domenica 4 luglio 2021

Fili di condivisione a cura di Marvi del Pozzo: Liriche scelte (Guido Miano 2020) di Silvia Marzano

 

Questa nuova breve rubrica a scadenza variabile intende accompagnare gli autori già in precedenza presentati in Letture condivise, segnalandone i lavori ulteriori. Come si sa, la poesia crea legami misteriosi e profondi che perseverano nel tempo.

Oltre che rispondere a un desiderio di completezza informativa, la rubrica intende mantenere un filo di condivisione e di consolidamento di rapporto umano e artistico tra autore e lettore.

                                                                                         Marvi del Pozzo

 

Silvia Marzano

 

È uscito presso Guido Miano edizioni, recentemente, l’ultimo libro di Silvia Marzano, Liriche scelte. Di lei presentammo nel luglio 2020 il libro Ad ogni ora.

Quest’ultima raccolta è un’antologia che riunisce i testi emblematici dei precedenti volumi: Anemoni bianchi, Arcani di-segni, Poesie per la mamma, Anemoni bianchi e altro, Ad ogni ora. Gli interessi filosofici teoretici dell’autrice, la sua competenza di docente di Ermeneutica presso l’Università di Torino, le discussioni filosofiche sul problema  del male, sul sublime kantiano, sul rapporto tra mistica e parola (nella fattispecie la parola poetica), tutto ciò, dico, offre una consistenza irrinunciabile di pensiero a un mondo lirico di rara, soave limpidezza.

L’estetica della caducità trova in lei le parole più evanescenti e cristalline per portarci all’Alto e all’Altrove e, col rasserenamento che ne consegue, il lettore intuisce, nel dono della parola poetica, più di una traccia dell’invisibile e dell’eterno in ciò che è visibile, terreno e dura lo spazio di un mattino.

 


Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Sulla terra scalzo (Ensamble 2021) di Fausto Celeghin

In molti, autori e fautori di poesia, hanno provato a rispondere alla ricorrente domanda degli spiriti pratici: “in un mondo di tecnica e di tecnologia avanzata, a chi e a che cosa serve oggi la poesia?”.

Io che, pur amante delle Muse, ho evidentemente concretezza caratteriale di base, non amo impegnarmi in discorsi teorici – tantomeno in polemiche – se non proprio tirata per i capelli: come sempre preferisco esemplificare. Talora basta infatti l’esempio di una vita riscattata dalla poesia – ai giorni nostri, non trent’anni fa – a dimostrare come l’amore per l’arte, l’impegno della scrittura in versi possano diventare la chiave di volta per mutare il destino di una esistenza segnata da eventi esterni di sofferenza, all’apparenza non suscettibili di soluzione.  È il caso di Fausto Celeghin, colpito a quarantasei anni da una malattia seria, debilitante e progressiva, che in sette ulteriori anni si è molto aggravata, cagionando la continua entrata-uscita da ospedali, nel tentativo di ‘rappezzare’ un vivere fisico-mentale votato al peggio.

Nella scrittura di testi poetici, diventata a mano a mano consuetudine di vita quanto più peggiorava la malattia, l’autore non solo ha trovato una forma di cura nel colloquio proficuo con se stesso allo scopo di salvare una sua integrità di persona pensante e senziente che, fissata sulla carta, non è deteriorabile nel tempo, ma ha saputo ‘usare’ della malattia per superare ogni personalismo ed essere di aiuto ad altri in analoghe condizioni. Ha capito infatti che non serve né a sé né al prossimo piangersi addosso: diventava insensato per lui mettere al centro del mondo se stesso in quanto malato; al contrario i suoi versi potevano concretamente aprirsi verso la ricerca scientifica, farsi strada per avviare ulteriori studi nei confronti del suo male. Contemporaneamente Celeghin capiva che, nonostante potesse sembrargli agli inizi un’assurdità, la poesia che nasce dalla malattia deve assumersi un preciso compito morale e civile, creando intorno a sé forme di informazione, di coinvolgimento sociale, di collaborazione con le associazioni e col volontariato che si occupano della salute, spesso più capillarmente ed efficacemente di ogni intervento a livello statale.

La poesia quindi, come nel caso dell’autore, può diventare scopo di vita, portando a tutti, sani e malati, un messaggio comunicativo di speranza. Questo il messaggio, semplice ma concreto, che vale in sé e ritengo valga la pena di proteggere e di diffondere, soprattutto ora, nel periodo di pandemia acuta, in cui la società non si ritrova affatto migliore, anzi si avvoltola sempre più nei propri personalismi fino all’egocentrismo bieco, come la carta stampata e la tv ci mostrano quotidianamente.

Questo il motivo primo per cui propongo oggi il libro di Fausto Celeghin Sulla terra scalzo, pubblicato in collaborazione con l’Associazione Amici Parkinsoniani Piemonte Onlus, per le Edizioni Ensemble 2021, con la Prefazione di Ernesto Siciliano, responsabile di Maledetti poeti.

Il volume consta di cinque sezioni, proprio come sono catalogabili gli stadi della malattia dell’autore che, nel percorrere la penosa trafila in un crescendo di frustrazioni e sofferenze, percorre altresì, nell’alternanza delle sensazioni, la sua ‘educazione’ spirituale. Si alternano toni aspri, cupi di ribellione e di rifiuto ad una forma, se non di accettazione, di consapevolezza. Il sostegno degli amici, l’aiuto della medicina, della fisioterapia, della psicoanalisi aggiungono quel senso concreto, vitale, del proprio esistere come uomo e come poeta, che spesso sfugge a chi è seriamente malato: perché resto in vita? Perché e per chi?

Il lavoro di Celeghin è una forma di ‘evangelizzazione laica’, di filantropia, di civismo concreto, lavoro questo che, seppure suggerito – anzi obbligato – dal male, non perde il suo valore; viceversa: è da pochi saper spiegare la sofferenza, rivoltandola a scopi civili, volgendola alla salvezza morale oltre se stesso ma nei confronti di quella parte della società troppo spesso ghettizzata perché resa ‘diversa’ da amare circostanze della vita e quindi considerata più o meno zavorra sociale, peso morto di cui è giocoforza occuparsi, ma senza soverchio impegno.

Propongo alcune letture dalle varie sezioni del libro.

 

Da Zero Uno Enter:

 

Eco

Di’ qualcosa.

Un solo eco.

Una voce.

Un urlo che si accartoccia rabbioso,

contro la vetta di una montagna.

Un urlo che faccia franare,

l’aridità millenaria delle pietre,

ritrose ad accettare,

che qualcuno le abbia sconfitte.

Di’ qualcosa.

Non per parlare.

Ma per far sì che io esista.

 

*

Di nuovo il diavolo lo condusse con sé

sopra un monte altissimo

e gli mostrò tutti i regni del mondo

con la loro gloria e gli disse:

«Tutte queste cose io ti darò, se,

prostrandoti, mi adorerai».

Matteo 4,8:9

Fior di stella

Raccolsi un fiore in alta montagna.

I petali erano così belli,

profumati e sensuali.

Piansi.

Avevo interrotto un progetto di Dio.

La sera nel cielo cadde una stella,

aveva la forma del fiore,

e la coda delle mie lacrime.

Dopo molti anni

lo ritrovai.

Tra le pagine di Dostoevskij

giaceva lì: secco morto.

Nella notte quando il cielo è sereno,

osservo sempre i fior di stella.

Da Zero Due Me:

 

Cercando

Cercando di sopravvivere,

sui pericolosi rimpianti del cuore,

mi scopro integro,

e ancora colmo di ardore.

Nella lucentezza esasperata,

solo nel mattino delle ombre.

Le orme dei miei passi,

brillano come tizzoni,

si rincorrono,

e fuggono,

verso l’origine del bene.

Mi volto indietro,

e già non mi scorgo più.

 

Da Zero Tre Non Me:

 

Il giogo

Il giogo che umilia è un labbro ferito

che cela nella possibilità di un bacio una calunnia.

È barattare un amore impossibile con un vaffanculo.

È un viaggio fintanto per dove quando come alle porte di

Birkenau.

È che le bestie non sono le tue pulsioni ma quelli

che ti castrano per non averle.

È creare ipotetiche parole che non si riescono a pronunciare.

È appunto bla-h bla-i bla-j.

È insegnare a un analfabeta un verbo in un solo tempo.

È un libro che ti offende con la sua intelligenza.

Il giogo sono io,

che con la mia voce non vivo che per me,

e mi specchio come un ladro,

nell’acqua delle anime altrui.

 

Da Zero Quattro Mondo 2050:

 

Alberi 2020

Vegliano sul mondo.

Dai secoli alla luce,

dal silenzio dei suoni,

al frastuono dell’estinzione.

Dei loro rami flettono

al peso della neve.

Altri si fanno culla e dimora,

come amorevoli madri

di animali nella foresta.

Parlano senza labbra,

si riproducono senza contatti,

ci sussurrano la loro pazienza,

col silenzio etereo

che comunica con il cielo.

Ci danno i frutti della loro vita,

come una santa ci dona le sue preghiere.

 

*

Alberi 2050

Ora stanno gli alberi,

con le braccia profuse,

su dal cielo.

Si sente, loro malgrado,

un madrigale ben temperato,

lontano,

che canta l’aria.

Nei grovigli dissennati delle città,

vogliono ancora vivere,

per sostenere quel poco d’ossigeno

e vizio che gli abbiamo rubato.

Una donna passa,

coi piedi di radici,

e l’anima di foglie e terra.

Lì, lascia un fardello.

 

Da Zero Cinque Consolazione:

 

La risacca

La poesia è come te:

un mare in risacca.

Espandi e contrai

il ventre e il respiro.

 

In questo intermezzo

in cui ti ritrai,

accarezzi la rena

di onde, di limiti,

confini con sassi e conchiglie.

Sta lì la poesia,

nel suono che lasci,

che devo raccogliere in fretta.

 

Accosto l’orecchio,

ti sento cantare

mi affretto a rubare,

le poche parole

che riesco a annotare.

È lì la poesia

il ricordo di un suono,

che tu con le onde

cancelli e riscrivi.

 

Questo è tutto.

Quel poco di me che ho vissuto

tra uno stato di quiete

e un affanno di moto.

 

*

Consolazione

Se la consolazione attenderà,

a sfiorarci la spalla,

a percuoterci l’istinto leggera,

a parlare parole,

a dirci “non dire”,

non abbassare la guardia,

redarguirci di perseverare,

sperare e parole, parole.

Qualcuno,

a sussurri, a gesti, a pelle,

che tu esisti,

e suoni efficaci a mormorare

colori pastello,

vele spiegate a barricare mari,

e venti di maestrale a inventare corsari.

Gomitoli che si trasformano in maglia

e note in canzoni

e navi che conoscono acque a navigare.

Allora, solo allora,

avremo gambe agili e forti,

e braccia e pensieri

per partire dai porti senza armi,

e senza conquistare.

 

Le due poesie della prima sezione ondeggiano tra l’urlo rabbioso di chi non si rassegna al destino, e non intravvede nemmeno il minimo valore per la sua esistenza, e il bisogno di ritrovarsi nel creato, nel microcosmo di un fiore, nel macrocosmo del cielo stellato. L’accenno a Dostoevskij non può non fare pensare alla dialettica sull’esistenza di Dio e all’annoso problema del male nel mondo, così lancinante nel contrapporsi del colloquio tra Ivan e Alioscia nei Fratelli Karamazov. Problema questo di ardua soluzione per tutti, ma soprattutto per chi, come l’autore, incolpevole, da un giorno all’altro vede la sua vita a catafascio per una malattia irrisolvibile.

Le poesie della seconda e terza sezione ondeggiano anch’esse tra atteggiamenti contrastanti: la voglia di reagire in positivo, il sentirsi nonostante tutto proteso alla sopravvivenza, nella ricerca dell’origine del bene e l’opposto sentimento di violenza, di disperazione nei confronti di se stesso e di chi crede superbamente di curare annullando la personalità del malato, rendendolo cosa, numero. Tanti e di diverso tipo sono i gioghi che legano alla malattia e cui accenna il poeta.

Le quattro poesie delle ultime due sezioni trovano infine una forma di rasserenamento: nella natura, prima di tutto, nonostante gli scempi umani in campo ecologico, che ci avviano in una strada senza ritorno, ma soprattutto in sé. Segnalo le ultime due liriche della raccolta: La risacca e Consolazione. In questi testi, particolarmente intensi e riusciti, l’autore, quasi ormai fuori dalla mischia, vede la sua vita e la sua scrittura come da altro universo, lontano da astii e acrimonie. Ha colto il senso del suo esistere in patimento e ne intravvede la limpida forza intrinseca. Solo allora arriva la parola definitiva e commovente:

Questo è tutto

Quel poco di me che ho vissuto

tra uno stato di quiete

e un affanno di moto.

 

 

 

venerdì 2 luglio 2021

"Non ho mai finto" (Ed. La vita felice 2021) di Monia Gaita letto da Cinzia Marulli

Il titolo “Non ho mai finto” e i primi due versi che lo accompagnano Faccio finta di esser viva. /Stanne certo: sono un’abusiva ci portano immediatamente a comprendere che questo libro è un percorso esistenziale e spirituale dove l’unica certezza sembra essere quella del “fuori posto” (sono un’abusiva) esprimendo così una condizione umana che ancora non ha trovato la sua corretta e armoniosa collocazione in questo mondo e, stratificando i livelli di interpretazione, possiamo estendere questa inadeguatezza alla sfera sociale, psicologica, umana e perfino fisica e materica. Tuttavia vi è qui, in questi mirabili due versi anche una forza di volontà incredibile: la forza della donna, dell’essere umano di combattere per ottenere il proprio giusto posto nel mondo, nella società, nel cuore degli altri.

Ma questo ce lo svelerà il libro che si dirama in tre sentieri principali: “Il ciclo del sentire”, “confluenze” e “a colloquio coi luoghi”.

Il “ciclo del sentire”, è una sezione chiaramente dedicata al sentimento dell’anima e alle esperienze dell’esistenza. La poetessa scava, indaga, porta in superficie ed elabora in qualche modo il “dolore”. Scrive nella poesia “I tetti del respiro” di pag. 13: ...Quando il dolore/ mi scoperchiava i tetti del respiro; / avevo ancora un tisico giacinto di reazione, / un forse striminzito, / un tiepido sorriso. / ….

Sono parole forti che ci portano dentro a questa dimensione di delusione e sofferenza. La musicalità del verso diviene dura, graffiante così come il dolore graffia la vita.

Tutta la sezione è caratterizzata dalla presenza costante del senso della perdita e dell’assenza

ad esempio in “Provo a dimenticarti” troviamo: E un Dio non c’è/ a rammendarmi lo strappo del perduto. / e ancora in “Quella me di prima” leggiamo: ...è traslocare nella vecchia casa/ del perduto, / guardare quella me di prima che sibila, indelebile, tra i rami/ e scruta da uno sbuffo della porta/ quel che sono. / fino ad arrivare a “Una presa salda” dove la perdita è di sé stessi: E io perduta/e con la bocca ancora da sfamare, / cercai una presa salda, un tetto/ nel tuo nodo. /

Vi è in questa parte del libro l’elaborazione delle difficoltà vissute, delle delusioni, di un amore perso e forse mai ritrovato. Monia Gaita scrive in prima persona perché, lei donna, diviene tutte le donne che hanno vissuto, sofferto, attraversato sentieri di vita selvaggi e scoscesi e conclude la sezione con una poesia straordinaria, “L’impalcatura”, dove coesistono forza, coraggio, sofferenza, consapevolezza, rassegnazione e, credo, liberazione:

 

L’impalcatura

Hai deciso di andare.

Non devo insistere, non devo dire niente.

L’anima adesso è piena di rumori,

beve d’un fiato il vuoto, perde peso,

incrocia gli occhi degli dei irritati.

  

Ora la forza dovrà riprendere a soffiare,

ferma e insistente, da tutte le fessure.

Ora dovrò perseverare nell’uguale,

accendere le stelle cieche

a quelle azioni che sembravano scontate.

 

Eviterò di piantarmi nelle cose

troppo a fondo

e metterò le cicatrici ad asciugare

con il coraggio della volta prima.

 

Fuori dai malintesi e senza contrariarmi

quando l’impalcatura,

stanca di concepire,

cade al suolo. 

 

La seconda sezione “Confluenze” è la prosecuzione del viaggio, il luogo della riflessione e della consapevolezza; sono poesie intrise di vita che non è mai troppo generosa. È come un dialogo che la poetessa fa con sé stessa e con tutte le confluenze della sua esistenza che è una scuola continua di esperienze e di dolori. Così scrive nella poesia “Presidiare” (pag.48): La vita passa fra una lezione e l’altra, /un clandestino entrare negli sbagli/ dalla porta posteriore, / uno schivare attivo e resistente/ i dispiaceri. /

La lingua poetica di Monia Gaita è una lingua originale e personale; Monia è poetessa con un suo stile dove non c’è spazio per l’imitazione ma dove si sente la presenza dei grandi maestri che hanno sedimentato e ramificato.

Ma credo che nella terza sezione “A colloquio con i luoghi” si compia definitivamente la “parola”; qui, dove il vissuto dei luoghi e l’amore per essi diviene materia, a volte rarefatta e onirica e altre volte densa e corposa, troviamo un’intensità rara, una poesia, dal mio punto di vista, altissima e il cui “sentire” è talmente profondo che va oltre il luogo narrato e amato, diviene ricordo e speranza e si trasforma nel luogo della nostra anima. Così leggiamo una poesia raffinata e fortissima dedicata alla terra natia della poetessa, l’Irpinia, e credo che a questi versi non si possa aggiungere e dire null’altro:  

 

Sono partita


Sono partita,

ho fatto scorta di verde e sono andata.

 

Ora m’immergo nell’emicrania dei montaggi,

dei contafili azionati dai pulsanti.

 

Quando ho riavvolto la storia dei miei anni,

gli esami, lo studio, le rinunce,

avevo l’amarezza di un cratere dentro il petto.

 

Non è servita la mia laurea.

Ha traslocato di ripostiglio in ripostiglio,

in molti vuoti navigabili,

nella peluria del soffione quando vola

e si disperde.

 

Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia.

 

Resto ancorata all’utero dei campi,

covo la prole delle spighe, la proteggo

fino al millimetro finale della schiusa.

 

L’Irpinia mastica i suoi figli e li sospinge

dove si ingrossano gli ovari della nebbia

e il traffico del centro

s’attacca con l’uncino dei rumori

sulla pelle.

 

Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia.

 

E mi strofinano gli omeri delle vigne,

la cartilagine del vento e delle piante.

 

E quando il forno pone a bollore

l’acqua dei ricordi,

estraggo dall’archivio gli annegati,

corazzo le mie gambe col tronco dei castagni.

 

Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia.

 

L’Irpinia delle chiese e delle volpi,

L’Irpinia delle pale, dei carpini, dei faggi,

l’Irpinia con le tempie corrotte del moderno.

 

Io non dimentico l’Irpinia,

 

L’Irpinia di mio nonno con gli occhi da brigante.

Irpinia madre, Irpinia del mio sangue. 

 

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