sabato 1 giugno 2019

Quinta vez (Stampa2009) di Mariapia Quintavalla letto da Cinzia Marulli


Quinta Vez è un libro di Mariapia Quintavalla pubblicato nel 2018 da Stampa2009 con prefazione di Maurizio Cucchi.
E’ un libro complesso, stratificato, spiazzante, fuori dai canoni e forse proprio per questo esso stesso canone. E’ un libro che si presenta articolato sia sul piano temporale, sia stilistico, sia contenutistico.
Questo libro è un viaggio reale, onirico, spirituale, mentale. Tutto coesiste. E’ un libro libero, dove le varie dimensioni non solo convivono ma si completano.  E’ evocativo e intimista, surreale e filosofico. E’ un libro umanissimo che traccia un percorso attraverso piani alternati e coesistenti.
La Quintavalla percorre la figura “donna” in ogni sua sfaccettatura indagando sullo status di madre, figlia, sorella. Figure che nella sua scrittura sono come la trinità: tre e una allo stesso tempo. La madre che è anche figlia che è anche sorella.  Estasiante è il modo in cui rappresenta non solo le figure in se stesse ma il rapporto esistente tra di loro penetrando nel sentire intimo dell’anima.

Il libro è strutturato, ben definito, tanto da accompagnare il lettore attraverso il viaggio senza il rischio di uscire dai percorsi delineati, ma lasciando la libertà del sentire.
Sono cinque le sezioni in cui è composto il libro e ognuna di loro ha caratteristiche stilistiche e semantiche differenti: sono i cinque percorsi dai quali è composto il viaggio; sono cinque piani spazio-temporali.
La prima sezione s’intitola “Pre-natale” si presenta stilisticamente come una prosa poetica e come dice l’autrice stessa in una nota a fine libro tratta di China, cioè della madre dopo morta.
E’ un dialogo tra la figlia viva e la madre morta. Ma l’autrice, quasi a indicare la sacralità del termine “madre”, lo usa, proprio per accompagnare il lettore nel viaggio senza devianze, solo due volte, nel primo testo della sezione: “Stamane mi sono svegliata già stanca e un po’ agitata come da un sonno duro e senza pace, e avrei voluto parlare con te, madre: “ e nel testo di pag. 29; “Era mia madre quella beatitudine di piccolo rosa e giallo che forava il bianco dell’aria, …”.
Ed è proprio con il primo testo, a incipit, che Maria Pia ci prende per mano e ci porta con lei in questo viaggio di vita, ma soprattutto in questo viaggio dell’anima. Qui, in questi versi si svela l’intento del dialogo desiderato e perso. E prosegue scrivendo: “… mi sento così strana senza il nostro telefono senza fili, quei fili che ho cercato amorosi nel buio, per un po’, senza trovarli.”; esprimendo dunque lo smarrimento e il dolore per il distacco, per la perdita. Ha necessità di sentire la sua “voce” come legame etereo, immateriale ma indissolubile. C’è l’urgenza di afferrare i ricordi che chiama “tesori”. “La voce” torna come un assillo, una necessità ed ecco i versi: “Eravamo sole, e quest’immagine mi ha dato la carica nervosa, senza le parole ancora, che per giorni mi avrebbe lasciata in tormento.”
Il rapporto madre-figlia, dovendo fare i conti con l’assenza, il distacco e diciamo pure questa parola che ci fa tanta paura, con la Morte, si eleva a una dimensione ultra corporea ma nello stesso tempo tangibile attraverso il sentire interiore. Quasi una sorta di schizofrenia immaginifica a tutela di un vuoto insopportabile. E questo legame che non è più materiale, corporeo, diventa paradossalmente più forte, più intenso.
C’è una parola che torna ricorrente in questa prima sezione ed è la parola “aria. L’aria è presente ovunque. L’aria è la madre stessa, è l’assenza e la presenza allo stesso tempo.  La materia non c’è più, si è dissolta, è divenuta aria.  I due mondi del qui e dell’altrove coesistono e si parlano.
Troviamo la madre-aria in molti versi come: i seguenti:
Così ho sentito che ti spostavi liberamente e che potevo farti dei cenni, circondarmi della tua aria…” (pag. 15)
E dove era caduta la rondine più alta, per forare spostandolo, il muro a me incompiuto, nel tremore di una singola canzone ci muoveva, l’aria forse ti cercava.” (pag. 17)
La tua sottigliezza esile e nota, il tuo dimagrimento continuo fino a farti tornare a essere aria, aria che respira e fa riposare…” (pag 18)
“Tu, quei rami spessi, qua nei colori compensati dal sentire, erano per tocchi e suoni, dal silenzio ribaciati! Dolce l’aria che li conteneva … “ (pag. 20)
“Forai con le mani quel vuoto spesso più dell’aria, presi coraggio dall’essere già deste e feci un gesto, eccomi non temere, andiamo più dentro o più lontano, abbandoniamo l’impenetrabile e l’immobilità – mute. “ (pag. 24)
“Ci abituavamo allo spostamento dell’aria, e con il respiro spingendocene fuori all’aperto, di nuovo lo scartammo.” (pag. 27)
“Un purgatorio era il luogo cui facevo somigliare questa nostra aria piena di bianco, in una quasi pioggia trasmutata.” (pag. 28)
Era mia madre quella beatitudine di piccolo rosa e giallo che forava il bianco dell’aria, …” (pag. 29)
Né la voce unita all’estremo eterno, né le mani, quelle piccole e segrete, mi avrebbero più fatto cenno. Né le reti di memoria, le sue immagini ultime che si libravano dell’aria perché chiare e struggenti, troppo immacolate.” (pag.32)
Tu guardavi senza avere l’aria di vedere nulla, giacevi ti libravi eri pura musica di spazio, nulal più poteva toccarci come prima, sparimmo alla loro vista, mute.” (pag. 38)

Dapprima la voce, poi l’aria. Il corpo non esiste più, ma le vibrazioni perdurano.

Un altro elemento che mi ha avvolto in questa sezione è l’elemento natura o meglio il rapporto diretto tra “natura” e madre”; una sorta di osmosi, di trasformazione. Forse, inconsapevolmente, l’autrice, che sente il bisogno di mantenere il contatto, richiama il concetto tutto orientale del buddismo che ci porta a ridiventare tutt’uno con il tutto dopo la nostra ultima morte, quando, terminato il ciclo di rinascite, si giunge al nirvana, all’illuminazione. Ritroviamo questo elemento, per citare alcuni esempi, nei testi di pag. 18 “Quel bianco, breve sconfinato verso il cielo eri tu a carpirlo, ma i rami-mani e il calore vano, quel tocco della schiena tornata a vivere all’altezza del tronco, là tu per noi, più viva dei viventi ti faceva.”; di pag. 20 “Tu, quei rami spessi, qua nei colori compensati dal sentire…”;
Il ritratto di Mariapia è quello di una madre-luce. In tutta questa sezione che è incentrata sul legame madre-figlia vi è una sacralità intensissima e a essere sacro per l’appunto non è solo la madre, ma il legame stesso.

A questo punto vorrei fare una brevissima e sintetica digressione sulla figura della madre in letteratura.  Essa è presente sin dall’antichità. Ricordiamo nell’Iliade la madre di Achille,  la madre di Eurialo nell’Eneide, Venere con Enea. Per non parlare della figura per eccellenza della madre: la Madonna, la madre di Cristo. Per citare solo alcuni esempi.
Tutte queste “madri” sono figure materne esemplate su un modello universale che le vede vivere in funzione del loro figlio  poste in una dimensione quasi ultra terrena. Diciamo idealizzata. Si deve giungere all’800/900 per trovare un cambiamento. La madre cantata non è più quella di qualche personaggio reale o irreale, ma è proprio la madre dell’autore il quale si rivolge a lei con il tu: quindi la figura della madre diventa più concreta, più vera anche se continua a conservare il tradizionale ruolo materno . Possiamo citare Preghiera alla madre di Umbero Saba, La madre di Giuseppe Ungaretti, A mia madre di Eugenio Montale, Lettera alla madre di Salvatore Quasimodo, Preghiera di Giorgio Caproni, Supplica alla madre di Pier Paolo Pasolini. Da non dimenticare Vincenzo Cardarelli che ha cantato con infinito amore di sua madre e della sua assenza.
Si discosta dai precedenti Elio Pecora con Nel tempo della madre (Ed. La Vita Felice) scritto in memoria della madre Elena e nel quale troviamo una madre non mitizzata, ma raffigurata nella sua umanità di donna-persona.
Però si tratta sempre della visione di autori uomini .
Molto più difficile è trovare autrici che parlano delle loro madri, ma ultimamente, per fortuna la voce delle donne inizia a farsi sentire e possiamo portare molti esempi di donne poetesse che hanno scritto della madre. Per citare alcune contemporanee c’è Vivian Lamarque con “madre d’inverno” (Mondadori 2016); la sottoscritta con “La casa delle fate (La Vita Felice 2017), Marzia Spinelli con “Nelle tue stanze” (Ed. Progetto Cultura 2012); le antologie “La tesa fune rossa dell’amore” e  “Matrinilenare” edite rispettivamente nel 2015 e nel 2018 da La Vita Felice e curate da Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster e Anna Maria Robustelli che raccolgono poesie sul tema madri-figlie nella poesia contemporanea di lingua inglese e in quella italiana dagli anni sessanta ad oggi;
Tutta questa digressione è stata necessaria per far comprendere l’immenso valore di Quinta Vez di Mariapia  Quintavalla che non si è limitata a scrivere della madre e del rapporto madre-figlia, ma come vedremo andando avanti nella lettura del libro e come ho già scritto all’inizio, ha indagato sulla figura “donna” in ogni sua sfaccettatura: madre, figlia, sorella. Credo che fino ad ora questo libro sia unico nel suo genere e se non lo è, vi prego, ditemi a quale libro debbo fare riferimento.
Il rapporto madre figlia di “Pre- Natale” è un rapporto interscambiabile e che si compie pienamente quando anche la figlia diviene madre (pag. 34: “Mai ti voltasti se non nell’attimo in cui baluginasti di me una donna, e divenute madri, mi chiamasti per nome.”).
E’ un rapporto che non risiede negli affanni terreni, che appartiene a una dimensione cosmica, ma al contempo intimissima. Che non risiede nella mente, ma appartiene all’anima. Questa sezione è intrisa di tu e di noi ed è scritta quasi interamente in corsivo ad indicare non solo il dialogo, ma anche il sussurro di una dimensione ultracorporea e ultratemporale.
La seconda e terza sezione del libro s’intitolano Mater e Mater II. Qui si uniscono la prima persona, la seconda e la terza. Si cambia la prospettiva, non è più la figlia a colloquiare con la madre, ma la figlia divenuta madre colloquia con la figlia. E’ un concetto bivalente che s’interseca e coesiste. Mariapia qui è figlia che scrive di se stessa come figlia ed è madre che scrive della figlia. Il registro cambia radicalmente e così anche il verso che non è più prosastico ma più breve, interrotto, singhiozzante. Non c’è più il corsivo perché anche la dimensione è cambiata: siamo nella vita, abbiamo abbandonato la dimensione dell’oltre, ma non c’è un tempo definito. E’ un presente eterno. Un presente che sancisce una condizione filiale che c’è, c’è sempre stata e ci sarà sempre.
Il poemetto Mater si apre con un testo che definisce chiaramente il dualismo già da titolo: “Due sono una” dove si evidenzia la dimensione corporea, la figura filiale delineata da un essere che è a se stante, staccato, perché si rimane nella sola condizione di figlia fino a che non si diventa madre e la descrizione è luminosa:

… i suoi occhi luccicano con una margherita
appesa al lobo ma di luce propria
senza infingimenti e lei là, un gran andare
per una corsa sua segreta,
tra fili d’erba e treni, caramente
d’oro il suo sorriso.

E’ la madre che dipinge il ritratto della figlia con un amore dolcissimo e mesto.
Si tratteggia anche qui però il senso del distacco, è un distacco diverso da quello della madre morta, è il distacco opposto. E’ la madre che deve fare i conti con la disgregazione del cordone ombelicale, con quel desiderio forse insano, ma esistente di conservare la propria figlia nel grembo e invece deve assistere, paradossalmente con dolore e felicità insieme, al suo andare nel mondo, da sola.

Così a pag. 44 leggiamo:

Nel giorno che precede, la vedrai
varcare sola, e sola sarai tu che là
pazienti sulle orme della mani cerchi
il tuo sangue quando volata via
con te, ma dolcemente, piano,
in una sua salita

ne disegna l’arco intero di una vita
piccola più della tua, sognata.“

E ancora leggiamo per intero il testo di pag. 48:

Tu ti distacchi e sposti, la guardi scivoli
via, piano per non ferirla
ti mostri neutra amica, taci,
ma lo diresti quanto sangue-voce
ci è voluto per tagliare
quel cuore intero in una luce sua,
che ti divora. Scompare
se c’è un emblema vostro, lei lo saprà
capire, lei non ha paura.
Tu, una chiave di notte
nel suono delle sue parole ti ha acceso
il video della mente e poi,
non turba più:
per quella mano speculum sul cuore
ti senti piccola, e sperduta;
la sua nascita va verso la tua morte.

Ma lei serena guarda e stacca, non capisce.

Nell’ultimo, strepitoso testo del poemetto Mater è tracciato per intero il percorso: c’è la figlia che guarda se stessa nel suo rapporto e addio con la propria madre e poi si guarda essere madre rivolta alla figlia:

Uscendo piano dalle porte, credevi non udire
quel pianto secco che ti prese nel salutare,
quando tua madre nell’abbandonarti
ancora, una seconda volta se ne usciva
zitta e solenne, verso il suo bell’ade,
fasciata in oro – andare nella vita.

Ma Lei Sarah, nata dal riso
domina nella silhouette radiosa,
circonfusa.

Mater II è una scrittura dolorosa. Non c’è più la luminosità di Mater. Il punto di vista cambia ancora. Qui viene messo in evidenza il fare della figlia più giovane, quella che ancora non è madre e il soffrire della madre che si sente incompresa, ripudiata, perfino odiata.
E’ una sezione forte che rappresenta un altro modo d’intendere la madre, non più amata, necessaria, ma odiata, rivale.
Leggiamo a pag. 56:

II) C’è pena sotto la volta di Milano

Di notte,
la notte aperta fra lenzuola io parlo
a voce alta comprimo,
anzi comprendo sentendomi negare
per ogni via il calvario
di madre crocifissa,
io cerco non vedere l’icona, oppure
vorrei farla vedere e fatta, ma conchiusa
lei va lontano blatera, sposta
ogni suo gesto dove non esisto.
Così entra la mia persona così
troverà spazio e semenza
per il suo fututo
che oscuro se lo punge e bruca,

come il suo dolore.

Con la quarta sezione che s’intitola “Quinta Vez o del ritrovamento” entriamo in una dimensione onirica. Il tempo non è più quello contemporaneo ma è il tempo dell’immaginazione. La poetessa torna alla madre, ovvero a China, ma in un modo molto particolare: scrivendone un’allegoria che la riporta in vita giovinetta in terra di Castiglia come ci dice Mariapia stessa all’inizio della sezione. E’ una breve biografia che continua quella precedente presente nel libro China del 2010, ne è una metamorfosi.
Particolarissimo è lo stile e come scrive Stafano Vitali in sua attenta recensione di Quinta Vez, con un tono che richiama i canti popolari trecenteschi e una struttura poetica che fa pensare alle Chansons dei Trovatori. Maria Pia usa un stile arcaico e immaginifico, unisce lo spagnolo, probabilmente proprio come dedica alla madre Castigliana, ma anche parole inventate, sognate. E una sezione magica e mitica: qui fa rivivere la madre come essere libero, felice, privo di costrizioni. Qui China è fanciulla, giovinetta e non è ancora madre e nel corso di tutta la sezione non lo sarà mai. Ciò mi ha fatto pensare che forse la libertà e la felicità di una donna, secondo Mariapia  risiede nel suo essere donna e basta, senza la costrizione del ruolo di madre o figlia. Una sorta di liberazione da una condizione, sì naturale, ma anche imposta dalla società. Una condizione sia pur bellissima, ma comunque vincolante e costringente nell’animo e nel sentire.

A pag. 70 leggiamo, in chiusura del testo:

Belle le gambe e belli gli occhi scuri,
forti le braccia nel danzare danze di vita,
e danze della morta i n t e r a.

E ancora il testo di pag. 72 dal titolo China era prodigio di canzone

Quando di China si vedette il volto
salire in aura, in benvoluta gloria
China già più non era là seduta, ma distante
volgersi e dire in addio serena
le ultime care frasi della notte:
quelle che di cantari, gesta e sacripanti
donzelle e mostri, essa mostrava
sé capace a recitare –

modeste cupole, già case per la mente,
di una speranza che la villa, e mente di Castiglia
più non udiva.

e quello a pag. 73 in chiusura della sezione

Morì, Tradì scoppiò, dissolse sé, disparve

non fu mai dato di sapere, ma servì a capire
che China era prodigio di canzone
meravigliosa creatura in luogo chiaro,
corso di virtù serena – gioia nel corpo cibo
della mente – angelo al tocco dei bambini
salvi nel fiume corso della sua esistenza,
frumento pane di virtù mai sorte

sentimento del mondo, sua dizione.

L’ultima sezione del libro “ Le sorelle”  continua a sorprenderci.  Si tratta infatti di un testo in prosa teatrale. E’ un dialogo tra due sorelle che s’incontrano in un luogo molto ben descritto all’inizio. E’ un dialogo incentrato sul loro rapporto, sulla loro incomprensione. Ognuna di loro è ferma e chiusa nel proprio ruolo. Ci sono i ricordi, le rimembranze che le riportano ad affrontare vecchi dissapori di bambine. Non c’è soluzione.
In ultimo, mi sento di dover ringraziare profondamente Mariapia Quintavalla per la luminosità della sua scrittura e per questo libro che rappresenta un dono prezioso per tutti noi. 

Cinzia Marulli

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