mercoledì 31 marzo 2021

Marvi del Pozzo su "Transiti poetici" Volume XXIII a cura di Giuseppe Vetromile

grafic designer Ksenja Laginja
L’instancabile, meritoria attività culturale di Pino Vetromile prosegue anche nei tempi difficili della pandemia anzi, proprio per esorcizzare la situazione claustrofobica che limita esperienze e relazioni umane in modo frustrante, egli insiste ad additarci nella creatività della poesia una medicina ai momenti bui e una possibile guida verso atteggiamenti positivi di vita. Dare voce a progetti, speranze (ma anche a sogni e a illusioni, che magari non porteranno a niente di concreto) è un modo in sé costruttivo e ha un’indubbia valenza di aggregazione artistica e soprattutto umana anche a distanza. Questo, credo, lo scopo precipuo per cui Vetromile persiste a ‘pubblicare’ on line l’Antologia di poesia contemporanea Transiti poetici, che arriva oggi al volume XXIII. Nel presente momento di terza ondata di pandemia, i dieci autori del volume, provenienti dalle più disparate regioni italiane, si sentono mentalmente quasi amici per comunanza di intenti, cioè l’identico amore per la poesia. È un indubbio avvicinamento, pur nella disparità delle forme del dire, ma soprattutto ciascuno di noi poeti ipotizza la bellezza della possibile condivisione con lettori, di certo sconosciuti, con cui intratterremo relazioni tramite le nostre parole poetiche. Non li conosceremo mai personalmente, ma forse qualche nostro verso sarà servito a fare pensare, a dare una speranza, a colmare un vuoto dell’anima, a rispondere a interrogativi. È questo l’ottimismo della vita e dell’arte che irrompono quando meno uno se lo può aspettare.

Grazie dunque a Pino per esserci e coltivare questa funzione concreta e benefica dell’arte della parola poetica.

 

Nei dieci autori del volume XXIII ciascun lettore troverà la voce a lui più congeniale, a seconda del gusto personale e della propria ‘idea’ di poesia. Personalmente

 

di Sara Albarello amo il senso pieno della sua frammentarietà eloquente: una incisività del dire che lascia spazio all’interiorità di chi si avvicina alla sua poesia.

 

Separazione

Che trova il vuoto interiore.

Margini interrotti

In un interiore sconfinato

Dove la completezza dell’io

È solo sognata.

 

Di Ada Crippa amo la discorsività descrittiva, che mi ha evocato immagini stupende della campagna lombarda e mi ha riportato alla mente la religiosità arcaica contadina di certe scene indimenticabili del film L’albero degli zoccoli di Olmi. Due forme artistiche, la cinematografia e la poesia, che possono compenetrarsi bene e potenziarsi reciprocamente.

 

Oh! quanto mi piacciono

i villaggi contadini

dove le oche passano davanti agli usci delle case

col loro passo dondolante bianco di piume

riflesso nelle pozzanghere dopo la pioggia

 

villaggi che ancora durano nella loro spoglia essenza

in terre lontane filmate

che vedo scorrere col fiato dello stupore

sullo schermo televisivo

 

richiamano le immagini

il mio tempo bambino e mi dicono

la distanza temporale delle realtà immutate

 

bambini ora – come me che fui

a radunare oche a sera

 

Ferito il silenzio

 

Di Annamaria Giannini mi ha colpito l’assoluta originalità dei testi, che tuttavia mi hanno creato momenti di disagio, va detto, per le scelte dell’autrice molto vicine a quelle di un… anatomopatologo! Ci vuole una bella capacità per poeticizzare una materia scientifica come l’anatomia, così fredda, quanto mai distante dalla creatività poetica. Lei riesce, tanto di cappello, a portarci dalla ‘lezione di anatomia’ alla riflessione poetica con grande disinvoltura.

 

Sono duecentosettanta

le ossa di un bambino

soltanto duecentosei

quelle di un uomo

 

crescendo

si saldano segmenti di scheletro

la cartilagine tenera

diventa duro tessuto osseo

 

saremo più resistenti

verrebbe da pensare

invece ci frammentiamo facile

si spezza il cuore, cedono le gambe

la mente vacilla, è tutto

un raccogliere pezzi intorno, la vita

 

Di Alfonso Graziano sottolineo

 

Stasera anche il cielo borbotta.

Tutti borbottano.

I cani abbaiano.

Il vento sbatacchia.

I vetri stridono.

E si rabbuia la strada.

Dei passi svelti

i lacci sciolti e il rischio d’inciampare,

nel nulla.

 

I primi sei versi, scabri: soggetto e verbo, nella frammentarietà del periodare, sanciscono l’idea di un equilibrio precario della vita, anzi diciamo pure squilibrio, che si chiarisce nel più mosso periodo finale, con la conclusione amara di un pessimistico nulla.

Se Graziano colpisce per la sua sintesi lapidaria, viceversa

 

Iole Chessa Olivares ha un dire ampio e solenne, ama scrivere diffusamentte più che suggerire e lasciare spazio alla creatività interpretativa del lettore. Nell’impossibilità, per via dello spazio, di riportare un intero lungo testo, inserisco di Solo il canto i primi undici versi perché, a parer mio, costituirebbero di per sé un componimento sintetico pienamente compiuto. Quindi un perfetto esempio di poesia.

 

Solo il canto

Nell'odissea dell'epilogo

si vorrebbe far finta di niente,

svezzarsi alla vita,

avere

con suprema adesione

una sola immagine,

senza maschere.

 

Si vorrebbe...

ma, tra le fessure intime,

cova il patire amaro

d'essere scintilla solo per svanire

[…]

 

Di Stefania Onidi voglio ricordare la bella poesia Cabirol

 

Cabirol

Come quando guardavo il mare

in cima alla scala di Cabirol

con la tua voce aggrappata alla mia spalla.

Attenta, non scivolare, dicevi.

Tu che appartenevi al sasso

e all’erosione.

Io che correvo il rischio di una canzone sciocca.

Il vento mi cacciava in bocca i capelli e il sale e tutto quell’azzurro bruciava in gola

come una biglia di spilli.

Qui

è ancora tutto troppo grande.

 

La scala del Cabirol, vicina ad Alghero – a Nord Ovest della Sardegna, presso Capo Caccia – è composta da seicentocinquantasei gradini che scendono fino al mare alle Grotte di Nettuno, in un tripudio di azzurro marino e di verde di macchia mediterranea. La poetessa di origine sarda ci offre un testo di grande immediatezza e di incredibile, evocativa, suggestione. Noi siamo lì, insieme ai protagonisti della poesia: sentiamo con i sensi il profumo del mirto e del lentischio, la salsedine dell’onda marina, ma ci appropriamo con la nostra interiorità di tutta la potenza, anche metaforica, di quell’immagine di grandiosa forza naturale e ne restiamo kantianamente annientati.

 

Regina Resta con il suo Autunno ci introduce invece a un lirismo quasi classico, nei toni elegiaci del trascorrere dei tempi delle cose. Il tono di pacata malinconia, che pure non esclude sofferenze, ci porta a un senso positivo di consapevolezza e di raggiunto equilibrio. Questo tono accorato ci permette quindi di credere e sperare in un’ultima stagione d’amore.

 

Autunno

Non è l’autunno a farmi paura

grossi nuvoloni bianchi nel cielo

attraversano il tempo

con scrosci di pioggia prima deboli

e poi come una tempesta a lavare le menti.

 

È il mio autunno che avanza,

il freddo non è sbocciato

ma nell’aria si sente il profumo di muschio e muffa

dei ricordi sempre più sfocati.

 

La pelle si ricopre di uno strato leggero di foglie

macchie sfumate che ti portano

alla realtà di un’età che avanza.

 

C’è il sapore di una stagione meravigliosa

quella della consapevolezza e degli ultimi cambiamenti

del giusto equilibrio dopo anni di cammino.

 

È tempo di riposo dalle lotte ma pronti per

l’ultima stagione d’amore.

 

Le poetesse lasciate per ultime, Terry Olivi e Angela Suppo, sono mie care amiche personali: conosco bene quindi le peculiarità caratteriali e quelle della loro scrittura. Le apprezzo tanto come amiche sincere e come poetesse, ma accennerò appena di loro, onde evitare di essere tacciata di favoritismo. Del resto le loro poesie parlano da sole, ogni cornice è superflua.

 

Di Terry Olivi, esperta conoscitrice e cultrice dell’arte orientale, presento quattro haiku di straordinaria leggerezza. La delicatezza della persona di Terry si trasferisce pari pari in poesia.

 

HAIKU

 

Gabbiano solo

 alto sulla colonna,

nostromo d’aria

Roma, Santa Maria Maggiore, 2007

*

Cinque cicogne

sul palo della luce -

una famiglia

Ungheria, 1998

*

Vento e fuoco

pizzica la taranta -

sola in cucina

Roma, 2013

*

Ormai è un anno

anche nella magnolia

un cerchio in più

Velletri, 2006

 

Di Angela Suppo, poetessa dotata di ironia, di grande capacità di sintesi, creatrice di testi la cui suggestione si potenzia con l’abilità con cui dipana musicalità e ritmo del verso, segnalo una delle poesie che di lei prediligo da sempre.

 

Non interessa a Dio

il processo di qualità.

 

Lui, già sazio del mondo,

che vide buono,

annoiato dall’inutile diluvio,

si è arreso nel Figlio.

 

Ora tace.

 

E noi?

 

A noi ha lasciato

lo strazio del desiderio,

la nostalgia,

il cuore sospeso al Suo silenzio.

 

Di Marvi del Pozzo, che sono io, non dico nulla se non che amo, talora in poesia, far parlare tramite me, come fossi una medium, poeti del passato. In particolare qui il protagonista è Jaufré Rudel, poeta provenzale medioevale, recentemente ritradotto dalla lingua d’oc da Piero Marelli.

 

Un dire di spine e rose

Jaufré Rudel

a P.M.

Profumano gli sguardi

dell’amore di lontano

non si sfrangiano in polvere

ricordi mai vissuti

né pallide bellezze

appena immaginate.

Amore di pensiero

senza carne

senza sesso.

Perfezione nella teatralità

di un’idea.

Ma perché allora

questo vuoto sgomento

questo mio dire

di spine?

 

Di Giuseppe Vetromile, nostro anfitrione,  non parlo in questa sede: tutti lo conosciamo non solo come infaticabile operatore culturale, ma come raffinato, sensibile, appassionato poeta. A lui, come Mecenate e come poeta, sempre il nostro grazie di esistere.


 


 

 

 

venerdì 26 marzo 2021

Ksenja Laginja: tre poesie da "Ventitré modi per sopravvivere" (Kipple Officina Libraria 2021)

 

foto di Gian Piero Corbellini

Nota di Ksenja Laginja

 

Ognuno, presto o tardi, è chiamato a serrare il cerchio, ma il ciclo non finisce mai. Si ripete nello spazio e nel tempo, mutando i nomi, le prospettive e gli attori. Quando la pietra sfiora la superficie del- l'acqua, inizia così la sua discesa. Prima dell'ultimo balzo ha fatto in tempo a generare altri cerchi e tocca a noi prendercene cura. Loro sono ovunque, intorno e dentro, ed è impossibile eluderli.

I

 

Contiamo insieme tutte

le lettere, ventitré volte siamo

stati qui come il tuo amore

in congedo dalla vita,

ci toccherà per ultimo

nominare i successori

al principio del cosmo.

 

 

 

* L'alfabeto latino classico è composto da 23 lettere.


 

 

VI

 

Anche il cervo

conosce il suo destino

oltre la persistenza dell'ombra

che reclama un nome alla terra,

ma solo a chi prosegue

la caccia spetta la conta.

 

 

 

* Il 23 è un numero dispari.

 

 

 

XII

 

Ti insegnano ad amare

fino al giorno in cui tutto

verrà spazzato via e non potrai

disporti alla tassonomia

della casa, resterà la calce

a suturare i buchi nel petto,

ci toccherà separarci

cedere il peso agli altri.

 

 

* Il 23 nella teoria dei grafi è un numero di Wedderburn-Etherington, un numero di distinti alberi binari. In tassonomia cladistica rappresentano il numero di possibili alberi evolutivi per un dato numero di specie, inclusi i punti di speciazione.

 

 


 

Ksenja Laginja è nata a Genova, vive e lavora tra la sua città e Roma dove alterna alla sua attività letteraria e pubblicitaria una ricerca sull’illustrazione legata al mondo del Fantastico. Ha esordito con Smokers Die Younger (Annexia edizioni, 2005), a cui ha fatto seguito Praticare la notte (Ladolfi Editore, 2015). Nel 2020 ha vinto i premi “Europa in Versi” e “Arcipelago Itaca”, nella sezione inediti. Suoi testi sono presenti su antologie poetiche, blog e riviste letterarie. Co-organizza la rassegna di poesia e musica elettronica Poème Électronique.

mercoledì 24 marzo 2021

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Filo spinato di Alessandro Fo (Einaudi 2021)

Quando, in seguito alla predilezione per la poesia di Alessandro Fo e per la simpatia umana che provo per la sua persona, ho deciso di occuparmi del suo ultimo volume di versi, Filo spinato, appena uscito per la mitica ‘Bianca’ dell’Einaudi, non potevo supporre in quale ginepraio potesse cacciarsi un relatore che intendesse offrire del libro uno sguardo di completezza e neppure immaginavo il senso frustrante di inadeguatezza che mi sarebbe crollato sul groppone. Faccio mie, per dare un’idea, le parole che un giorno il pittore Juan Gris ebbe a dire sul libro che Vincente Huidobro gli aveva dedicato, Poesie artiche: “è troppo bello per me, non riesco a penetrarlo”.

Non è che non si riesca a penetrare la poesia di Fo, che anzi è di struttura accessibile ad ogni persona dotata di un minimo di sensibilità e di gusto estetico, ma è la complessità dell’insieme che disorienta, la pregnanza e la varietà delle problematiche umane, trattate tutte come protagoniste indiscusse del libro, mai comprimarie, ma ugualmente meritevoli di attenzione particolareggiata. Ogni sezione del libro richiederebbe pagine e pagine di osservazioni puntuali: una minima parte riguarda la natura prettamente stilistico-formale, ma di portata invece più impegnativa è quella relativa alla globalità sostanziale della vita e del pensiero dell’autore: si tratterebbe di aprire discorsi di filosofia, di psicologia sulla natura umana, sull’entità uomo-poeta, sull’autocoscienza, sulle scelte nel vivere e, forse, sull’idea del morire.

La lettura ha suscitato in me una forma di affetto immediato per questo libro, la gratitudine per qualcosa di cui si prova interiormente l’assoluta necessità, perché prima se ne sentiva la mancanza. Come sempre avviene per la migliore poesia, sono situazioni non logicamente spiegabili, ma intuitivamente chiare: Filo spinato è un ‘exemplum’ per me, cioè un modello esemplare di come debba essere una poesia contemporanea e a quale bisogno attuale e autentico del lettore risponda. Non faccio un discorso estetico-formale, che pure ha il suo peso, visto che è la forma a caratterizzare il genere letterario poetico.

Non è questo a colpirmi in modo precipuo, quanto la lucidità che lo stile ha nell’agevolare la trasmissibilità dell’oggetto del dire, il contenuto globale, che è il ricco mondo interiore ed esteriore dell’autore. È incredibile come questo insieme di avvenimenti di testa, di cuore, di stile nel dire si trasferiscano in forte adesione sentimentale in chi legge. Io credo che questa immedesimazione da parte del lettore possa avvenire solo quando gli venga trasmesso – quasi da anima ad anima, nel profondo e nell’immediato – un messaggio autentico, reale, senza calcoli letterari, direi senza difese, senza finzioni. Sembra un discorso un po’ peregrino, ma una come me, che bazzica poesia da tutta la vita e scribacchia pure, un po’ del mestiere quindi, si accorge subito, oltre che della qualità dei versi, della sincerità di asserzioni e sentimenti o, viceversa, dei mezzucci letterari di cui a vari scopi ci si serve troppo spesso ai nostri giorni: l’effetto della poesia nei due casi sul lettore è ben dissimile, lo posso garantire.

L’umanità quotidiana della gente ‘comune’, unita all’incanto della trasfigurazione della normalità tramite la poesia, la semplicità caratteriale dell’autore e la sua sapienza accademica, i tanti riferimenti culturali (che sarebbero talora ardui da scoprire, se l’autore pietosamente non li svelasse al lettore al termine del libro) sembrano talora entità incommensurabili, per usare termini matematici; ma allora per quale arcano questa poesia trova equilibrio, composizione, armonia? Forse è proprio così composita la materia del vivere, la vita stessa, che, come la poesia e le arti in genere, prende il suo respiro dal sanarsi degli opposti: ogni pacificazione avviene per lavorio di sintesi, per composizione di contrasti.

 

Nelle sezioni del libro scorre il fiume della vita quotidiana semplice o, meglio, banalmente eroica come quella di tutti noi. Ci si ritrova appieno in questa scrittura chiara, gentile, discorsiva, ma non di meno aristocratica (parlo ovviamente di aristocrazia dello spirito).

Delle tre sezioni: Ingannare il tempo – Muto carcere – Dei sepolcri again non posso che dare in questa sede solo un assaggio: vi sottoporrò alcuni testi, scelti unicamente in base a suggestioni personali. Sulla sezione  Muto carcere, scritta in seguito ad attività di volontariato da parte dell’autore in istituti di pena, forse scriverò dell’altro più avanti: vorrei coinvolgere una poetessa torinese, operatrice culturale, Cinzia Morone, che opera mirabilmente nelle carceri femminili della città da molti anni. Vorrei che la poesia di Fo si facesse vita reale negli stessi ambienti difficili di altra città (Torino) e da questo potente stimolo poetico, che è Filo spinato, si portasse avanti – comunitariamente, magari – un piccolo aspetto di quell’Oltre di cui parla Rilke, in una condivisione reale di situazioni e di poesia.

 

E ora alcuni testi: pochi, purtroppo, ma spero bastanti ad alimentare negli animi la voglia di bellezza e di emozione che questo tipo di poesia suscita.

Sul tema delle cose della vita, sui pensieri della notte, sulle memorie che uniscono vivi e morti:

 

Doni

 

Nella notte d’estate  appena  tiepida,

ma quanto basta a aprire  la  finestra

sul silenzio di stanze e luci fievoli,

anche se è tardi d’improvviso un’elica

fa la sua rotta verso l’eliporto.

 

Non ha orari il trapianto.

 

E in volo nel ricordo

c’è casa tua sulla linea del «Pègaso»,

cavallo alato che, nei nostri giorni,

serve gli eroi nel trasporto degli organi.

 

Se per caso ne avvertivi l’elica

balzavi su e correvi alla finestra

presa da affanno e improvviso sconforto.

 

E anche se tacevi

sapevo che avvenire avevi in mente,

disposto a testamento.

 

«Io che, da viva, non servivo a niente,

servirò a qualche cosa almeno morta».

 

Nota: come saggiamente ci chiarisce l’autore, “Pegaso” è l’elicottero per missioni di soccorso e trasporto di organi per trapianti urgenti.

 

Un vecchio scatto della Nobil Contrada del Bruco

 

Dopo la cena, ecco Mario e Giovanna

mi fanno un quiz. Mi mostrano una foto

di un tempo: bimbi con uova pasquali.

«Riconosci qualcuno?» E io la scruto

fila per fila… «Mah… Forse… è Mario questo?»

«Mario, tu dici?» «Aspetta… No, è Simone!

Ma sì! È Simone, certo, è lui, lo stesso

disegno d’occhi, naso, sopracciglio,

anche i capelli, il suo solito taglio».

 

Simone fu il loro unico figlio.

Morì ragazzo, a ventidue anni

il 10 agosto del Novantasei.

 

«Esatto!… Però è una foto nel Bruco

scattata per la Pasqua del Sessanta…

Capisci? È un bimbo che avrà nove anni,

e dunque è nato nei primi Cinquanta…»

«… Non è Simone?… Eppure è il suo ritratto…

Chi è?» «Non lo sappiamo.

Stiamo cercando chi l’abbia conosciuto,

un qualsiasi contatto,

fra gli altri della foto.

È così uguale. A trovarlo, vedremmo

come sarebbe

nostro figlio cresciuto».

 

Poesia dell’amore commovente e di un dolore genitoriale che non trova tregua nel tempo. Il coinvolgimento emotivo ci prende con la semplicità del discorso diretto. Parole quotidiane e linguaggio parlato, proprio come sono i discorsi di tutti noi: ci ritroviamo.  Per questo la conclusione di questo dialogo ci devasta moralmente, ma ci eleva anche, facendoci ben sperare sulle sorti dell’Umanità, poiché il dolore può aprirsi esaltandosi nella capacità ulteriore d’amare, non necessariamente ci chiude nello schianto e nel rifiuto di vivere.

Il Bruco è una delle diciassette contrade storiche della città di Siena che corrono il Palio, giostra equestre di origine medioevale, il 2 luglio - Madonna di Provenzano e il 16 agosto - Madonna Assunta di ogni anno.

 

Casa di riposo «Il Balcone»

 

«È questa solitudine» (piangendo)

«… Non la si vince, professore… Non…

Non la si vince…»

 

(Più tardi invece) «E questa solitudine

si vince anche… Che vuole, si prende

quello che viene…

E anche la si vince…

Ma è

            (piangendo)

                                   che non ho notizie…

ormai non so più niente di nessuno…

Cosa sarà di loro?

Ormai i miei genitori sono anziani…

Io ho già compiuto e passato i novanta»…

 

Un’altra novantenne in corridoio

si culla stretto al petto

il bambolotto in cui vede un neonato.

 

Vorrei dire a questo punto che poeta non è solo chi scrive poesie, ma anche chi trasfonde poesia nelle cose della vita, chi vive poeticamente; il che significa in primo luogo dare un’attenzione più vigile a tutto ciò che ci circonda, un interesse, una ricerca nei riguardi di altri, fossero anche sconosciuti o legati a incontri minimi o del tutto fugaci. Il poeta fa anche questo. Leggiamo questi due testi:

 

Quel che inizia nel giorno

 

Disporre a chi lasciare i libri, i quadri:

un giorno o l'altro ci dovrò pensare.

E anche giacche, cravatte, biancheria,

la vita dei bicchieri e delle pentole...

 

È l'alba, e lento mi dirigo al lavoro,

mentre sul cielo semigrigio e lucente

scorre a zigzag la fuga di spioventi.

 

Mi supera, compresa nel suo footing,

una ragazza.

Ha la coda,

le sobbalzano

nel passo svelto e elastico i capelli.

 

Ma a destare stupore

è come, anche all'impatto delle suole,

sia già lontana, senza alcun rumore.

 

*

Angelo fra le righe

 

(uno studio)

Timida, un po' più in là sopra il mio treno,

stava leggendo, con gli occhi riversi

sopra un piccolo libro della 'bianca'.

 

Da un sacchettino di plastica verde

(... Tjutecev magari, o Rutilio, o Larbaud...)

sgranocchiava ogni tanto qualche mandorla.

 

Batteva ai finestrini primavera.

Nella sua camicetta bianca e nera,

assorta protraeva la lettura,

Valentina Lisitsa in seta azzurra

che attraversa uno studio di Chopin.

 

Poi, chissà a che pensiero o a quali versi,

sul volto basso si schiuse un sorriso.

 

Scendendo, prima di doverla perdere,

sbirciavo il libro, passando vicino.

Lei sollevò lo sguardo dallo Splendido

violino verde e, finalmente pieno,

splendido, le virò il viso riverso.

 

Nella prima poesia colpisce la semplicità seria, profonda – ma anche spicciola –  delle azioni e dei pensieri dell’autore, che sfumano poi nell’attenzione meravigliata della leggerezza silenziosa del footing di una giovane sconosciuta, che sembra avere naturalmente il mondo in pugno e volare a venti centimetri dal suolo. È forse salto generazionale, altro modo di iniziare la giornata, di concepire la vita.

Angelo tra le righe è componimento più complesso, pieno di riferimenti culturali, ma tutt’altro che freddi, visto che anzi molto da vicino hanno a che fare con la vita dell’autore. Come anticipavo poc’anzi, Fo si prende cura dei lettori aiutandoli a dipanare eventuali enigmi con debite annotazioni finali. Sottotitolo: (uno studio). Io forse lo definirei un ‘improvviso’, poiché la visione bionda su un treno suscita pensieri diversi, liberi e fugaci come un improvviso musicale. La rivelazione finale, di un legame inconsapevole ma forte con la splendida sconosciuta, avviene tramite il libro di Angelo Maria Ripellino, autore amatissimo da Fo, Splendido violino verde. È un ‘coup de théâtre degno di Alessandro Fo e della sua super importante famiglia di artisti! Ma anche Ripellino asseriva che “occorre teatralizzare la vita” per giocarla (jouer), per modificarla o, almeno, avere l’impressione di poterlo fare, per sdrammatizzarla.

In tutto questo il padre dell’autore, Fulvio, è stato maestro, col supporto amorevole di Alessandro, come si evince da questo meraviglioso, commovente, gioco delle parti. Una teatralizzazione della vita per altruismo, per amore. Un accordo segreto del fingere.

 

Ingannare il tempo

 

a Fulvio,

che ha lasciato il suo corpo

il 17 novembre 2010

Scrivo anche a te da un giardino di ospedale,

qui con mio padre. Ma lui a dire il vero

si è sempre ritenuto un immortale,

con un segreto di sopravvivenza

(«quando non morirò,

poi ve lo svelerò»).

E prende il male come una grande influenza.

Dopo una cura forte, ritornerà a spaziare,

conquistare la vita per quanto è immensa,

amori, viaggi, libri.

Non la pensa

così il chirurgo, che parla di gennaio.

Siamo a settembre. Ha perduto i capelli,

ma regge bene la chemioterapia.

 

Piuttosto c'è un altro guaio: Federico,

il bimbo avuto già quasi a ottant'anni.

Come ingannarlo?

 

Prende a modello La grande illusione

e la pelata di von Stroheim:

... scritturato

a interpretare un vecchio generale,

si è dovuto - gli dice - rapare,

da feroce soldato,

e gli hanno imposto una sorta di collare

(esigenze di scena)

che è presto fatto con carta stagnola.

 

La sahariana gli fa da divisa

per le foto utili alla prova,

che voleranno via mail dal bambino.

Gli appunto le medaglie,

cartone e paccottiglia;

è insofferente dei ritardi; mi pungo

con la spilla da balia. Un po' di sangue.

 

Viene bene il servizio da parà

o marine, non si sa.

Fotomontaggio: la testa ingrugnata

passa su un fusto di un gruppo in parata,

mitra e mimetica. L'inganno è perfetto,

da esserne orgogliosi.

 

Anche Federico lo sarà:

«Però eri più carino coi capelli,

anche se erano bianchi» «Ma no,

cosi son più giovanile!»

«Non so...»

Chiedo un 'autografo' sulla stampata:

«Al Tano, che ricordi del papà

i lati meno imperiosi».

 

Siamo «in Alvernia», direbbe il poeta,

ma «occorre teatralizzare la vita».

E in settembre. Il terzo ciclo si avvia.

Andiamo all'ospedale sul raccordo.

Vorrebbe vendere mobili preziosi

e fare un grande viaggio

promesso ai nuovi figli. «A Parigi»

dove fu da ragazzo, «Sì, a Parigi,

ma poi Madrid, dovunque... Questi soldi

li dobbiamo godere, anche se costa parecchio».

«Ma scusa, invece, se li mettiamo noi i soldi

e fate il viaggio mentre ancora stai bene?»

«Ma no, figurati. E poi è per verso maggio,

o nell'estate. E spero che entro un anno

li avrò venduti. E, se no, lascio perdere».

 

Maggio. L'estate. «Nessuno è così vecchio

che non creda di avere ancora un anno»

(De senectute). Si sente sempre verde,

e qualche impreciso gesto da anziano

- l'inerme debolezza

contro le cinture di sicurezza,

o la stizzita impotenza a domare

l'infido cellulare ‑

lo nega, o non lo avverte

(come il resto, del resto).

 

«Comunque vediamo. È ancora settembre.

Ho questa cura, fino a Natale, a gennaio,

praticamente non c'è spazio per altro;

mi troverò poi qualcosa da fare,

un corso, qualche laboratorio teatrale...»

«Per guadagnare?» «No, per lavorare,

per ingannare il tempo».

La campagna

del Tevere. Il ponte.

Brevi scatti

nella contingenza della vita

che non intercettano il tuo tempo,

cose che, scusa, in fondo non ti toccano.

 

Allora dai, metto punto.

Spossata,

la donna accanto a me sulla panchina

s'è addormentata.

 

Voglio concludere con quella parte di poesia che dà il titolo alla raccolta, inserita in copertina al libro, che segna l’origine, grottesca in quanto causata da bizzarria del destino, di questa geniale, anticonformista famiglia che ha nascosto lacrime dietro ad ironia e, sotto la specie di buffonerie, ha insegnato civiltà al nostro paese. “Castigat ridendo mores”, ovvia citazione per il poeta latinista!

 

Filo spinato

 

[…]

Dopo un assalto, rientrava di fretta,

ma al momento del salto, sotto i colpi

restò impigliato in un reticolato.

Bestemmiando contro i numi avversi

disimpegnava in affanno la ghetta,

quando una bomba gli sorvolò la testa,

finì in trincea al suo posto, e uccise tutti.

 

Senza quel filo, a cui noi siamo appesi,

niente Bianca, né Dario, né Fulvio,

né noi nipoti, né il premio Nobèl 

 

(né questa nebbia di ricordi in versi).