Immagino
Gabriele Galloni rapito dalla contemplazione del teschio esposto sulla sua
scrivania sgombra e spartana. Lo vedo assorto in profonde meditazioni come un
illuminato del diciottesimo secolo.
Poi lo so fuori
dal tempo e dallo spazio, a dissezionare la banalità del reale fino a
distillarne lo zero (pag. 22).
La critica lo
inserisce con ragione nella tradizione lirica. Ciò che pensano e non osano dire
è che il Galloni di “In che luce cadranno” è epifania poetica uguale a quella
del William Blake di “The marriage of Heaven and Hell” e dell’Arthur Rimbaud di
“Une saison en enfer”.
Si tratta quindi
di poesia non inscrivibile in alcuna tradizione, potremmo chiamarla innovazione
ma ritengo sarebbe scorretto. La poesia non è ammalata di quantità, non
progredisce, non raggiunge, non supera, non persegue. La poesia è rito di pochi
istanti che disvela attraverso le allusioni, squarcia l’afa del deserto e
deifica l’allucinazione degli assetati, per mezzo dell’antropomorfizzazione.
Poesia potrebbe
essere espressione estetica di gratitudine per l’autocoscienza, sicuramente
celebra le sensazioni.
Nel tempo grigio
del regno della ragione difende i sensi dall’atrofia.
Gabriele Galloni
scrive versi psicotropi.
Ho letto la sua
seconda silloge senza perdere il sapore intenso di alcun fonema, rileggevo un
distico perfetto e il suo sapore s’intensificava. Lasciavo che dai lombi
salisse al cervello il flash dell’intuizione, quando coglievo l’estrema
complessità dei giochi semantici mascherati da guizzi spontanei d’immediata
intellegibilità.
La semplicità è
il comune denominatore d’ogni forma d’arte e Galloni ne è maestro. Egli è
riuscito a realizzare un capolavoro privo di sbavature senza necessitare della
quiete o della forma di riflessione che comporta l’età matura.
Si deve
escludere che fra i suoi versi ne vivano molti che non siano stati
laboriosamente cesellati dopo la prima stesura, sono portato a pensare che
esistano lemmi scartati sufficienti ad approntare un’altra silloge, ogni poesia
è una goccia d’assenzio.
Federico
Dragogna, discreto paroliere della rock band I Ministri, appartenente alla
generazione precedente a quella di Gabriele, nel secondo distico di “Segui la
pista anarchica” scrive “dio ha quattordici anni e non è/neanche il suo vero
nome”.
Questi versi
sono per me oggetto di riconoscimento platonico e spero che Dragogna abbia
avuto occasione di scoprire che l’Imperatore ha ventitré anni e si chiama
Gabriele Galloni.
Nell’universo
che abito insieme a Dragogna e Galloni non c’è bisogno di figure di
riferimento, di contratto sociale o stupide leggi.
Nel nostro
universo gli artisti hanno ereditato la terra e fra i vivi muoiono e vivono i
morti. Quei morti che hanno eletto a cantore e disvelatore il poeta più
talentuoso e geniale. Se un filosofo poeta persegue immagini ricavate da
prospettiva conquistata sub specie aeternitatis, Gabriele Galloni ha poetato
l’infinità, l’universalità, l’uguaglianza, senza la confusione generata dalla
distrazione causata dallo spreco d’energie profuse nel comprendere e criticare
ciò che è quotidiano e banale, per quanto ingiusto ed eternamente rorido.
Le trentotto
poesie che costituiscono la silloge sono altrettante attribuzioni di vita ai
morti, che muoiono ancora e festeggiano riti funebri. Il sentimento
predominante è il sublime.
Dato l’argomento
ci si aspetterebbe più gotico, macabro, lugubre, ci si aspetterebbero la
mestizia, la malinconia e il grottesco, quest’ultimo è presente in pochissimi
camei delicati e diafani, poiché non esiste il genio senza tentazione d’ironia
o sarcasmo. Penso ai morti che è normale vederli
a volto coperto passare/ dal corridoio al bagno alla cucina, ultimo distico
della poesia di pag. 11 che amerei stuprare con un’analisi dettagliata e
approfondita.
Galloni non ha
ceduto e nemmeno è stato sfiorato per un istante dall’idea di affrontare i
morti col taglio disperato e scuro dell’immenso Novalis, per esempio. Non
appartiene alla banalità.
Il poeta non ha
bisogno d’uno Psicopompo che lo conduca alla scoperta di (qualsiasi fiume) ove
si trovino I più frivoli tra i morti
(pag. 39), il arrive à l'inconnu ma senza perdre l'intelligence de ses visions.
A Le suprême Savant in questione per il
momento sono state risparmiate toutes les
formes […]de folie, così ricorrenti nell’esplorazione della tradizione
estatica; gli auguriamo che la vita conservi la sua coscienza meravigliosa.
La prova
tangibile, il risultato della ricerca di Gabriele Galloni, risiede nella poesia
seguente, viene estratta da una scatola (elezione lessicale perfetta, a prova
del Faber di Amico fragile):
Dentro
la scatola c’è un flauto d’osso.
Tra
pochi giorni ritornerà cenere
E
i morti se lo soffieranno addosso
Correndo
intorno a un lumicino blu.
Poi la tenerezza
commuovente dei versi che seguono, in cui tutta la produzione d’un Giovanni
Pascoli a caso non è che il sassolino d’arredo d’un acquario delle dimensioni
della somma degli oceani:
Se
la madre dei morti è sempre polvere,
i
morti cercano la loro madre
ogni
sabato sera sulle spiagge
libere;
sotto le sedie o nei gelati
caduti
di mano ai ragazzini
in
chissà quante estati, in chissà quanti
alberghi,
marciapiedi, lungomari.
La licenza
ermeneutica mi tenterebbe a raccontare cosa vedo quando sento “In che luce
cadranno”. Stiamo parlando di poesia però, di preghiera, il verso d’un poeta
ispirato l’unico dogma che riconosco e rispetto. Stiamo parlando di Poesia.
Luca Perrone
Gabriele Galloni
è nato a Roma nel 1995. Esordisce nel 2017 con la silloge di versi Slittamenti
(Augh! edizioni). Segue, a inizio 2018, In che luce cadranno (RPlibri)
Autore, per il
sito Pangea, della rubrica Cronache dalla fine. Dodici conversazioni con
altrettanti malati terminali.
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