Il titolo “Non ho mai finto” e i primi due versi che lo accompagnano Faccio finta di esser viva. /Stanne certo: sono un’abusiva ci portano immediatamente a comprendere che questo libro è un percorso esistenziale e spirituale dove l’unica certezza sembra essere quella del “fuori posto” (sono un’abusiva) esprimendo così una condizione umana che ancora non ha trovato la sua corretta e armoniosa collocazione in questo mondo e, stratificando i livelli di interpretazione, possiamo estendere questa inadeguatezza alla sfera sociale, psicologica, umana e perfino fisica e materica. Tuttavia vi è qui, in questi mirabili due versi anche una forza di volontà incredibile: la forza della donna, dell’essere umano di combattere per ottenere il proprio giusto posto nel mondo, nella società, nel cuore degli altri.
Ma questo ce lo svelerà il libro che si dirama in tre sentieri principali: “Il ciclo del sentire”, “confluenze” e “a colloquio coi luoghi”.
Il “ciclo del sentire”, è una sezione chiaramente dedicata al sentimento dell’anima e alle esperienze dell’esistenza. La poetessa scava, indaga, porta in superficie ed elabora in qualche modo il “dolore”. Scrive nella poesia “I tetti del respiro” di pag. 13: ...Quando il dolore/ mi scoperchiava i tetti del respiro; / avevo ancora un tisico giacinto di reazione, / un forse striminzito, / un tiepido sorriso. / ….
Sono parole forti che ci portano dentro a questa dimensione di delusione e sofferenza. La musicalità del verso diviene dura, graffiante così come il dolore graffia la vita.Tutta la sezione è caratterizzata dalla presenza costante del senso della perdita e dell’assenza
ad esempio in “Provo a dimenticarti” troviamo: E un Dio non c’è/ a rammendarmi lo strappo del perduto. / e ancora in “Quella me di prima” leggiamo: ...è traslocare nella vecchia casa/ del perduto, / guardare quella me di prima che sibila, indelebile, tra i rami/ e scruta da uno sbuffo della porta/ quel che sono. / fino ad arrivare a “Una presa salda” dove la perdita è di sé stessi: E io perduta/e con la bocca ancora da sfamare, / cercai una presa salda, un tetto/ nel tuo nodo. /
Vi è in questa parte del libro l’elaborazione delle difficoltà vissute, delle delusioni, di un amore perso e forse mai ritrovato. Monia Gaita scrive in prima persona perché, lei donna, diviene tutte le donne che hanno vissuto, sofferto, attraversato sentieri di vita selvaggi e scoscesi e conclude la sezione con una poesia straordinaria, “L’impalcatura”, dove coesistono forza, coraggio, sofferenza, consapevolezza, rassegnazione e, credo, liberazione:
L’impalcatura
Hai deciso di andare.
Non devo insistere, non devo dire niente.
L’anima adesso è piena di rumori,
beve d’un fiato il vuoto, perde peso,
incrocia gli occhi degli dei irritati.
Ora la forza dovrà riprendere a soffiare,
ferma e insistente, da tutte le fessure.
Ora dovrò perseverare nell’uguale,
accendere le stelle cieche
a quelle azioni che sembravano scontate.
Eviterò di piantarmi nelle cose
troppo a fondo
e metterò le cicatrici ad asciugare
con il coraggio della volta prima.
Fuori dai malintesi e senza contrariarmi
quando l’impalcatura,
stanca di concepire,
cade al suolo.
La seconda sezione “Confluenze” è la prosecuzione del viaggio, il luogo della riflessione e della consapevolezza; sono poesie intrise di vita che non è mai troppo generosa. È come un dialogo che la poetessa fa con sé stessa e con tutte le confluenze della sua esistenza che è una scuola continua di esperienze e di dolori. Così scrive nella poesia “Presidiare” (pag.48): La vita passa fra una lezione e l’altra, /un clandestino entrare negli sbagli/ dalla porta posteriore, / uno schivare attivo e resistente/ i dispiaceri. /
La lingua poetica di Monia Gaita è una lingua originale e personale; Monia è poetessa con un suo stile dove non c’è spazio per l’imitazione ma dove si sente la presenza dei grandi maestri che hanno sedimentato e ramificato.
Ma credo che nella terza sezione “A colloquio con i luoghi” si compia definitivamente la “parola”; qui, dove il vissuto dei luoghi e l’amore per essi diviene materia, a volte rarefatta e onirica e altre volte densa e corposa, troviamo un’intensità rara, una poesia, dal mio punto di vista, altissima e il cui “sentire” è talmente profondo che va oltre il luogo narrato e amato, diviene ricordo e speranza e si trasforma nel luogo della nostra anima. Così leggiamo una poesia raffinata e fortissima dedicata alla terra natia della poetessa, l’Irpinia, e credo che a questi versi non si possa aggiungere e dire null’altro:
Sono partita
Sono partita,
ho fatto scorta di verde e sono andata.
Ora m’immergo nell’emicrania dei montaggi,
dei contafili azionati dai pulsanti.
Quando ho riavvolto la storia dei miei anni,
gli esami, lo studio, le rinunce,
avevo l’amarezza di un cratere dentro il petto.
Non è servita la mia laurea.
Ha traslocato di ripostiglio in ripostiglio,
in molti vuoti navigabili,
nella peluria del soffione quando vola
e si disperde.
Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia.
Resto ancorata all’utero dei campi,
covo la prole delle spighe, la proteggo
fino al millimetro finale della schiusa.
L’Irpinia mastica i suoi figli e li sospinge
dove si ingrossano gli ovari della nebbia
e il traffico del centro
s’attacca con l’uncino dei rumori
sulla pelle.
Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia.
E mi strofinano gli omeri delle vigne,
la cartilagine del vento e delle piante.
E quando il forno pone a bollore
l’acqua dei ricordi,
estraggo dall’archivio gli annegati,
corazzo le mie gambe col tronco dei castagni.
Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia.
L’Irpinia delle chiese e delle volpi,
L’Irpinia delle pale, dei carpini, dei faggi,
l’Irpinia con le tempie corrotte del moderno.
Io non dimentico l’Irpinia,
L’Irpinia di mio nonno con gli occhi da brigante.
Irpinia madre, Irpinia del mio sangue.
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