In molti, autori e fautori di poesia, hanno provato
a rispondere alla ricorrente domanda degli spiriti pratici: “in un mondo di
tecnica e di tecnologia avanzata, a chi e a che cosa serve oggi la poesia?”.
Io che, pur amante delle Muse, ho evidentemente
concretezza caratteriale di base, non amo impegnarmi in discorsi teorici –
tantomeno in polemiche – se non proprio tirata per i capelli: come sempre
preferisco esemplificare. Talora basta infatti l’esempio di una vita riscattata
dalla poesia – ai giorni nostri, non trent’anni fa – a dimostrare come l’amore
per l’arte, l’impegno della scrittura in versi possano diventare la chiave di
volta per mutare il destino di una esistenza segnata da eventi esterni di
sofferenza, all’apparenza non suscettibili di soluzione. È il caso di Fausto Celeghin, colpito a
quarantasei anni da una malattia seria, debilitante e progressiva, che in sette
ulteriori anni si è molto aggravata, cagionando la continua entrata-uscita da
ospedali, nel tentativo di ‘rappezzare’ un vivere fisico-mentale votato al
peggio.
Nella scrittura di testi poetici, diventata a mano
a mano consuetudine di vita quanto più peggiorava la malattia, l’autore non
solo ha trovato una forma di cura nel colloquio proficuo con se stesso allo
scopo di salvare una sua integrità di persona pensante e senziente che, fissata
sulla carta, non è deteriorabile nel tempo, ma ha saputo ‘usare’ della malattia
per superare ogni personalismo ed essere di aiuto ad altri in analoghe
condizioni. Ha capito infatti che non serve né a sé né al prossimo piangersi
addosso: diventava insensato per lui mettere al centro del mondo se stesso in
quanto malato; al contrario i suoi versi potevano concretamente aprirsi verso
la ricerca scientifica, farsi strada per avviare ulteriori studi nei confronti
del suo male. Contemporaneamente Celeghin capiva che, nonostante potesse
sembrargli agli inizi un’assurdità, la poesia che nasce dalla malattia deve
assumersi un preciso compito morale e civile, creando intorno a sé forme di
informazione, di coinvolgimento sociale, di collaborazione con le associazioni
e col volontariato che si occupano della salute, spesso più capillarmente ed
efficacemente di ogni intervento a livello statale.
La poesia quindi, come nel caso dell’autore, può
diventare scopo di vita, portando a tutti, sani e malati, un messaggio
comunicativo di speranza. Questo il messaggio, semplice ma concreto, che vale
in sé e ritengo valga la pena di proteggere e di diffondere, soprattutto ora,
nel periodo di pandemia acuta, in cui la società non si ritrova affatto
migliore, anzi si avvoltola sempre più nei propri personalismi fino
all’egocentrismo bieco, come la carta stampata e la tv ci mostrano
quotidianamente.
Questo il motivo primo per cui propongo oggi il
libro di Fausto Celeghin Sulla terra scalzo,
pubblicato in collaborazione con l’Associazione Amici Parkinsoniani Piemonte
Onlus, per le Edizioni Ensemble 2021, con la Prefazione di Ernesto Siciliano,
responsabile di Maledetti poeti.
Il volume consta di cinque sezioni, proprio come
sono catalogabili gli stadi della malattia dell’autore che, nel percorrere la
penosa trafila in un crescendo di frustrazioni e sofferenze, percorre altresì,
nell’alternanza delle sensazioni, la sua ‘educazione’ spirituale. Si alternano
toni aspri, cupi di ribellione e di rifiuto ad una forma, se non di
accettazione, di consapevolezza. Il sostegno degli amici, l’aiuto della
medicina, della fisioterapia, della psicoanalisi aggiungono quel senso
concreto, vitale, del proprio esistere come uomo e come poeta, che spesso
sfugge a chi è seriamente malato: perché resto in vita? Perché e per chi?
Il lavoro di Celeghin è una forma di
‘evangelizzazione laica’, di filantropia, di civismo concreto, lavoro questo
che, seppure suggerito – anzi obbligato – dal male, non perde il suo valore;
viceversa: è da pochi saper spiegare la sofferenza, rivoltandola a scopi
civili, volgendola alla salvezza morale oltre se stesso ma nei confronti di
quella parte della società troppo spesso ghettizzata perché resa ‘diversa’ da
amare circostanze della vita e quindi considerata più o meno zavorra sociale,
peso morto di cui è giocoforza occuparsi, ma senza soverchio impegno.
Propongo alcune letture dalle varie sezioni del
libro.
Da Zero Uno Enter:
Eco
Di’
qualcosa.
Un solo
eco.
Una
voce.
Un urlo
che si accartoccia rabbioso,
contro
la vetta di una montagna.
Un urlo
che faccia franare,
l’aridità
millenaria delle pietre,
ritrose
ad accettare,
che
qualcuno le abbia sconfitte.
Di’
qualcosa.
Non per
parlare.
Ma per far sì che io esista.
*
Di nuovo
il diavolo lo condusse con sé
sopra un
monte altissimo
e gli
mostrò tutti i regni del mondo
con la
loro gloria e gli disse:
«Tutte
queste cose io ti darò, se,
prostrandoti,
mi adorerai».
Matteo
4,8:9
Fior di stella
Raccolsi
un fiore in alta montagna.
I petali
erano così belli,
profumati
e sensuali.
Piansi.
Avevo
interrotto un progetto di Dio.
La sera
nel cielo cadde una stella,
aveva la
forma del fiore,
e la
coda delle mie lacrime.
Dopo
molti anni
lo
ritrovai.
Tra le
pagine di Dostoevskij
giaceva
lì: secco morto.
Nella
notte quando il cielo è sereno,
osservo sempre i fior di stella.
Da Zero Due Me:
Cercando
Cercando
di sopravvivere,
sui
pericolosi rimpianti del cuore,
mi
scopro integro,
e ancora
colmo di ardore.
Nella
lucentezza esasperata,
solo nel
mattino delle ombre.
Le orme
dei miei passi,
brillano
come tizzoni,
si
rincorrono,
e
fuggono,
verso
l’origine del bene.
Mi volto
indietro,
e già non mi scorgo più.
Da Zero Tre Non Me:
Il giogo
Il giogo
che umilia è un labbro ferito
che cela
nella possibilità di un bacio una calunnia.
È
barattare un amore impossibile con un vaffanculo.
È un
viaggio fintanto per dove quando come alle porte di
Birkenau.
È che le
bestie non sono le tue pulsioni ma quelli
che ti
castrano per non averle.
È creare
ipotetiche parole che non si riescono a pronunciare.
È
appunto bla-h bla-i bla-j.
È
insegnare a un analfabeta un verbo in un solo tempo.
È un
libro che ti offende con la sua intelligenza.
Il giogo
sono io,
che con
la mia voce non vivo che per me,
e mi specchio
come un ladro,
nell’acqua delle anime altrui.
Da Zero Quattro Mondo 2050:
Alberi 2020
Vegliano
sul mondo.
Dai
secoli alla luce,
dal
silenzio dei suoni,
al
frastuono dell’estinzione.
Dei loro
rami flettono
al peso
della neve.
Altri si
fanno culla e dimora,
come
amorevoli madri
di
animali nella foresta.
Parlano
senza labbra,
si
riproducono senza contatti,
ci
sussurrano la loro pazienza,
col
silenzio etereo
che
comunica con il cielo.
Ci danno
i frutti della loro vita,
come una santa ci dona le sue
preghiere.
*
Alberi 2050
Ora
stanno gli alberi,
con le
braccia profuse,
su dal
cielo.
Si
sente, loro malgrado,
un
madrigale ben temperato,
lontano,
che
canta l’aria.
Nei
grovigli dissennati delle città,
vogliono
ancora vivere,
per
sostenere quel poco d’ossigeno
e vizio
che gli abbiamo rubato.
Una
donna passa,
coi
piedi di radici,
e
l’anima di foglie e terra.
Lì, lascia un fardello.
Da Zero Cinque Consolazione:
La risacca
La
poesia è come te:
un mare
in risacca.
Espandi
e contrai
il
ventre e il respiro.
In
questo intermezzo
in cui
ti ritrai,
accarezzi
la rena
di onde,
di limiti,
confini
con sassi e conchiglie.
Sta lì
la poesia,
nel
suono che lasci,
che devo
raccogliere in fretta.
Accosto
l’orecchio,
ti sento
cantare
mi
affretto a rubare,
le poche
parole
che
riesco a annotare.
È lì la
poesia
il
ricordo di un suono,
che tu
con le onde
cancelli
e riscrivi.
Questo è
tutto.
Quel
poco di me che ho vissuto
tra uno
stato di quiete
e un affanno di moto.
*
Consolazione
Se la
consolazione attenderà,
a
sfiorarci la spalla,
a
percuoterci l’istinto leggera,
a
parlare parole,
a dirci
“non dire”,
non
abbassare la guardia,
redarguirci
di perseverare,
sperare
e parole, parole.
Qualcuno,
a
sussurri, a gesti, a pelle,
che tu
esisti,
e suoni
efficaci a mormorare
colori
pastello,
vele
spiegate a barricare mari,
e venti
di maestrale a inventare corsari.
Gomitoli
che si trasformano in maglia
e note
in canzoni
e navi
che conoscono acque a navigare.
Allora,
solo allora,
avremo
gambe agili e forti,
e braccia
e pensieri
per
partire dai porti senza armi,
e senza conquistare.
Le
due poesie della prima sezione ondeggiano tra l’urlo rabbioso di chi non si
rassegna al destino, e non intravvede nemmeno il minimo valore per la sua
esistenza, e il bisogno di ritrovarsi nel creato, nel microcosmo di un fiore,
nel macrocosmo del cielo stellato. L’accenno a Dostoevskij non può non fare
pensare alla dialettica sull’esistenza di Dio e all’annoso problema del male
nel mondo, così lancinante nel contrapporsi del colloquio tra Ivan e Alioscia
nei Fratelli Karamazov. Problema questo di ardua soluzione per tutti, ma
soprattutto per chi, come l’autore, incolpevole, da un giorno all’altro vede la
sua vita a catafascio per una malattia irrisolvibile.
Le
poesie della seconda e terza sezione ondeggiano anch’esse tra atteggiamenti
contrastanti: la voglia di reagire in positivo, il sentirsi nonostante tutto
proteso alla sopravvivenza, nella ricerca dell’origine del bene e
l’opposto sentimento di violenza, di disperazione nei confronti di se stesso e
di chi crede superbamente di curare annullando la personalità del malato,
rendendolo cosa, numero. Tanti e di diverso tipo sono i gioghi che legano alla
malattia e cui accenna il poeta.
Le
quattro poesie delle ultime due sezioni trovano infine una forma di
rasserenamento: nella natura, prima di tutto, nonostante gli scempi umani in
campo ecologico, che ci avviano in una strada senza ritorno, ma soprattutto in
sé. Segnalo le ultime due liriche della raccolta: La risacca e Consolazione.
In questi testi, particolarmente intensi e riusciti, l’autore, quasi ormai
fuori dalla mischia, vede la sua vita e la sua scrittura come da altro
universo, lontano da astii e acrimonie. Ha colto il senso del suo esistere in
patimento e ne intravvede la limpida forza intrinseca. Solo allora arriva la
parola definitiva e commovente:
Questo è tutto
Quel poco di me che ho vissuto
tra uno stato di quiete
e un affanno di moto.