lunedì 29 giugno 2020

Consigli di lettura a cura di Rita Pacilio: giugno 2020


Parole di carta, parole di cartone di Rita Caramma – Youcanprint – 2018
Inedito di Antonietta Gnerre
Inedito di Monia Gaita
Inedito di Giuseppe Vetromile
Un addio - inedito di Lara Cerutti


La poesia restituisce alla poesia

La poesia, quando analizza la realtà del nostro presente, mostra, consapevolmente o inconsciamente, il mistero della quotidianità, la tensione e il dubbio di tutti gli esseri viventi. La parola si carica di intimismo escludendo toni aspri e diaristico/moralistici, nonostante la crisi del momento storico. Per questo la  poiesis continua a ricercare e a includere le celate passioni a favore della memoria per restituire all’immagine visionaria linguaggi in allestimento e il trambusto delle nuove nascite. Del resto, il tentativo di evasione dalla pena della vita negozia con la consapevolezza della libertà nel presente, unica vera via di uscita per amare.

da Parole di carta, parole di cartone di Rita Caramma – Youcanprint – 2018

E, adesso, sediamoci intorno a un tavolo,
che di ricordi siamo ricche e stanche.
Una carta a me
una a te,
una a me, un’altra a te.
Ci dividiamo la fortuna e la vita
come facevamo da bambine
tra zabaione e Nutella.
Prendimi ancora una volta per mano
Tilde,
che lontana  è l’ora di andare.


Inedito di Antonietta Gnerre

Non sono pronta a dirmi addio.
La gioia di quel poco che ho imparato
mi riporta al primo giorno.
Oltre ciò che sono.
L’allenamento che ripeto per trattenermi
l’ho imparato a fare da bambina.
Smetto di riconoscere il vento.
Muore un tulipano, la mia foto,
il libro che avevo sul comodino.
Il mare mi educa al silenzio.
Guardo l’azzurro che non c’è.
Gli alberi mutano in forma di ricordo,
anche loro non sono pronti a dirmi addio.


Inedito di Monia Gaita

Ti lascio un bacio
Ti lascio un bacio ai piedi dell’albero,
lo incollo a cucitura stretta sulle foglie.

Giuro sul crocefisso del presente,
amerò altro:

la borsa, il cielo, la sedia,
il brusco fumigante degli spini.

Non voglio più farmi debole,
provare la solitudine del reduce.
Non voglio più venire uccisa e derubata.

Abiterò il santuario dell’uguale.
Nessun campanello d’allarme
legato intorno al collo.

Non franerò nel tuo guasto stampo.

Si abbatteranno le passioni
come pali di salice.
Mi lascerò sorprendere dalle facce note.

Emergerò
da tutto quello che mi aveva divorato


Un addio - inedito di Lara Cerutti

Sono passate le rondini
a raschiare il mio cielo.
A chiamarti.

Tu migri,
le ali rapprese
in azzurri lontani. D'addio.

La gabbia sfianca il grido.
Qui
mi scopro colomba
E già depongo l'ultima piuma.

Vattene, vattene! Non tornare mai più.

Al dente di lupa
che azzanna la lingua
con cui sfrondo il domani
strofino via la placca ostinata dei se.

Ora mi tace il suono, m'offende.

Rimane un guaito minore.
Un cuore sfilato.
Un gesto monco.

Inedito di Giuseppe Vetromile

Adunata delle ore guardinghe

Mi spiega l'angelo prima della mezzanotte
il necessario bagaglio per un tragitto senza mani né piedi
sulla coltre del letto

Da raggiungere è se possibile il sogno
nell'adunata delle ore guardinghe
che stanno tutte lì accantonate in un angolo
dopo la burrasca del giorno

Ho preso dunque il volto di mio padre tra le mani
e una vecchia scartoffia ingiallita
dove è ancora chiaro qualche tratto di preghiera

Poi ho chiuso il cielo nel cassetto della scrivania
e ho spento stelle lontane dalla mia stazione terrena

Così mi sono coricato con la ricchezza sotto il guanciale
di quelle cose che solo servono
a dare un senso alla morte
e alla vita

Rita Caramma è giornalista e scrittrice.
Per poesia ha pubblicato: “Nella mia ricca solitudine” (Il Filo – Roma – 2005), “Retrospettive dell’inquietudine” (Zona - Arezzo – 2008), “Ti parlerò d’amor” (Drepanum – Trapani – 2016), “Parole di carta, parole di cartone” (Youcanprint – 2018). Per la narrativa il racconto lungo “Tecla” (Youcanprint – 2019) e il romanzo “Pane e saline” (Casta ed. - 2020)
Per il teatro: “Vestale di maschere” composta dai due monologhi: “Una vestale di nome Ginevra” e “Trilogia di una maschare” (Zona – 2010) e “Respiri migranti” (CR – Acireale – 2018), di quest’ultimo ha curato anche la regia. Ha scritto le favole in rima “Il ragno” (Arteincircolo
2007) e “Gelsomina” (Youcanprint – 2018). Ha curato diverse antologie di poesie e racconti come “Sicilia tra versi sparsi” “Giulio Perrone editore (2006) e “Racconti di Sicilia” (Giulio Perrone – 2009). Nel 2019 è stata pubblicata l’antologia “Quando i paesi dormono” (La vita felice ed.), un progetto poetico italo-georgiano che la vede in veste di prefatrice. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti a livello nazionale, fra questi nel 2010 le è stato conferito il premio “Ercole Patti” per il suo impegno culturale.

Antonietta Gnerre - 1970, è poetessa, scrittrice per ragazzi, critico letterario, saggista, giornalista e promotrice culturale. Laureata in Scienze Religiose si occupa come studiosa della poesia religiosa del ‘900. Collabora con la Cattedra di Diritto e Letteratura del Prof. Felice Casucci, Università del Sannio (BN) e con l’Università Irpina del Tempo Libero. Ha pubblicato le sillogi poetiche: Il Silenzio della Luna (Menna,1994), Anime di Foglie (Delta 3, 1996), Fiori di Vetro- Restauri di Solitudine (Fara, 2007), Preghiere di una Poetessa (Lo Spirito della Poesia, Fara, 2008), Pigmenti (Edizioni L’Arca Felice, 2010), I ricordi dovuti (Le Gemme, Edizione Progetto Cultura, 2015). I Saggi: Meditazione poetica e Teologica in Mario Luzi ( Delta 3, 2008), Cristina Campo – Il viaggio silenzioso e spirituale, Forme di pensieri, saggi di Diritto e Letteratura, a cura di Felice Casucci (ESI, Napoli, 2013 - 2015). Ha curato insieme a Rita Pacilio l’Antologia poetica “Una luce sorveglia l’infinito” sul tema del Giubileo della Misericordia (La Vita Felice 2016) e insieme alla famiglia Bellofatto, l’antologia “Abracci” (D&P 2016). Consulenza e postfazione del libro di Andrea Fazioli “La beata analfabeta. Teresa Manganiello, la sapienza delle erbe (San Paolo, 2016. Collana Vite Esagerate). La favola “La storia di Pilli” (Scuderi Editrice, 2019). È Presidente del PREMIO Internazionale PRATA, la cultura nella Basilica, giunto alla XIV ed. e Direttore artistico della Festa dei Libri e dei Fumetti di Avella. Collabora come opinionista con quotidiani e riviste religiose e come critico letterario e intervistatrice con riviste cartacee e on line di cultura poetica. Sue opere sono state tradotte in spagnolo e sloveno.

Monia Gaita è nata a Imola (BO) il 7-11-71 ma vive da sempre a Montefredane, paese d’origine in provincia di Avellino.
Giornalista e critico letterario, ha all’attivo le seguenti pubblicazioni: Rimandi (Montedit-2000), Ferroluna (Montedit-2002), Chiave di volta (Montedit-2003), Puntasecca (Istituto Italiano Cultura Napoli-2006), Falsomagro (Editore Guida-2008), Moniaspina (L’Arca Felice-2010), Madre terra (Passigli-2015), libro, questo, che ha ottenuto il Premio di Letteratura allo Spoleto Art Festival 2016.
Diverse le antologie che si sono occupate della sua poesia.
Collabora a “Il Quotidiano del Sud” e a importanti riviste web e cartacee. La sua scrittura si connota per un uso libero della lingua che punta a coniugare lessemi ricercati e parole attinte al quotidiano in originale mescidanza.
È direttore della Delta3 Edizioni.
Porta avanti nella sua Montefredane, con la Proloco che presiede, il Premio di Cultura “Oreste Giordano”, volto a valorizzare eminenti personalità del mondo giornalistico, della poesia, della scrittura, dell’arte e della scienza.

Lara Cerutti nasce a Pavia il 21/06/1968. Impara a scrivere all’età di quattro anni. Non riesce più a smettere.

Giuseppe Vetromile è nato a Napoli nel 1949. Svolge la sua attività letteraria a Sant'Anastasia (Na), città in cui risiede dal 1980. Ha ricevuto riconoscimenti sia per la poesia che per la narrativa in importanti concorsi letterari nazionali. Numerosissimi sono stati i primi premi.
Ha pubblicato più di 20 di libri di poesie, gli ultimi dei quali sono Cantico del possibile approdo (Scuderi, 2005), Inventari apocrifi (Bastogi, 2009), Ritratti in lavorazione (Edizioni del Calatino, 2011), Percorsi alternativi (Marcus Edizioni, 2013), Congiunzioni e rimarginature (Scuderi, 2015), Il lato basso del quadrato (La Vita Felice, 2017), Proprietà dell'attesa (RPlibri, 2020), ed il libro di narrativa Il signor Attilio Cìndramoe altri perdenti con (Kairos, 2010).  Ha curato diverse antologie, tra le quali:Percezioni dell'invisibile, L'Arca Felice Edizioni di Mario Fresa, Salerno, 2013; Ifigenia siamo noi (2015) e Mare nostro quotidiano (2018) per la Scuderi Editrice di Avellino. È il fondatore e il responsabile del Circolo Letterario Anastasiano. Fa parte di giurie in importanti concorsi letterari nazionali. Organizza incontri ed eventi letterari, tra cui le rassegne letterarie Il London Park Letterario a Sant'Anastasia, in collaborazione con Vanina Zaccaria, e Un caffè da Mancini presso la Libreria Mancini di Napoli in collaborazione con Gennaro M. Guaccio. È l’ideatore e il coordinatore del Premio Nazionale di Poesia “Città di Sant’Anastasia". Cura diversi blog letterari (Circolo Letterario Anastasiano, Transiti Poetici, Taccuino Anastasiano, Selezione di Concorsi Letterari), ed inoltre collabora attivamente con altre associazioni e operatori culturali del territorio nella realizzazione di eventi letterari di rilievo, prodigandosi anche nella ricerca di nuovi “talenti” poetici.



lunedì 15 giugno 2020

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Pierluigi Cappello - Parte II


Riprendendo a parlare di Pierluigi Cappello in questa seconda parte, mi rendo conto che non ho accennato all’ambivalenza del successo, pure immediato, della sua poesia. In effetti era un poeta molto letto ed amato dal pubblico, come molti furono i riconoscimenti ed i premi letterari ottenuti, eppure molta parte della critica letteraria e numerosi “colleghi” poeti lo hanno considerato  con snobismo, come un caso di poesia di “facile intenerimento” a causa della sventurata sorte di un giovane infelice. Il suo sarebbe stato un successo più legato alla biografia che al valore poetico intrinseco. Superficialità, invidiose malevolenze non hanno impedito, alla lunga e post mortem, un giudizio più equanime e serio sulla grandezza di tale poesia: del resto la sua figura di friulano montanaro, figlio e cantore di un mondo marginale e provinciale, ne rendeva difficile la comprensione alle ambiziose voci poetiche cittadine, espressione di una civiltà del benessere, smaniosa di successi, gloria e corone d’alloro. Era facile etichettare la poesia di Cappello come poesia piena di sentimentalismi, espressione peraltro di una civiltà contadina che aveva fatto il suo tempo.

Ma egli, pur combattendo la propria solitaria battaglia tra parola e corpo, si sentiva poeta proprio in quanto appartenente alla comunità montana di poveri lottatori ai margini del paese, che dovevano lavorare in Austria o in Germania, o che si sfiancavano tra sventure, incidenti, terremoti, abbandoni, sfollamenti, con la forza di non abbattersi mai, che regalavano al mondo la stessa lezione morale della Ginestra di Leopardi, ma senza la presunzione di volerla dare, questa lezione, a chicchessia: si era così, forti e tenaci, per natura, per un senso di dignità umana e di appartenenza all’Umanità. “Sono nato al di qua di questi fogli”, scrive il poeta.

La forza della solidarietà all’Umano, dell’ostinazione nella pacatezza, era nel DNA del friulano e servì indubbiamente, come ancora di salvezza, al giovane Cappello dopo la sventura, ma resta anche come cifra distintiva della sua poesia.
Parlavo dei riconoscimenti ottenuti. Tra i più rilevanti:

*      Laurea honoris causa  in Scienza della formazione presso l’Università di Udine (2013)
*      Cittadinanza onoraria di Udine (2013)
*      Premio Montale, ultima assegnazione prima della sospensione di tale riconoscimento (2004)
*      Premio nazionale letterario di Pisa (2006)
*      Premio Viareggio (2010), ottenuto col suo volume Mandate a dire all’Imperatore

Ritengo che basterebbe la poesia iniziale di questa felice raccolta (Mandate a dire all’Imperatore, Edizione Crocetti 2010) per tacitare ogni voce accusante i versi di Cappello  di “facilità” e di sentimentalismo da donnicciole.

Mandate a dire all’imperatore
                        nulla nessuno in nessun luogo mai
                        Vittorio Sereni
Così come oggi tanti anni fa
mandate a dire all'imperatore
che tutti i pozzi si sono seccati
e brilla il sasso lasciato dall'acqua
orientate le vostre prore dentro l'arsura
perché qui c'è da camminare nel buio della parola
l’orlo di lino contro gli stinchi
e, tenuti appena da un battito,           
il sole contro, il rosso sotto le palpebre
premerete sentieri vastissimi
vasti da non avere direzione
e accorderete la vostra durezza
alla durezza dello scorpione
alla ruminazione del cammello
alla fibra di ogni radice
liscia, la stella liscia, del vostro sguardo
staccato dall'occhio, palpiterà
né zenit né nadir
in nessun luogo, mai.

Forse è necessaria qualche spiegazione al titolo della raccolta e a questo suo primo testo.
Il Milione di Marco Polo ed il suo viaggio esotico nel Catai alla corte di Qubilai Khan ha ispirato varie opere letterarie. Ricordo la scenografia fantastica, quasi mitica, di Samuel Taylor Coleridge (1772 - 1834) che in Ballate liriche inventa un palazzo orientale di Kublakhan sospeso sul fiume della vita, dimora della felicità perfetta. L’armonia, per l’autore, è in un “altrove” esotico lontano dalla razionalità dell’Occidente.
In età contemporanea, nel 1940 Dino Buzzati col Deserto dei Tartari” e nel 1972 Italo Calvino con Le città invisibili trattano i temi - a partire dall’avamposto della Fortezza Bastiani contro fantomatici Tartari che non attaccano mai, l’uno; le città ideali, fantastiche, perciò invisibili, l’altro - trattano i temi, dicevo, dell’alienazione, dell’incomunicabilità, dell’estraneità del mondo.
Calvino, nell’impossibilità di conoscere, si cala in realtà letterarie “virtuali”: la comunicazione diventa combinatoria con altre opere del passato (qui il Milione), diventa attività ludica. Del resto la comunicazione passa non attraverso la lingua, Marco Polo non conosce il linguaggio del Khan, ma attraverso gesti, sguardi, il gioco degli scacchi, eccetera. Il riferimento alla vicenda, rielaborata, dell’incontro tra Polo e il Khan, cioè tra due culture apparentemente senza alcuna possibilità di contatto, fa da cornice ai racconti sulle Città invisibili.
In Buzzati il tema è l’attesa, l’alienazione di una routine senza termine, di una vita incasellata in norme assurde mai a misura d’uomo. Solo il sortilegio, la malia del deserto dà gioia, ma aumentano lo sperdimento, le follie individuali, l’estraneità al mondo, nell’attesa vana dei Tartari, i nemici, i diversi da noi, che non arriveranno mai.

Il punto di partenza per Cappello è tuttavia un racconto di Kafka del 1918, dal titolo Un messaggio dell’Imperatore che parla del Khan, imperatore dell’immensa Cina, che sul letto di morte, tra nobili e dignitari di corte, fa chiamare un messaggero e lo invia con un messaggio segreto, sussurratogli all’orecchio, ad un oscuro, comune suddito della periferia dell’impero. L’inviato giura di obbedire al comando ultimo del sovrano e parte, ma si perderà nei meandri dell’immenso palazzo, nei labirinti dei giardini, e non arriverà mai ad uscirne. Il suddito lontano si sente come depositario di un segreto che sta per arrivargli, ma passerà ogni sera alla finestra ad attendere un messaggero che non arriverà mai. La chiusura del racconto è onirica e fiabesca, tuttavia, forse per mitigare il tema cupo dell’incomunicabilità, dell’attesa, dell’alienazione del potere, del soffocamento del popolo tra falsi valori, norme e burocrazia.
La poesia di Cappello, che ha quasi come un sottotitolo l’evocativo verso di Vittorio Sereni dalle quattro negazioni nulla nessuno in nessun luogo mai, ribalta i ruoli del racconto di Kafka: qui sono i sudditi, è il popolo che deve comunicare al potere qual è la situazione concreta del vivere, perché chi comanda, chiuso nel suo Limbo, nel bozzolo dei suoi privilegi, non lo sa. Ci si domanda quindi come possa legiferare per il bene comune, ma il discorso civile sfuma, è solo una domanda che può affacciarsi alla mente di straforo, perché il problema prioritario è quello esistenziale, della sofferenza umana di tutti e dell’uno, della mancanza di riferimenti:  
“i pozzi seccati”, “qui c’è da camminare nel buio della parola” in sentieri “vasti da non avere direzione” “né zenit né nadir // in nessun luogo mai”.
Questo imperatore, quindi, potrebbe essere un Dio, inaccessibile e lontano, che lascia i suoi “alla durezza dello scorpione”, con un sole “contro”, con un “rosso” di indicibile stanchezza e tormento sotto le palpebre?
L’oscuro suddito di Qublai Khan , nel racconto di Kafka,  ignaro del messaggio “sta alla finestra e ne sogna quando giunge la sera”; l’imperatore di Cappello, potere civile o divino che sia, non si pensa che risponda. Resta l’uomo col suo mistero, col suo dolore esistenziale, filosofico e metafisico, nella sua solitudine tremenda.

Ombre
Sono nato al di qua di questi fogli
lungo un fiume, porto nelle narici
il cuore di resina degli abeti, negli occhi il silenzio
di quando nevica, la memoria lunga
di chi ha poco da raccontare.
Il nord e l'est, le pietre rotte dall'inverno
l'ombra delle nuvole sul fondo della valle
sono i miei punti cardinali;
non conosco la prospettiva senza dimensione del mare
e non era l'Italia del settanta Chiusaforte
ma una bolla, minuti raddensati in secoli
nei gesti di uno stare fermi nel mondo
cose che avevano confini piccoli, gli orti poveri, le cataste
di ceppi che erano state un'eco di tempo in tempo rincorsa
di falda in falda, dentro il buio. E il gatto che si stende
in questi posti, sulle lamiere di zinco, alle prime luci
di novembre, raccoglie l'aria di tutte le albe del mondo;
come i semi dei fiori, portati, come una nevicata leggera
ho sognato di raggiungere i miei morti
dove sono le cose che non vedo quando si vedono
Amerigo devoto a Gina che cantava a voce alta
alla messa di Natale, il tabacco comprato da Alfredo
e Rino che sapeva di stallatico, uomini, donne
scampati al tiro della storia
quando i nostri aliti di bambini scaldavano l'inverno
e di là dalle montagne azzurrine, di là dai muri
oltre gli sguardi delle guardie confinarie
un odore dì cipolle e di industria pesante premeva,
la parte di un'Europa tenuta insieme
da chiodi ritorti e bulloni, martelli e chiavi inglesi.
Il futuro non è più quello di una volta, è stato scritto
da una mano anonima, geniale
su di un muro graffito alla periferia di Udine,
Il futuro è quello che rimane, ciò che resta delle cose convocate
nello scorrere dei volti chiamati, aggiungo io.
E qui, mentre intere città si muovono
sulle piste ramate degli hardware
e il presente irrompe con la violenza di un tavolo rovesciato,
mio padre torna per sempre nella sua cerata verde
bagnata dalla pioggia e schiude ai figli il suo sorridere
come fosse eternamente schiuso.
Se siamo ancora cosa siamo stati,
io sono lo stare di quell'uomo bagnato dalla pioggia,
che portava in casa un odore di traversine e ghisa
e, qualche volta, la gola di Chiusaforte allagata dall'ombra
si raduna nei miei occhi
da occidente a oriente, piano piano
a misura del passo del tramonto, bianco;
e anche se le voci del mondo si appuntiscono
e qualcosa divide l'ombra dall'ombra
meno solo mi pare di andare, premendo un piede
dopo l'altro, secondo la formula del luogo,
dal basso all'alto, seguendo una salita.

***

Le parole
Annodammo la nostra infanzia ai capelli delle nuvole
e non fu la pioggia, fummo la pioggia;

la mano dell'uomo ci sradicò dall'aria
e lungo i canyon della nostra pelle
attecchì il pensiero;

le nuvole furono scrittura,
la nostra voce un nodo sciolto,
noi da una parte, da un'altra parte il cielo.

***

Da lontano
Qualche volta, piano piano, quando la notte
si raccoglie sulle nostre fronti e si riempie di silenzio
e non c'è più posto per le parole
e a poco a poco ci si raddensa una dolcezza intorno
come una perla intorno al singolo grano di sabbia,
una lettera alla volta pronunciamo un nome amato
per comporre la sua figura; allora la notte diventa cielo
nella nostra bocca, e il nome amato un pane caldo, spezzato.

***

Commiato
Costruire una capanna
di sassi rami foglie
un cuore di parole
qui, lontani dal mondo
al centro delle cose,
nel punto più profondo.


Ancora un pensiero su Ogni goccia balla il tango, Edizioni BUR Ragazzi 2014.

E’ un libro di rime scritte per la nipotina Chiara, figlia del fratello, allora di sette anni. Due anni prima la bambina, all’asilo, doveva recitare per la festa del papà una poesia che giudicava difficile e bruttissima. Pregò lo zio di scriverne un’altra per l’occasione e per lei. Fu un successone e Chiara, dopo la festa scolastica, telefonò raggiante allo zio, piena di gioia e di meraviglia: “lo sai zio che quando due parole rimano a me scappa da ridere? Però nella poesia che mi hai scritto è ancora più bello. E’ come quando volo giù dalla scivolo nel parco, perché zio?”.
Lo zio provò a spiegarle qualcosa dell’incanto misterioso da cui nasce la poesia, che si apre e resta enigma, che è esilità e potenza insieme, che è suono evanescente e forma concreta. Le parole possono essere note, disegnano cose che si sapevano già, “ma ci appaiono  come una scoperta, una porta che si apre, una corsa giù per lo scivolo che un po’ ci dà gioia e un po’ ci fa paura. Quella paura bella perché, quando arriva, in un attimo l’abbiamo scampata”.

Da questo delizioso libro di filastrocche per  bambini, ma non solo per loro, propongo alcune rime in modo da finire il discorso su Cappello con quella serenità e tenerezza che era connaturata in lui e, penso, non gli dispiacerebbe ritrovare in queste righe conclusive.

La pioggia
Questa pioggia è da ascoltare,
è il concerto delle gocce:
fatto in battere o in levare
suona note dolci o chiocce.
Fruscian gocce sopra il prato,
tamburellano le foglie
ridon tutte sul selciato
piange il vetro che le accoglie.
Sembra quasi dire il cielo
sono triste e allora piango,
ma in compenso, in parallelo,
ogni goccia balla il tango,
molte scendon le grondaie
tristi alcune, alcune gaie.

***

Neve
Nasce un sogno ad ogni fiocco
mentre sogni alla finestra,
te li porta lo scirocco
tutti insieme in un'orchestra.

È l'orchestra silenziosa,
è il silenzio della neve
che scendendo piano sposa
il tuo sguardo acceso e lieve.

Tutto tace e si fa notte
e dal manto delicato
fantasie sono tradotte
nel tuo sogno smemorato.

***

La rana
Un salto di qua
un salto di là
la senti la sera
la senti d'estate
e che serenate
e che primavera
è tutto un cra-cra!
Poi trova uno stagno
e - pluff - si fa un bagno
si scorda l'estate
e il caldo che fa.

***

Le lucciole
Un puntino, più un puntino,
poi pian piano un altro ancora,
tutti accesi, nel giardino,
finché il buio si colora:

luccioline, fiammicelle,
in crescendo, poi in calando,
si travestono di stelle
a mezz'aria, palpitando.

Sembra luce che sospiri
al profondo cielo vasto
come astronomo che ammiri
delle stelle il lento fasto.

E se poi le luccioline
se ne vanno ad una ad una
come luci chiacchierine,
figliolette della luna

resti tu come incantato,
resta il buio innamorato.

lunedì 1 giugno 2020

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Pierluigi Cappello - parte prima.


Restare
Gli occhi si sono fatti di sale nel voltarmi
i pensieri si sono fermati nei gesti, nel silenzio delle cose fatte;
ho raccolto le briciole del dopopranzo
e le ho scosse nell'aria vitrea del giardino
dove è appena spiovuto e irrompe il sole.
Qui, anche il più  lieve soprassalto del merlo oltre la siepe
sta fermo e stanno ferme le mie parole come navi in bottiglia.
La vostra lingua è la mia, ma la mia non è la vostra
mi sono sentito pensare mentre in casa lampeggia in penombra
il televisore e una musica epica diffonde l'eleganza di una berlina.
Tengo per me cos'è curare il fuoco
l'odore spesso di legna bagnata, lo stoppino fra le dita
lo stare di tutti i giorni nelle cose da fare, dentro un'altra luce
rotta dalle nuvole, un diverso tramontare allacciato agli alberi alti
pieno negli occhi delle case, sulle bestie dei poveri;
un po' qua un po' là
si sta soli così, oggi, un giorno così, un giorno più soli.

Una rosa
Che cos'è quella rosa sul tavolo
ferma nella sua freschezza come un lago alpino
alta nel suo silenzio più del fragore
dei quotidiani affastellati lì accanto
più del disordine dei notiziari,
la concitazione delle chiavi di casa.
Che cos'è questa parola verdeggiante d'amore
se non il suolo dove lasciarsi cadere
la penombra di un bosco da attraversare
e la mano che si apre e prende la mia
e mi conduce a me.

In genere non mi soffermo sulla biografia degli autori, lascio che i loro versi parlino alla sensibilità dei lettori ed in qualche modo si presentino essi, da soli, indipendentemente dal vissuto del poeta che li ha composti. Per Cappello ritengo necessario fare eccezione.
La sua vita drammatica e breve è talmente connaturata con la poesia e la poesia talmente espressione, reale e sublimata insieme, di quella vita, che non mi pare possibile prescindere dalla sua esemplare vicenda umana di completezza, di dolore, di morte. Poiché sulla biografia di Cappello, quindi, mi soffermerò a scrivere più a lungo del solito, ed un eccesso di sintesi sulla sua poesia potrebbe risultare riduttivo del suo valore artistico, eccezionalmente ne parlerò in due diversi appuntamenti delle nostre Letture condivise.

La sua vita breve, dunque.
È morto a cinquant’anni il 1° ottobre del 2017. Nato a Gemona nel Friuli l’8 agosto 1967, era originario di Chiusaforte, località di montagna, in una gola - come dice l’autore - “allagata dall’ombra” tra le montagne, neve, pietraie, cose che
“avevano confini piccoli, gli orti poveri, le cataste
di ceppi che erano state un’eco di tempo in tempo rincorsa
di falda in falda dentro il buio”.
La casa era stata costruita, pietra su pietra, con metodici risparmi e immensa fatica fisica dai suoi antenati. Lì dai cinque agli otto anni, come l’autore stesso ci racconta in Questa libertà, Rizzoli 2013,
“d’inverno aspettavo il ritorno di mio padre. Lavorava ad Arnoldstein come scaricatore, tornava la sera sotto una cerata verde... mio fratello ed io gli correvamo incontro abbracciandogli le gambe nella penombra del corridoio. Nei suoi pantaloni di velluto a coste si fermava l’odore del lavoro: limatura di ferro, grasso di camion, legno, catrame”.
Non aveva ancora nove anni Pierluigi, quando alle 21 del 6 maggio 1976 la prima scossa del violento terremoto del Friuli abbatté la vecchia casa: la famiglia, sfollata, rientrò nel ’77  e faticosamente ricostruì pietra su pietra.
Crescendo l’autore, che diceva sempre di “appartenere al cielo” più che alla terra, si iscrisse e frequentò ad Udine l’Istituto aeronautico. Era un bellissimo giovane, sportivo, promettente campione di atletica leggera. A sedici anni la tragedia. La racconta il poeta e saggista Alessandro Fo nella vasta prefazione a Un prato in pendio. Tutte le poesie 1992-2017, di Pierluigi Capello, Rizzoli BUR 2018:
“Un pomeriggio accettò un passaggio in moto da un amico. La moto uscì di strada e si schiantò su una roccia. L’amico perse la vita, Pierluigi riportò lesioni gravissime che hanno trasformato la sua esistenza in un calvario ospedaliero e l’hanno costretto per sempre su una sedia a rotelle. Il commento del medico accompagna la diagnosi con le parole della condanna all’ergastolo:
fine pena mai”.
Dopo i diciotto mesi d’ospedale, nella sua esistenza da invalido grave Cappello, che si sentiva votato per il cielo, si costruì una vita “aerea”, votata sì alla terra ma all’ariosità della scrittura, della poesia in particolare, che riesce a rendere sopportabile, per chi abbia notevole forza d’animo, ogni bruttura, ogni degradazione fisica della malattia.

In primo luogo si è affinata in lui una sensibilità poetica attraverso la meditazione, allenandosi l’autore a dover considerare il mondo e la sua vita dalla realtà di una sedia a rotelle, invalidante, senza rimedio. In Cappello questa situazione non lede, anzi acuisce, la voglia di capire, di fare, di amare la vita, di coglierla a costo di spostarsi a parlare nelle scuole e poi a ritirare premi per l’Italia, in ambulanza sempre, per tutto il resto della vita.
La capacità di cogliere le sottigliezze della realtà passa attraverso un’estenuata intelligenza emotiva, affinata da lunghe ore in solitudine, nel dolore, nella ricerca del senso di una vita difficile e nel trovarlo, questo senso, senza autocompiangersi, senza chiedersi: perché proprio a me?
Il risultato è una poesia immensa, vitale e crepuscolare insieme, coinvolgente per forza immaginativa e perché fa parlare in modo nuovo le piccole cose della natura e della quotidianità. Le anima di vita: sono come persone che condividono i momenti di solitudine umana, accompagnandone la sorte. Ma per chi ama la vita segreta, i destini, ricercati, di cose e paesaggi, c’è l’incontro col metafisico, col senso della storia, individuale e collettiva, e - direi di più - col Cosmo, coll’Universo. L’autenticità del dire si trasferisce immediatamente al lettore, da anima ad anima. Ci si trova a sentire ciò che è vero e lo si discrimina istintivamente da ciò che è infingimento, buona costruzione artigianale, magari, ma che è costruzione a tavolino. Non testa, animata dal cuore, dalla propria verità. Ripeto sempre: Poesia non è un prodotto di vendita, ma un modo di essere e di sentire. La fantasia, l’immaginazione sono state la sua forza: anche il letto in cui fu relegato nei lunghi soggiorni clinici (lottò a lungo contro il cancro, prima di essere vinto) diventò, come disse, “un tappeto volante” con cui trasformò una disgrazia in una nuova occasione. La comunicazione con gli altri e le amicizie sincere gli riempirono la vita.
Susanna Tamaro, amica di tanti anni, dopo la morte di lui ha scritto il libro Il tuo sguardo illumina il mondo, Edizioni Solferino 2018, in cui rievoca un’amicizia speciale, una vicinanza suggellata anche dalla loro disabilità, seppure diversa: lei con una sindrome neurologica cronica che, fin dall’infanzia, l’ha confinata in una dimensione di “diversità” e solitudine.
Il cantautore Jovanotti, che scrisse per Cappello la prefazione al libro Stato di quiete, Rizzoli BUR 2016, coetaneo del poeta, pur non avendolo mai incontrato di persona, fu a lui legato da grande amicizia epistolare. Dovevano conoscersi in un appuntamento concordato proprio nei giorni in cui il poeta morì: Jovanotti ha creato in memoria della loro strana vicinanza la bella canzone Le tasche piene di sassi, riprendendo proprio un verso di Pierluigi Cappello, citato dalla poesia che vi propongo.

I vostri nomi
Ieri sono passato a trovarti, papà,
la luce in questi giorni non è tagliata dall'ombra
negli alberi senza vento c'è l'odore secco dell'aria
per come posso, ti ho portato il racconto dei temporali,
l’odore di inverno sulle tempie
a Chiusaforte è nevicato, nevica sempre
e le fontane sono ghiacciate
penso, per qualche momento, che tu sia ancora lassù
ad accatastare legna con cura
e in luoghi come questi
la casa di riposo con la pista per le bocce
dove state raccolti come le foglie nel parco
uniti nell'attesa, lontani dalle città assediate.

Dicevate domani, dicevate questo è il figlio
e con il silenzio del fischio nella bufera
i vostri nomi sono andati via
voi che siete stati popolo e ombra
remissione e forza
il tuo nome, papà, e quello di Bruno, che non era un'antilope
e tirava sassate al pettirosso sul ramo più alto
o quello di Giordano, o quello di Cesare, o quello di Alfredo, l'artigliere
o quello di quelli che, come te, sono stati bambini
che hanno detto domani.

E adesso non è troppo dire
quanto poche sono le foglie cadute
sui giorni di novembre
per dire cos'è l'inverno negli occhi mentre viene
tutto il poco possibile è qui,
nei vostri corpi piegati come l'ulivo
sulle vostre facce di monete graffiate
in questo spazio, in questo tempo confusi
come il cielo e la terra quando nevica,
e se c'è un'uscita, papà, anche se non posso dire domani,
la sua luce sulla soglia
è questo stare dei tuoi occhi dentro i miei
questo pensarvi vivi, liberi e scalzi
le tasche piene di sassi, la memoria di voi
che trema in noi
come una stella incoronata di buio.

Secondo un’opinione puramente personale ritengo I vostri nomi una delle più belle poesie scritte da un figlio per il padre, in sincerità e completezza. È una poesia affettuosa ma anche austera, civile: parla a generazioni intere del nostro recente passato. Non c’è retorica né sentimentalismo piagnucoloso, ma una tenerezza che è spontanea e che è dei grandi, come afferma lo psichiatra-umanista Eugenio Borgna nel suo splendido volume Saggezza, Il Mulino 2019. La tenerezza è dote misconosciuta e rara ma indispensabile nell’arte quotidiana di vivere, che rischia oggi di smarrire speranze ed ideali, senza i quali non è possibile dare senso alla vita. “Non c’è cura - dice Borgna - cura dell’anima e cura del corpo se non è intessuta di saggezza e di gentilezza, che nascono dal cuore dell’interiorità e dalla consapevolezza che siamo tutti chiamati a un comune destino di dignità e solidarietà” .
Riscontro nella poesia I vostri nomi la totale mancanza del gusto contemporaneo, una moda di inanellare metafore e poi costruirvi intorno un testo poetico con un lavoro metodico a tavolino.. Questo “sentire” in autenticità il mondo dalla sua stanza, dal suo giardino, dal circoscritto suo limite del “qui” coinvolge il lettore in maniera straordinaria. Dal “qui” ad un “oltre” che è umanità, storia, metafisica e terra, nuvole e cielo, il passo diventa breve. La spontaneità e il suono espressivamente nitido della parola nella sua semplicità nuda non raffreddano le atmosfere poetiche, anzi le esaltano.

E per concludere oggi la prima parte della condivisione su Luigi Cappello, la lettura di tre poesie sul tema della natura ed affetti di vario tipo.

Pratoline
Alla piccola Chiara
La bocca è un'alba schiusa
la meraviglia è nelle cose guardate
giri una corolla tra l'indice e il pollice,
l'imprecisione del gesto lascia splendore

un giorno
l'ombra ti sarà restituita
la cenere negli occhi
per camminare più sicura, legati alla terra
sguardo e condanna

le pratoline fioriscono nel verde
in ferocia e purezza, la vita senza memoria
i tuoi piedini nel sole.

Sonno estivo
Seduti, le gambe allungate nel silenzio,
uno a uno ci siamo portati i nostri giorni
solitudine con solitudine, impazienza e attesa;
e adesso che le tue spalle sono vicine alle mie
che il mio calore è il tuo,
quanto so dimenticare è nell'indugio
delle dita avventurate sulla tua pelle bionda,
sui tuoi capelli scuri,
nella paura che avvicina il nostro corso di scampati
senza rumore e senza appello, come quando
il verde di marzo spinge dai rami
e si fa abbracciare dal mondo,
come quando l'aria vive nello screzio
degli alberi carichi di luce
e c'è penombra nella stanza,
e la pace del prato è nei tuoi occhi,
ci perdona, si stringe intorno a noi.

Scritta da un margine
Non si tratta di riempire, si tratta
di far parlare il vuoto. L'ortensia
si è piegata al frutto della luce
ma non c'è tensione oltre le siepi di lauro,
nella tenue foschia di mezza mattina. Sarà
il tremolare delle gemme di marzo, sarà
l'aria spartita dal raschio di un autocarro
e il ricomporsi del silenzio che chiude una scia.
Dalla testolina di un passero, la prospettiva
accompagna lo sguardo alle quinte di alberi alti
dove il cielo si rompe in turgore e il bianco
ha il sapore di un inno; si vive
appena sopra la superficie del sogno
e tutto accade a un passo da qui.