foto di Dino Ignani |
Il libro La guerra di Annina e i camminanti, DiFelice Edizioni 2021, ha come autore Beppe Mariano, poeta italiano tra i più noti dagli anni ’70 del Novecento. Inserito internazionalmente tra i trenta poeti più importanti dell’ultimo cinquantennio, dà spesso alle sue opere un respiro dinamico di teatralità: si è laureato infatti in Storia del teatro e ha scritto in passato come critico teatrale sui quotidiani torinesi. La sua poesia è stata oggetto di tesi di laurea, ha ottenuto negli anni premi importanti: il ‘Pavese’, il ‘Gozzano’, il premio ‘Ada Negri’. Nel 2019 gli è stato conferito il ‘Premio Gozzano’ alla carriera.
Non è mai facile la scrittura in ‘prosimetro’: la parte in prosa deve sapersi accordare con suggestione poetica alla parte in versi per non creare dissonanze o, peggio, fratture e del resto la poesia deve riuscire a sintetizzare, in maniera evocativa e struggente, la narrazione in prosa. È una questione di equilibrio, ove la prosa deve diventare poesia e la poesia deve farsi anche narrazione di eventi, ma come percepiti dall’anima dei personaggi protagonisti, cioè in un modo che vada oltre la storia ‘oggettiva’ dei fatti come dolorosa epopea di tutti, come struggente nostalgia di una storia non vissuta, che poteva essere e non è stata. Resta una quotidianità minuta, l’adesione a tradizioni fantasiose e un po’ folli di una minoranza montanara, sopravvissuta alle intolleranze e alle stragi civili e religiose di secoli lontani.
La capacità dell’autore, nel rendere vivo in tutti noi l’eroismo giornaliero di vicende che partono dalla Prima Guerra Mondiale, non si spiegherebbe se questo stile tanto efficace e valido non affondasse le radici nella cultura artistico-teatrale di Mariano. La parte poetica del libro mi evoca il dire lirico del coro della tragedia greca, le parti in prosa riecheggiano l’azione scenica, il racconto, lo snodarsi drammaturgico della vicenda. Questo è un mio pensiero immediato, un indubbio riferimento culturale antichissimo, ma lo spirito è ben diverso da quello di un’amara, fatale tragedia. Qui le vicende, ricoperte dalla polvere del tempo, acquistano una patina di dolore pacificato, quasi di sorriso triste, sul fatalismo delle umane storie, così simili, generazione dopo generazione. Non c’è più acrimonia né dolore cocente, ma un clima elegiaco di ineluttabilità sugli errori umani che, seppure attutiti dal tempo, non perdono il senso di una doverosa condanna, né tantomeno possono essere cancellati. Carnefici e vittime non sono mai equivalenti. Non si può mai essere equidistanti: in ogni tempo, ieri come oggi, l’uomo onesto e ‘civile’ deve saper scegliere. Come dice il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nel suo bell’articolo su Repubblica del 19 gennaio 2022, “non si può, per esempio, essere equidistanti tra i ladri e le guardie, tra gli evasori fiscali e i contribuenti onesti. Non decidere significa essere dalla parte dei ladri e degli evasori”.
Il messaggio poetico di Mariano si pone su questa linea di giustizia, di rispetto, di civismo (mutatis mutandis) e capita proprio a fagiolo in questo momento storico della nostra società liquida e scivolosa, dove tutto più o meno si equivale e dove la parola ‘responsabilità’ è spesso considerata desueta e facilmente superabile.
Come in un romanzo avvincente sarebbe un delitto raccontare la vicenda, ma qualcosa bisogna dire. È un libro composito, come già vi accennavo. Il titolo già spiega il necessario.
Annina, maestra di montagna, per tutta la vita resta devota alla memoria del semplice contadino Minòt, suo amato, morto nella guerra di trincea del ’15-18 presso altre montagne, le Alpi Orientali, così uguali ma anche così dissimili dal natio Monviso piemontese, ma perché le arrivano ancora lettere dal fidanzato dopo la sua morte? Chi le scrive? Chi le ha sempre scritto? Mistero.
E chi sono i ‘camminanti’? Quelli che a piedi hanno attraversato per motivi diversi – quasi sempre dolorosi – e a fatica terre e paesi: dai monti piemontesi sono giunti al mare, così come dal mare, fuggendo a stragi e a intolleranze, giunsero con processo inverso ai piedi del Monviso i camminanti catari di Linguadoca, riportando nei villaggi isolati di montagna del cuneese favole, consuetudini, folclore lontano, per ritrovare un proprio passato trasfigurato dalla fantasia nelle nuove terre dopo la fuga da apolidi. Nei capitoli del libro, nel passaggio di generazioni si snoderà una pluralità di storie sorprendenti.
Ribadisco la bellezza di registro di Mariano che, con la poesia limpida e piena di immagini felici, incornicia la narrazione alimentando emozioni nel lettore e, viceversa, la narrazione fornisce la meditazione su fatti storici passati e purtroppo presenti, dove la zampata del poeta e della sua fantasia creativa nobilita il tutto, vuoi con una metafora, vuoi con un’immagine inattesa, una fantasticheria, evitando la prosaicità di un racconto.
Tutto il libro appare meditato con raffinatezza e grande cura nei minimi particolari, eppure il risultato è di semplicità evangelica rara. I riferimenti culturali vanno da quelli biblici, relativi al senso della sofferenza ‘gratuita’ dell’uomo del Libro di Giobbe, all’idea del viaggio di Odisseo dentro e fuori di sé, allo studio e ai riferimenti della civiltà occitana medioevale. Le tradizioni sono tuttora vive (‘l’asino vola dei bambini’, qui ‘il volo della capra Neve’), le masche (presenze stregonesche, misteriose, di grande fascino, che appaiono in concomitanza di anomali fenomeni naturali e con essi si mescolano e influenzano l’uomo). In certa parte del Piemonte queste favole fantastiche ancora sono presenti in discreta misura e non solo nelle notti invernali o del carnevale.
Altri riferimenti veloci troviamo nel testo di Mariano: il Perelà di Palazzeschi, per esempio, o Platero, il protagonista di Platero y yo, di Juan Ramón Jiménez, o come la geografia filosofica di Niccolò Cusano.
Un capitolo suggestivo è quello del racconto di Ismaele, il personaggio narratore per eccellenza (dai tempi di Moby Dick), dove poesia e prosa sono inframmezzati; ma provate a leggere le parti in poesia di seguito e troverete un canto di epopea umana, non solo bellico. A leggere invece di seguito le parti in prosa vivrete un viaggio dei Magi alla Eliot, ma più violento perché più violento è il mondo di oggi, purtroppo. E il Cristo di oggi assume l’umanità della donna, non è più di genere maschile, perché sono le donne in questi tempi bui, in ogni parte del mondo, ad essere perseguitate, sfruttate, violentate, uccise quasi ogni giorno.
NB: nelle citazioni dal libro, seguo puntualmente il testo nei suoi caratteri grafici: ‘normale’ per la parte più discorsiva, ‘corsivo’ per la poesia. I frequenti puntini di sospensione segnano i tagli da me necessariamente operati nel poemetto, per darne una prova sufficientemente chiara al senso e all’intonazione, pur in una ricostruzione frammentaria.
dal capitolo: Ismaele
Secondo un antico greco era il cerchio
la perfezione cd io desideravo percorrerlo a mia volta
girando intorno alla terra.
Ma soltanto sull'acqua. Da un oceano all'altro.
A quel tempo la terra non m'interessava.
Ma ora la stella cometa mi ha imposto
di sbarcare. Di iniziare a camminare
nella sua direzione, come un antico magio.
…
Quando ho veduto la stella nel suo fulgore ho notato però
che non indicava come avrebbe dovuto la Palestina.
Ho cominciato a seguirla, camminando.
…
A un certo punto ho incontrato due magi
dai fuoristrada bardati, carichi di doni.
Ho chiesto di potermi unire a loro.
Solo se avessi portato doni a mia volta, mi avrebbero
accolto. Ma io non sono un magio benestante, ho il
salino del mare e le carte nautiche impressi sulla pelle.
Il cuore e la mente non sempre li posseggo.
…
A Roma non ho trovato la baracca
di immigrati, lungo il Tevere:
era stata abbattuta con altre abusive.
Parecchi erano nati alla mezzanotte di Natale.
(Si era svolto un concorso televisivo
per la maternità più prossima all'ora fatidica ... ).
Erano nati però in case confortevoli.
Tutti benestanti, tranne uno.
Pertanto sembrava facile la deduzione. E invece ... Quell'uno era una bambina!
Era nata in un vicolo, pressappoco dove sua madre era
stata stuprata nove mesi prima.
Dimenticavo un’annotazione fondamentale, a parer mio: la bellissima epigrafe, determinante, insostituibile per la comprensione del testo. Questi versi, tratti dalle Elegie duinesi di Rilke (la nona) animano tutta l’opera nella ricerca dell’approdo all’Oltre e al senso ultimo dell’esistenza al di là dei limiti dell’uomo e della sua sorte del tutto effimera anagraficamente.
Vive ogni cosa
una volta, una sola. Una soltanto
e non più, Pure noi, solo una volta,
una, e non più. Ma questo essere stati
una volta, e sia pure una soltanto,
vivi, nel mondo, è cosa incancellabile.
Non è facile estrapolare parti di questo poemetto, un tutt’uno così strutturato e armonico. Consigliandone la lettura, vi riporto ancora qualche spezzone, giusto per assaggio.
dal capitolo: La guerra
Minòt, nelle lettere, si riferiva non soltanto alla vita di
trincea, alle baionette ogni alba lucidate, alle sortite e
agli assalti, ai comandanti burberi, alle gavette con il
poco rancio; si soffermava anche sugli insetti,
insieme nella stessa trincea, sui vermicelli che ogni
giorno comparivano dalla terra smossa dagli scarponi.
Minòt li descriveva come compagni
di ventura, ignari di partecipare
a una guerra. Anche lui avrebbe voluto
essere come loro, innocenti nella
propria vita naturale (ma aveva
dimenticato un motto contadino:
"El grand a mangia 'l cit": motto che ricordò quando,
affamato, dovette cibarsi di vermi).
Oltremonte vi è un monte ancora
e ancora un monte.
Ma raggiunta la cima,
altre se ne scorgono
intorno più alte.
Nel ricordo indugia la parola
si fa ogni volta cima da scalare.
…
invece che lenire si riapre la ferita.
…
Si vorrebbe solidità rocciosa
(il Monviso invece sta sgretolandosi ... )
l'eco d'una parola condivisibile
(ma ognuno frana per conto proprio).
Sarà la terra ad andar via da noi.
dal capitolo: Annina
Siamo le ombre dei caduti sopra il Piave
nelle cenge lungo le trincee.
Siamo pecci divelti o mutilati
arrovesciati nelle lande montane
dal ciclone che connota
la sofferenza della Terra.
I nostri corpi sono stati raccolti;
non tutti: qualcuno è rimasto
a macerare nel fango, facendosi bosco.
Oltremonte vi è un monte ancora
e ancora un monte.
Oltrecielo vi è ancora cielo.
Oltre l'Oltre vi è ancora Dio?
Nel passaggio delle generazioni troviamo un nipote e poi un pronipote. La terra al tempo del nipote è un pianeta artificiale, ormai innaturale.
dal capitolo: Il nipote
Come mio nonno, saliscendo monti
per poter presto navigare, ho lasciato la città,
come lui aveva lasciato il mare,
mi son fatto camminante.
…
Scorgo guglie amene di cattedrali rocciose,
ma appuntite in cima come lance.
… Il monte ha in sé
l’insidia: la bellezza può essere bifronte.
La Terra spande luce di alluminio
sulla plastica pantagruelica, sui residui atomici interrati,
a tal segno che se Astolfo dalla luna la guarda
deve sembrargli una sfera ... alluminiata.
Il pronipote approda, dopo un viaggio astrale, nei silenzi apocalittici siderali e a un pianeta sconosciuto
dal capitolo: Il pronipote
È ripartito. Non più per mare,
come suo bisnonno, marinaio di petroliera.
Progettava di andare in una direzione definita; ma
sospinto dal vento cosmico è approdato invece a un
pianeta, ancora non sa quanto inospitale.
Vi ha scoperto una montagna che sembra
il Monviso di suo bisnonno e di Annina.
Ha la cima appuntita di una matita
(la comparazione gli ricorda che deve
fare la punta alla sua che ha portato con sé:
la più semplice delle cose terrene
che degli avi mantiene accesa la brace).
…
Ora gode, ora soffre l'infelicità della solitudine.
Ma il bisogno di sopravvivere lo impegna e ogni
giorno scopre qualche cosa intorno a sé, e di sé.
…
Neppure è certo se questa che sta vivendo sia la realtà,
o una sua simulazione.
Guarda il cielo attorno e meravigliato si chiede,
quasi fosse tornato ragazzo,
se il cosmo possa essere pensato ancora
come un infinito circoscritto
da un poeta.
Questa è la conclusione dell’opera.
In effetti si mescolano ‘realtà’ e ‘simulazione’, concretezza e fantasticheria. Il tutto è davvero un “infinito circoscritto da un poeta” dotato di realismo critico e di selvaggia creatività:
si chiama Beppe Mariano.