzo possibili, a venire, nella mente del lettore, evocando altri quadri di incanto e altre suggestioni antropomorfe, così come le “rane fornicatrici” vivranno ben al di là della loro vita limitata in quello stagno, in quel serbatoio d’acqua, in quel momento storico preciso ed ormai andato e consumato. E’ la bacchetta magica della poesia, quella del poeta rabdomante che anima le cose  insufflandovi la vita e spariglia le carte della logica perché esiste un sapere intuitivo ed emozionale.
Angela Suppo vivifica il mondo intorno a sé con la sua arte e mette in pratica, in modo quanto mai contemporaneo, l’assunto del poeta tedesco dell’Ottocento Joseph von Eichendorff. Lui era un romantico, Angela certo che no, però l’effetto della poesia era quello e resta quello. Diceva von Eichendorff in una sua poesia:

Dorme un canto in ogni cosa
destinata a sognare senza fine
se trovi la magia della parola
il mondo allora innalzerà il suo canto

Angela la magia della parola la conosce bene: rende il ricordo realtà attuale e, viceversa, riempie la realtà di elementi immaginifici, talora onirici, misteriosi, sfuggenti, sempre comunque intriganti.

Ma di cosa è fatta la poesia di Angela, quale la sua cifra caratteristica? L’ha ben individuata la prefazione del poeta Giuseppe Conte, che con il suo acume e la grande esperienza poetica ha colto nella “grazia” dell’autrice la peculiarità determinante il percorso poetico del libro. Sono del tutto d’accordo: la musicalità, il ritmo scandito, l’originalità delle figure, i registri linguistici sono di raro equilibrio: non una parola disturbante, non un termine lessicale che possa essere privo di garbo, signorilità, che rasenti qualcosa di dozzinale, che si avvicini alla banalità, quando non alla volgarità, dei tempi. E’ poesia raffinata e sapiente, giocata però su un linguaggio lapidario e contemporaneo, su figure di bellezza ardita ma in un dire essenziale, sempre estremamente sintetico, preciso – “giusto” avrebbe detto Flaubert – sempre alla ricerca della parola unica, pregnante al massimo. E’ difficile ottenere in questa forma così stringata una tale capacità di evocazione, di suggestione del lettore che aggiunge di suo le immagini proprie, ricordi a ricordi, il cumulo e l’accumulo delle proprie fantasie. E il lettore si appropria del testo e lo fa suo: la fulmineità e l’arditezza entrano nel cuore di chi legge con totale ed immediata autenticità.
Il bello di questa poesia è che nessuno può mettere in dubbio la sincerità del sentire di Angela. Lei scrive per comunicare se stessa, mettendo a nudo, anche talora coraggiosamente, il suo modo di essere vitale, schietta, talora con un briciolo di sensualità e di provocatorietà, a suo modo fanciullescamente innocente. E anche qui è questione di “grazia”, lo capite bene.
A proposito di quanto detto, noterete anche voi dalla lettura dei testi la varietà delle sfaccettature di questa poesia, la mutevolezza e la ricchezza dei registri stilistici. L’autrice, abbiamo convenuto, è gentile nel suo approccio col mondo, elegante, raffinata, misurata lessicalmente e stilisticamente, ma talora è più che ironica, è mordace, persino caustica, assai vicina al sarcasmo. Il tutto sempre in brevi, lapidari versi.
La scelta dei testi che vi propongo può risultare disorientante per chi legge: è concepita proprio perché tocchiate con mano la varietà delle atmosfere che l’autrice riesce a creare, mutando quasi di personalità. Ma nessuno di noi è uniforme, sempre identico a se stesso nel variare continuo del tempo, delle circostanze, dei rapporti col mondo e con le cose. Questo è il fascino della persona umana e del fluire della vita fin dai tempi di Eraclito e del suo “panta rei”.

In una precedente lettura condivisa proponevo un testo di Giuseppe Conte sostenendo che la poesia, quando è autentica, lascia un solco destinato a dare frutti in avvenire tramite altra futura poesia. Si costituisce così un anello basilare nella circolarità di un ritorno di riferimenti culturali ed umani che legano passato  e presente letterario.
Ebbene Angela Suppo porta avanti nei suoi versi, a parer mio, l’atmosfera affettiva colloquiale del migliore Attilio Bertolucci, ma anche la verve ironica, di lapidaria attualità, di Daria Menicanti, poetessa della metà del Novecento, in quest’ultimo decennio riscoperta e profondamente rivalutata. Mi piace dunque avvicinare alle letture di Angela di Montegrazie respira e di Lascia crescere la cicoria il testo di Attilio Bertolucci che vi riporto qui di seguito:

                                              
At home

Il sole lentamente si sposta
sulla nostra vita, sulla paziente
storia dei giorni che un mite
calore accende, d'affetti e di memorie.

A quest'ora meridiana
lo spaniel invecchia sul mattone
tiepido, il tuo cappello di paglia
s'allontana nell'ombra della casa.

Affianco anche a Separazione, Storia di luglio ed Ex di Angela i seguenti versi di Daria Menicanti:               
A Venezia con uno

… Questa
era Venezia quel giorno, città
per innamorati e poeti. Io non ero
né l’una cosa né l’altra
o non più.
Ero spietata e asciutta. Gli ridevo
in faccia
e tutto mi faceva ira.

***
                                              
Vivere è

Vivere è non sapere le ragioni.
Dopo un silenzio da contarsi a mesi
o anni, questa sera
ho una cena ridente affollata.
Al vino amaro si riscalda, a belle
donne, alle rose alte la cena.
Seduta accanto a lui, commensale adulato,
mi sento al sole. Affilo le mie spade
per la prima apertura di guardia.
Vivere è tutti i giorni cominciare.

                                               ***
                                              
Ultimo

Qualcuno va a nozze. Gran gente
al party. Io so che anche tu
ci sei che neppure ti cerco.
Giro di gruppo in gruppo ridendo
evitando tartine aperitivi.
Sono sicura che a un momento dato
mi sarai accanto tu denso tu oscuro
uomo solo e roccioso
col bicchiere gelato color erbe.
un veleno di più. Da ieri
so come sei e tu come sono io
e c'è questo fra noi filo non visto
così tiepido e dolce, tranquillo.
Io ti prendo con gli occhi. ti chiudo
dentro le palpebre e, Dio,
grazie per quest'ultimo amore.

E’ un suggerimento all’analisi e alla libera riflessione di chi voglia condividere questa rubrica con me. I legami e le interrelazioni tra poeti del passato e del presente si moltiplicano in un tempo di lettura che viene ad eternarsi nell’incantamento dell’arte.