L’autore che vi presento oggi è Fulvio Ferrero, chimico in una multinazionale per
cui ha lavorato in Italia e per vari anni anche all’estero, soprattutto in
Francia e America. Sposato con due figli ed un cane, per trent’anni ha
praticato la scherma agonistica; amante della montagna più rude, escursionista,
scalatore, adora la natura di alta montagna di cui conosce e studia flora e fauna con esperienza quasi
professionistica.
La poesia è un amore fin dalla prima giovinezza; per lui è
un cantiere aperto: scrive, riscrive, modifica di continuo. Forse per questo
motivo, nonostante la vittoria in concorsi poetici ed il successo di sue
pubblicazioni in plaquette, non ha mai pensato – fino ad ora – ad una seria,
sistematica stampa. Come potrebbe continuare a modificare nel tempo un’opera resa codificata organicamente
su carta stampata? Ciò che è fissato trova un limite, si fossilizza nella
staticità; la poesia per lui è vita, è movimento, scoperta sempre nuova, è
gioco di creazione e di confronto, è proprio e sempre un work in progress. Tale è uno dei pensieri dominanti di Fulvio e, se
non siamo in totale accordo con questo suo concetto, peggio per noi!
Vi propongo oggi tre sue poesie di argomento ampio e assai
diversificato, anche se l’ambiente rimane lo stesso, cioè la montagna che ama e
che ha visto dipanare e svolgersi tanta parte della sua vita. Sono testi
modificati di continuo anche questi: oggi hanno la stesura che vi propongo, solo perché per il momento risulta
la più aderente al pensiero dell’autore.
E’ una poesia ardua, difficoltosa, talora persino criptica
per continui riferimenti culturali ad altri poeti, antichi e moderni, suoi
maestri di scrittura e di vita, ma che
risulta oscura anche per accenni, inconoscibili per il lettore, alla sua
biografia, cosa che può creare ulteriori perplessità o difficoltà di
comprensione in chi legge. Per ovviarvi, ho deciso di interrogare l’autore di
persona, interpellandolo sui passi a me più ostici.
Vi propongo quindi le tre poesie una alla volta, prima il
testo poi le note esplicative dell’autore, così tutto risulterà più chiaro. Il
risultato, come vedrete, è una poesia suggestiva e sapiente che si snoda, a
partire dalla montagna amata, attraverso la storia di un’umanità montanara, ove
l’uomo singolo è stato ed è carnefice e vittima, protagonista e gregario,
talora delle macrostorie, più spesso delle microstorie di generazioni intere.
All’ombra delle stesse cime, delle stesse fonti d’acqua,
delle stesse distese di erbe e di boschi, tutti imperturbabili osservatori
naturali delle umane vicende, siamo condotti ad emozionarci ed a riflettere
sulle sorti di chi ha vissuto, come noi, prima di noi, le stesse nostre domande
esistenziali, gli stessi momenti di felicità in seno alla natura, ha come noi
versato lacrime per fame, isolamento, abbandono, guerre, decadenza fisica e
morale di persone e luoghi.
Zendefol
Graffiti
1866
B. m. δ ,
Incisi
il mio tempo
qui,
nella scabra dimora,
spiovente
grigio di lose,
quattro
confini di mura,
pietra
su pietra, la forra al vento,
qui
devi vivere, fra boschi e rupi,
colpi
d’ascia, stridori ,
scricchiolii, schianti aperti i varchi,
percossi da venti
folli,
gli alberi, le case crescono e cadono.
L’
occhio rovista i segni,
porte
senza porte,
travi torturate,
scompigliate,
spogliate sul letto di foglie,
covo
di refoli e di verri.
“Villa dei
sogni” laccata dai writers,
quinta
aperta,
una vita viene incontro.
Di
botto,
nel
sentiero senz’ echi, senz’ orme,
senza
canti dì uccelli.
“mille radici e
mille rami ebbero la pena che io soffro”
I. N . Griparis
Nota
Zendefol graffiti (1866 B m δ) dal nome del luogo: “Il campo del folle” (forse il vento).
Dopo 35 anni,
tornai per fotografare la grangia, dai muri in parte diroccati. Era rifugio
dopo le fatiche dei taglialegna della valle ed anche di bergamaschi. Sinora, non sono riuscito a sapere chi la
costruì, nel 1866, né chi, in seguito,
battezzò le sue pietre “Villa dei
sogni”.
Grange, muri a secco di mulattiere stanno crollando,
come pure il ricordo della genti che li hanno innalzati e percorsi.
La spiegazione di
Fulvio
In Val di Susa, sotto al valico del Moncenisio, a Novalesa
c’è la nostra casa ereditata dai nonni di mia moglie Franca. Attraversando in
solitario pellegrinare boschi di castani e di faggi, scoprii questa baita,
forse rifugio di taglialegna, forse di partigiani durante la guerra.
Dopo trentacinque anni tornai per fotografare la grangia:
ormai non c’era più sentiero. Ora il posto è sempre più impervio, si arriva
attraversando rocce. C’è un abbandono totale: grange, muri a secco di
mulattiere, stanno crollando come pure il ricordo delle genti che li hanno
innalzati e percorsi. Nessuno in paese ha saputo dire chi costruì la baita nel
1866, chi scolpì la scritta ZENDEFOL, cioè
“campo del folle”, ove probabilmente il folle è il vento che scuote impetuoso
la montagna. Villa dei sogni è una
scritta in vernice nera molto posteriore, dovuta a qualche visitatore
sconosciuto. La citazione è di I. N. Griparis, poeta greco della
prima metà del Novecento, dai toni tra il crepuscolare, la tradizione del
teatro greco romantico e le correnti del simbolismo e del parnassianesimo
presenti in Grecia nei primi decenni del secolo XX.
Il senso
della poesia mi è stato suggerito da Eliot: è suo il concetto che le
case crescono, cadono, fino a finire in cumuli di rovine. Forse non dovrebbe
esserci rimpianto per la vita dura di allora, ma io vi aggiungo il pensiero e
la pena perché il tempo distrugge cose e persone, finisce un mondo senza
lasciare traccia. Nessuno più conosce la storia di questa casa e della gente,
tanta, di cui non rimane nulla.
Venni
dal mare
"Questi monti sparsi di
nebbia, ormai una casa per me"
Brothers in arms - Dire
Straits
- Che insegui sulla via
romana?
- La vetta, issato dal vino
dei bracconieri
- Un gallo predatore,
ancora.
Nove giorni con loro, alleati e ostili.
Rotolarono massi,
scolò sangue di pugnali.
- Chi sei, uomo senz'ombra?
- Outis,
venni dal mare.
In questi monti ti vidi vagare
su, giù dai nevai, sentieri, fortini,
dalle pietraie dei morti,
fili spinati.
- In bufere e burroni,
due notti accanto al lago
addossati ai massi,
neve e grandine calate sui teli,
sognando sole e miele.
Azzannati dal vento,
anche i cani tacevano.
- Il cielo s'aprì al
tramonto d'Alcione.
Innanzi i cavalieri sacri e stendardi.
Dal promontorio brillò la
tua pianura,
la speranza nuotò negli
occhi.
Il fuoco aprì un varco.
Lì passasti con una luna d’estate.
Il giavellotto nella
poltiglia,
al morso il cavallo,
un nitrito, uno scarto.
Non cercarmi tra le pietre
sotto la frana, come altri,
nessuno.
Nota
Forse Annibale discese in
Italia dal colle Coche-Savine o dal Clapier, non lontani dal Moncenisio.
Chissà, se sarà rimasto ancora il vino dell'amico cacciatore sotto le pietre
del sentiero romano che, dal Col Giaset, porta a quelli citati?.
I morti cartaginesi sulle
Alpi furono probabilmente ventimila.
I versi sono dedicati al
medico inglese de Lavis Trafford. Dopo lunghi studi, non ebbe alcun
dubbio: Annibale passò in quei luoghi nel 218 a.C. Ho recentemente visitato la
chiesa restaurata di S. Pierre d'Extravache, spettacolare con lo sfondo della
Dent Parrachée. Lo stesso medico ne iniziò il ricupero negli anni trenta, a sue
spese. Salendo in macchina da Bramans si arriva allo chalet-museo ove visse.
La spiegazione di Fulvio
Questa poesia ha inizio con una citazione musicale: i Dire Straits sono un complesso che ho sempre apprezzato
molto. E’ una poesia di ricostruzione storica – Marvi dice di grande fascino –
per l’evocazione di voci lontane di fantasmi che ricordano la discesa di
Annibale in Italia, attraversando le Alpi con un’armata e elefanti nel 218 a.C.
- Chi sei, uomo senz'ombra?
- Outis,
venni dal mare.
Cartagine, sulle coste dell’Africa mediterranea
Outis, cioè Nessuno.
Parla uno dei tanti morti, senza nome, in battaglia, ma è anche evidente
il riferimento ad Ulisse – Nessuno
nella grotta di Polifemo.
Dalla classicità le nostre radici culturali: le Alpi di Novalesa sono
luogo di attraversamenti e di battaglie storiche. Di lì scesero in Piemonte le
truppe di Carlo Magno che vinsero i Longobardi presso Avigliana alle porte
della piana di Torino, di lì scese in Italia un’armata per le prime campagne in
Italia di Napoleone.
In ricordo della spedizione militare di Annibale il Circo Medrano, anni
fa, fece fare ai suoi elefanti una parte del percorso montano a piedi, con i
bambini locali in visibilio per la stranezza di uno spettacolo simile (più
unico che raro).
Il "Monio"
...la sua
storia ha dentro disegnata,
a volte
ti balena per frammenti ...
Umberto Piersanti
Aria tersa
dal crinale,
rupi, boschi
a semicerchio,
Valcenischia,
incisa d'acque,
Rocciamelone
e la poiana nelle scie delle rotte.
Foto e foto
nella cappella,
occhi
fratelli della terra che li partorì,
"tu ci
cammini in mezzo e non li conosci"
Merenda sul
muretto di lose tra ortiche e cardi
nel sole di
sghimbescio,
origliando
l'acqua
che parlotta
dal tubo azzurro
La spiegazione di Fulvio
La citazione iniziale è di Umberto Piersanti, poeta vivente di Urbino,
oggi settantottenne, candidato nel 2005 al premio Nobel (pare, perché le
candidature rimangono segrete, o
dovrebbero restare tali per decine di anni).
Il Monio è un gruppo di case:
una chiesa, un bivacco alpino e la casa dei Chabert, famiglia nota alla
Novalesa per essere di allevatori e casari. Oggetto di gita da parte mia: sono
stato colpito dalla chiesa, il cui interno è tappezzato di foto di defunti:
questi morti sono le persone semplici del posto, quelle che non fanno la grande
storia ma costituiscono il tessuto della montagna col loro lavoro (pastori,
taglialegna, operai). Qui vengono ricordati tutti, almeno dai tempi in cui
esistono le macchine fotografiche. Dopo la visita alla chiesa ed un reverente
grato pensiero a questi morti oscuri, la merenda di prammatica al sole un po’
obliquo dell’autunno e del pomeriggio avanzato.
Un’annotazione ancora sulle tre poesie che sono state scelte non da me,
ma da Marvi.
E’ vero che l’ambiente della mia montagna mi è da stimolo alla mente e a
l cuore, e che l’amore per questa terra fa da sfondo spesso alla mia scrittura
che viene ad assumere, da un tono intimo e personale di partenza, una visione
collettiva di vita di popolo e di genti, quando non addirittura una visione
storica di epopee e tragedie di guerre dell’antichità, come si è visto, fino alla
lotta partigiana. Io comunque sono malato di citazionismo e nella testa risuona
un’immagine di Celan che ho fatto mia, che vivo ogni volta che sto a Novalesa e
che ho inserito in Zendefol: “qui devi
vivere”. La citazione esatta dice:
“Invernato campo ventoso
qui devi vivere nucleoso
come melograno”
da: Filamenti di sole, Meridiani, pag. 903
E’ la mia montagna, la mia patria d’elezione.
Conclusioni di Marvi
E’ stata per me estremamente stimolante questa intervista a Fulvio
Ferrero.
La poesia esalta una personalità ricchissima di doti umane e culturali,
che sono emerse in grande semplicità e naturalezza nel colloquio. Tanto
ritenevo la sua poesia ardua e cerebrale alla lettura, altrettanto lineare e
chiara mi è apparsa dopo le sue parole esplicative.
Sono sempre più convinta che i diversi piani di lettura e la ricchezza
dei riferimenti letterari nascosti tra i versi rendano la poesia di Fulvio
essenziale e raffinata insieme, personale ma universale, precisa eppure sfumata
nei risvolti del messaggio, realistica ma immaginifica, razionale ma intuitiva,
concreta nella realtà dei luoghi ma sognante di stuporoso incantamento nello
stesso tempo. La completezza degli opposti.
La mia scelta di proporre tre poesie diverse sullo stesso tema di
ambiente montano è dovuta all’allargamento di orizzonti e di prospettiva che io
rilevo aprirsi e crescere da una poesia all’altra, sotto forma quasi di un
climax ascendente ideale.
Nella prima poesia Zendefol,
Novalesa ispira una visione di decadimento e sfacelo di elementi individuali,
case o persone, corrose dal tempo secondo un destino comune, doloroso ma
incontrovertibile. Nella seconda lo stesso paesaggio montano diventa
protagonista ed evoca grandi epopee storiche realmente accadute nei millenni.
In questo teatro montano Novalesa si apre quindi alla macrostoria, in una
rievocazione artistica di grandiose vicende.
Nella terza poesia troviamo ancora la storia, ma in una visione attuale,
direi contemporanea, di critica storica: la microstoria. Vicende delle masse,
dei personaggi oscuri che non hanno un nome importante, ma le cui gesta ed
eroismi comuni hanno contribuito a creare la realtà civile del nostro paese.
Dalla storia dell’individuo singolo, alle epopee clamorose della grande storia
del passato, fino alla considerazione della microstoria delle genti oscure,
rilevanti alla lunga forse più delle vicende dei grandi personaggi,
nell’economia del nostro divenire.