Quinta
Vez è un libro di Mariapia Quintavalla pubblicato nel 2018 da Stampa2009 con
prefazione di Maurizio Cucchi.
E’
un libro complesso, stratificato, spiazzante, fuori dai canoni e forse proprio
per questo esso stesso canone. E’ un libro che si presenta articolato sia sul
piano temporale, sia stilistico, sia contenutistico.
Questo
libro è un viaggio reale, onirico, spirituale, mentale. Tutto coesiste. E’ un
libro libero, dove le varie dimensioni non solo convivono ma si
completano. E’ evocativo e intimista,
surreale e filosofico. E’ un libro umanissimo che traccia un percorso
attraverso piani alternati e coesistenti.
La
Quintavalla percorre la figura “donna” in ogni sua sfaccettatura indagando
sullo status di madre, figlia, sorella. Figure che nella sua scrittura sono
come la trinità: tre e una allo stesso tempo. La madre che è anche figlia che è
anche sorella. Estasiante è il modo in
cui rappresenta non solo le figure in se stesse ma il rapporto esistente tra di
loro penetrando nel sentire intimo dell’anima.
Il
libro è strutturato, ben definito, tanto da accompagnare il lettore attraverso
il viaggio senza il rischio di uscire dai percorsi delineati, ma lasciando la
libertà del sentire.
Sono
cinque le sezioni in cui è composto il libro e ognuna di loro ha
caratteristiche stilistiche e semantiche differenti: sono i cinque percorsi dai
quali è composto il viaggio; sono cinque piani spazio-temporali.
La
prima sezione s’intitola “Pre-natale” si presenta stilisticamente come una
prosa poetica e come dice l’autrice stessa in una nota a fine libro tratta di
China, cioè della madre dopo morta.
E’
un dialogo tra la figlia viva e la madre morta. Ma l’autrice, quasi a indicare
la sacralità del termine “madre”, lo usa, proprio per accompagnare il lettore nel
viaggio senza devianze, solo due volte, nel primo testo della sezione: “Stamane mi sono svegliata già stanca e un
po’ agitata come da un sonno duro e senza pace, e avrei voluto parlare con te,
madre: “ e nel testo di pag. 29; “Era
mia madre quella beatitudine di piccolo rosa e giallo che forava il bianco
dell’aria, …”.
Ed
è proprio con il primo testo, a incipit, che Maria Pia ci prende per mano e ci
porta con lei in questo viaggio di vita, ma soprattutto in questo viaggio
dell’anima. Qui, in questi versi si svela l’intento del dialogo desiderato e
perso. E prosegue scrivendo: “… mi sento
così strana senza il nostro telefono senza fili, quei fili che ho cercato
amorosi nel buio, per un po’, senza trovarli.”; esprimendo dunque lo
smarrimento e il dolore per il distacco, per la perdita. Ha necessità di
sentire la sua “voce” come legame etereo, immateriale ma indissolubile. C’è
l’urgenza di afferrare i ricordi che chiama “tesori”. “La voce” torna come un assillo, una necessità ed ecco i
versi: “Eravamo sole, e quest’immagine mi
ha dato la carica nervosa, senza le parole ancora, che per giorni mi avrebbe
lasciata in tormento.”
Il
rapporto madre-figlia, dovendo fare i conti con l’assenza, il distacco e
diciamo pure questa parola che ci fa tanta paura, con la Morte, si eleva a una
dimensione ultra corporea ma nello stesso tempo tangibile attraverso il sentire
interiore. Quasi una sorta di schizofrenia immaginifica a tutela di un vuoto
insopportabile. E questo legame che non è più materiale, corporeo, diventa
paradossalmente più forte, più intenso.
C’è
una parola che torna ricorrente in questa prima sezione ed è la parola “aria.
L’aria è presente ovunque. L’aria è la madre stessa, è l’assenza e la presenza
allo stesso tempo. La materia non c’è
più, si è dissolta, è divenuta aria. I
due mondi del qui e dell’altrove coesistono e si parlano.
Troviamo
la madre-aria in molti versi come: i seguenti:
“Così ho sentito che ti spostavi liberamente
e che potevo farti dei cenni, circondarmi della tua aria…” (pag. 15)
“E dove era caduta la rondine più alta, per
forare spostandolo, il muro a me incompiuto, nel tremore di una singola canzone
ci muoveva, l’aria forse ti cercava.” (pag. 17)
La tua sottigliezza esile e nota, il
tuo dimagrimento continuo fino a farti tornare a essere aria, aria che respira
e fa riposare…” (pag 18)
“Tu, quei rami spessi, qua nei colori
compensati dal sentire, erano per tocchi e suoni, dal silenzio ribaciati! Dolce
l’aria che li conteneva … “ (pag. 20)
“Forai con le mani quel vuoto spesso
più dell’aria, presi coraggio dall’essere già deste e feci un gesto, eccomi non
temere, andiamo più dentro o più lontano, abbandoniamo l’impenetrabile e
l’immobilità – mute. “ (pag. 24)
“Ci abituavamo allo spostamento
dell’aria, e con il respiro spingendocene fuori all’aperto, di nuovo lo
scartammo.” (pag. 27)
“Un
purgatorio era il luogo cui facevo
somigliare questa nostra aria piena di bianco, in una quasi pioggia
trasmutata.” (pag. 28)
“Era mia madre quella beatitudine di piccolo
rosa e giallo che forava il bianco dell’aria, …” (pag. 29)
“Né la voce unita all’estremo eterno, né le
mani, quelle piccole e segrete, mi avrebbero più fatto cenno. Né le reti di
memoria, le sue immagini ultime che si libravano dell’aria perché chiare e
struggenti, troppo immacolate.” (pag.32)
“Tu guardavi senza avere l’aria di vedere
nulla, giacevi ti libravi eri pura musica di spazio, nulal più poteva toccarci
come prima, sparimmo alla loro vista, mute.” (pag. 38)
Dapprima
la voce, poi l’aria. Il corpo non esiste più, ma le vibrazioni perdurano.
Un
altro elemento che mi ha avvolto in questa sezione è l’elemento natura o meglio
il rapporto diretto tra “natura” e madre”; una sorta di osmosi, di
trasformazione. Forse, inconsapevolmente, l’autrice, che sente il bisogno di
mantenere il contatto, richiama il concetto tutto orientale del buddismo che ci
porta a ridiventare tutt’uno con il tutto dopo la nostra ultima morte, quando,
terminato il ciclo di rinascite, si giunge al nirvana, all’illuminazione.
Ritroviamo questo elemento, per citare alcuni esempi, nei testi di pag. 18 “Quel bianco, breve sconfinato verso il cielo
eri tu a carpirlo, ma i rami-mani e il calore vano, quel tocco della
schiena tornata a vivere all’altezza del tronco, là tu per noi, più viva dei
viventi ti faceva.”; di pag. 20 “Tu, quei
rami spessi, qua nei colori compensati dal sentire…”;
Il
ritratto di Mariapia è quello di una madre-luce. In tutta questa sezione che è
incentrata sul legame madre-figlia vi è una sacralità intensissima e a essere
sacro per l’appunto non è solo la madre, ma il legame stesso.
A
questo punto vorrei fare una brevissima e sintetica digressione sulla figura
della madre in letteratura. Essa è
presente sin dall’antichità. Ricordiamo nell’Iliade la madre di Achille, la madre di Eurialo nell’Eneide, Venere con
Enea. Per non parlare della figura per eccellenza della madre: la Madonna, la
madre di Cristo. Per citare solo alcuni esempi.
Tutte
queste “madri” sono figure materne esemplate su un modello universale che le vede
vivere in funzione del loro figlio poste
in una dimensione quasi ultra terrena. Diciamo idealizzata. Si deve giungere
all’800/900 per trovare un cambiamento. La madre cantata non è più quella di
qualche personaggio reale o irreale, ma è proprio la madre dell’autore il quale
si rivolge a lei con il tu: quindi la figura della madre diventa più concreta,
più vera anche se continua a conservare il tradizionale ruolo materno .
Possiamo citare Preghiera alla madre
di Umbero Saba, La madre di Giuseppe
Ungaretti, A mia madre di Eugenio
Montale, Lettera alla madre di
Salvatore Quasimodo, Preghiera di
Giorgio Caproni, Supplica alla madre
di Pier Paolo Pasolini. Da non dimenticare Vincenzo Cardarelli che ha cantato
con infinito amore di sua madre e della sua assenza.
Si
discosta dai precedenti Elio Pecora con Nel
tempo della madre (Ed. La Vita Felice) scritto in memoria della madre Elena
e nel quale troviamo una madre non mitizzata, ma raffigurata nella sua umanità
di donna-persona.
Però
si tratta sempre della visione di autori uomini .
Molto
più difficile è trovare autrici che parlano delle loro madri, ma ultimamente,
per fortuna la voce delle donne inizia a farsi sentire e possiamo portare molti
esempi di donne poetesse che hanno scritto della madre. Per citare alcune
contemporanee c’è Vivian Lamarque con “madre d’inverno” (Mondadori 2016); la
sottoscritta con “La casa delle fate (La Vita Felice 2017), Marzia Spinelli con
“Nelle tue stanze” (Ed. Progetto Cultura 2012); le antologie “La tesa fune
rossa dell’amore” e “Matrinilenare”
edite rispettivamente nel 2015 e nel 2018 da La Vita Felice e curate da
Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster e Anna Maria Robustelli
che raccolgono poesie sul tema madri-figlie nella poesia contemporanea di
lingua inglese e in quella italiana dagli anni sessanta ad oggi;
Tutta
questa digressione è stata necessaria per far comprendere l’immenso valore di Quinta
Vez di Mariapia Quintavalla che non si è limitata a scrivere della madre e del
rapporto madre-figlia, ma come vedremo andando avanti nella lettura del libro e
come ho già scritto all’inizio, ha indagato sulla figura “donna” in ogni sua
sfaccettatura: madre, figlia, sorella. Credo che fino ad ora questo libro sia
unico nel suo genere e se non lo è, vi prego, ditemi a quale libro debbo fare
riferimento.
Il
rapporto madre figlia di “Pre- Natale” è un rapporto interscambiabile e che si
compie pienamente quando anche la figlia diviene madre (pag. 34: “Mai ti voltasti se non nell’attimo in cui
baluginasti di me una donna, e divenute madri, mi chiamasti per nome.”).
E’
un rapporto che non risiede negli affanni terreni, che appartiene a una
dimensione cosmica, ma al contempo intimissima. Che non risiede nella mente, ma
appartiene all’anima. Questa sezione è intrisa di tu e di noi ed è scritta
quasi interamente in corsivo ad indicare non solo il dialogo, ma anche il
sussurro di una dimensione ultracorporea e ultratemporale.
La
seconda e terza sezione del libro s’intitolano Mater e Mater II. Qui si
uniscono la prima persona, la seconda e la terza. Si cambia la prospettiva, non
è più la figlia a colloquiare con la madre, ma la figlia divenuta madre
colloquia con la figlia. E’ un concetto bivalente che s’interseca e coesiste.
Mariapia qui è figlia che scrive di se stessa come figlia ed è madre che
scrive della figlia. Il registro cambia radicalmente e così anche il verso che
non è più prosastico ma più breve, interrotto, singhiozzante. Non c’è più il corsivo
perché anche la dimensione è cambiata: siamo nella vita, abbiamo abbandonato la
dimensione dell’oltre, ma non c’è un tempo definito. E’ un presente eterno. Un
presente che sancisce una condizione filiale che c’è, c’è sempre stata e ci
sarà sempre.
Il
poemetto Mater si apre con un testo che definisce chiaramente il dualismo già
da titolo: “Due sono una” dove si evidenzia la dimensione corporea, la figura
filiale delineata da un essere che è a se stante, staccato, perché si rimane
nella sola condizione di figlia fino a che non si diventa madre e la
descrizione è luminosa:
… i
suoi occhi luccicano con una margherita
appesa
al lobo ma di luce propria
senza
infingimenti e lei là, un gran andare
per
una corsa sua segreta,
tra
fili d’erba e treni, caramente
d’oro
il suo sorriso.
E’
la madre che dipinge il ritratto della figlia con un amore dolcissimo e mesto.
Si
tratteggia anche qui però il senso del distacco, è un distacco diverso da
quello della madre morta, è il distacco opposto. E’ la madre che deve fare i
conti con la disgregazione del cordone ombelicale, con quel desiderio forse
insano, ma esistente di conservare la propria figlia nel grembo e invece deve
assistere, paradossalmente con dolore e felicità insieme, al suo andare nel
mondo, da sola.
Così
a pag. 44 leggiamo:
Nel
giorno che precede, la vedrai
varcare
sola, e sola sarai tu che là
pazienti
sulle orme della mani cerchi
il
tuo sangue quando volata via
con
te, ma dolcemente, piano,
in
una sua salita
ne
disegna l’arco intero di una vita
piccola
più della tua, sognata.“
E
ancora leggiamo per intero il testo di pag. 48:
Tu
ti distacchi e sposti, la guardi scivoli
via,
piano per non ferirla
ti
mostri neutra amica, taci,
ma
lo diresti quanto sangue-voce
ci
è voluto per tagliare
quel
cuore intero in una luce sua,
che
ti divora. Scompare
se
c’è un emblema vostro, lei lo saprà
capire,
lei non ha paura.
Tu,
una chiave di notte
nel
suono delle sue parole ti ha acceso
il
video della mente e poi,
non
turba più:
per
quella mano speculum sul cuore
ti
senti piccola, e sperduta;
la
sua nascita va verso la tua morte.
Ma
lei serena guarda e stacca, non capisce.
Nell’ultimo,
strepitoso testo del poemetto Mater è tracciato per intero il percorso: c’è la
figlia che guarda se stessa nel suo rapporto e addio con la propria madre e poi
si guarda essere madre rivolta alla figlia:
Uscendo
piano dalle porte, credevi non udire
quel
pianto secco che ti prese nel salutare,
quando
tua madre nell’abbandonarti
ancora,
una seconda volta se ne usciva
zitta
e solenne, verso il suo bell’ade,
fasciata
in oro – andare nella vita.
Ma
Lei Sarah, nata dal riso
domina
nella silhouette radiosa,
circonfusa.
Mater
II è una scrittura dolorosa. Non c’è più la luminosità di Mater. Il punto di
vista cambia ancora. Qui viene messo in evidenza il fare della figlia più
giovane, quella che ancora non è madre e il soffrire della madre che si sente
incompresa, ripudiata, perfino odiata.
E’
una sezione forte che rappresenta un altro modo d’intendere la madre, non più
amata, necessaria, ma odiata, rivale.
Leggiamo
a pag. 56:
II)
C’è pena sotto la volta di Milano
Di
notte,
la
notte aperta fra lenzuola io parlo
a
voce alta comprimo,
anzi
comprendo sentendomi negare
per
ogni via il calvario
di
madre crocifissa,
io
cerco non vedere l’icona, oppure
vorrei
farla vedere e fatta, ma conchiusa
lei
va lontano blatera, sposta
ogni
suo gesto dove non esisto.
Così
entra la mia persona così
troverà
spazio e semenza
per
il suo fututo
che
oscuro se lo punge e bruca,
come
il suo dolore.
Con
la quarta sezione che s’intitola “Quinta Vez o del ritrovamento” entriamo in
una dimensione onirica. Il tempo non è più quello contemporaneo ma è il tempo
dell’immaginazione. La poetessa torna alla madre, ovvero a China, ma in un modo
molto particolare: scrivendone un’allegoria che la riporta in vita giovinetta
in terra di Castiglia come ci dice Mariapia stessa all’inizio della sezione.
E’ una breve biografia che continua quella precedente presente nel libro China
del 2010, ne è una metamorfosi.
Particolarissimo
è lo stile e come scrive Stafano Vitali in sua attenta recensione di Quinta
Vez, con un tono che richiama i canti popolari trecenteschi e una struttura
poetica che fa pensare alle Chansons dei Trovatori. Maria Pia usa un stile
arcaico e immaginifico, unisce lo spagnolo, probabilmente proprio come dedica
alla madre Castigliana, ma anche parole inventate, sognate. E una sezione
magica e mitica: qui fa rivivere la madre come essere libero, felice, privo di
costrizioni. Qui China è fanciulla, giovinetta e non è ancora madre e nel corso
di tutta la sezione non lo sarà mai. Ciò mi ha fatto pensare che forse la
libertà e la felicità di una donna, secondo Mariapia risiede nel suo essere
donna e basta, senza la costrizione del ruolo di madre o figlia. Una sorta di
liberazione da una condizione, sì naturale, ma anche imposta dalla società. Una
condizione sia pur bellissima, ma comunque vincolante e costringente nell’animo
e nel sentire.
A
pag. 70 leggiamo, in chiusura del testo:
Belle
le gambe e belli gli occhi scuri,
forti
le braccia nel danzare danze di vita,
e
danze della morta i n t e r a.
E
ancora il testo di pag. 72 dal titolo China era prodigio di canzone
Quando
di China si vedette il volto
salire
in aura, in benvoluta gloria
China
già più non era là seduta, ma distante
volgersi
e dire in addio serena
le
ultime care frasi della notte:
quelle
che di cantari, gesta e sacripanti
donzelle
e mostri, essa mostrava
sé
capace a recitare –
modeste
cupole, già case per la mente,
di
una speranza che la villa, e mente di Castiglia
più
non udiva.
e
quello a pag. 73 in chiusura della sezione
Morì,
Tradì scoppiò, dissolse sé, disparve
non
fu mai dato di sapere, ma servì a capire
che
China era prodigio di canzone
meravigliosa
creatura in luogo chiaro,
corso
di virtù serena – gioia nel corpo cibo
della
mente – angelo al tocco dei bambini
salvi
nel fiume corso della sua esistenza,
frumento
pane di virtù mai sorte
sentimento
del mondo, sua dizione.
L’ultima
sezione del libro “ Le sorelle” continua
a sorprenderci. Si tratta infatti di un
testo in prosa teatrale. E’ un dialogo tra due sorelle che s’incontrano in un
luogo molto ben descritto all’inizio. E’ un dialogo incentrato sul loro
rapporto, sulla loro incomprensione. Ognuna di loro è ferma e chiusa nel
proprio ruolo. Ci sono i ricordi, le rimembranze che le riportano ad affrontare
vecchi dissapori di bambine. Non c’è soluzione.
In
ultimo, mi sento di dover ringraziare profondamente Mariapia Quintavalla per
la luminosità della sua scrittura e per questo libro che rappresenta un dono
prezioso per tutti noi.
Cinzia Marulli
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