sabato 23 settembre 2017

L’intima connessione con il senso dell’essere: Una tempesta di parole (Lietocolle 2011) di Salvatore Contessini.

C’è generosità nella poesia di Salvatore Contessini. Nella sua raccolta “Una tempesta di parole” (LietoColle 2011) l’autore non solo concede sè stesso alla poesia, ma concede la sua poesia ad una forma feconda di amorevole condivisione del verso. Così l’autore si abbandona al bene lasciandosi rapire dalle parole di altri poeti e a essi risponde con una “tempesta di parole”. Ma non ci sono sovrapposizioni di voci in questa sinfonia, bensì un coro che canta all’unisono ove ognuno svela il proprio timbro interiore creando un tutt’uno armonico. Le parole diventano personaggi ognuna per il suo significato più puro, e insieme una all’altra per una composizione ritmica e semantica di forte e profondo impatto emotivo.
Il titolo stesso ci svela il rapporto di forte passione che l’autore ha con la parola. E in quanto poeta si sente completamente avvolto da essa, ammaliato, affascinato e forse anche soggiogato, di sicuro spesso anche tradito quando essa non sopraggiunge ad afferrare nel modo che si vorrebbe il senso del sentire interiore.
Ma voglio azzardare un’ipotesi che, da sino-indologa, nasce in me quasi spontanea leggendo i titoli delle quattro sezioni nelle quali è suddiviso il libro. Esse sembrano richiamare fortemente la filosofia orientale; ricordano infatti il percorso fatto da Siddharta per giungere al nirvana: “cosa si offre alla vista” il titolo della prima sezione, diviene dunque la presa di coscienza del mondo, l’approccio con la realtà, ciò che è intorno e fuori di noi; la seconda poi,  “Percepire lo svanire delle cose”,  rappresenta invece il lungo periodo di eremitaggio di Siddharta quando il suo pensiero iniziava a comprendere l’illusorietà della nostra realtà; Si arriva quindi alla terza sezione “Scivola nel dubbio l’esistenza” traducibile  quindi come la profonda crisi interiore di Siddharta che riconosce come maya tutto ciò che vedono i suoi occhi; Infine la quarta sezione, “Ripensare l’Essere nella sua originarietà”,  è dunque l’apice della filosofia buddista, l’accettazione che tutto è illusione (maya appunto) e che per sconfiggere il male è necessario acquisire tale consapevolezza fino a riunirsi  con il Tutto, con l’Essere Supremo e Originario, giungendo dunque al Nirvana o come viene tradotto da noi occidentali all’Illuminazione.
Forse è molto rischiosa questa mia interpretazione ma ritrovo nelle poesie del Contessini una forte valenza orientaleggiante, per l’appunto buddista con qualche concessione anche al taoismo: il bisogno di sintesi nella ricerca del verso è palese; l’interrogarsi sul senso dell’esistenza; sull’apparenza del mondo; la ricerca del silenzio.

                                                                                       Cinzia Marulli


mercoledì 20 settembre 2017

"Nelle tue stanze " di Marzia Spinelli nella lettura di Monica Martinelli

Il rapporto tra poesia e dolore è intessuto a doppio filo, come quello tra la poesia e la perdita, a cui consegue necessariamente dolore. Se poi la perdita è quella della propria madre - che rappresenta la Perdita, il distacco da quel cordone ombelicale che ci ha donato la vita - il dolore è ancora più grande, ed è un dolore unico, particolare, che ci accomuna tutti:
“A dimenticare la voce/ci vogliono anni, mi dicono./ Parlano come sapessero/ tutto dei morti. Hanno pena sincera di me,/ straniera approdata./ Stesso dolore, stesso cuore pesto..”
“Nelle tue stanze”, seconda opera di Marzia Spinelli dopo la silloge poetica “Fare e disfare” edita da Lietocolle nel 2009, è un libro dedicato alla madre a seguito della sua scomparsa pubblicato dall’editore romano Progetto Cultura nella collana di poesie “Le Gemme” curata da Cinzia Marulli, con una preziosa introduzione di Alberto Toni. In questi versi è possibile specchiarsi e riconoscersi per riflettere non solo sul senso della morte, delle emozioni generate e sull'elaborazione del lutto, ma anche sul concetto dell'inesorabilità del tempo che la poesia riesce a fermare e a rendere perennemente presente e vivido proprio attraverso la memoria: “L’amo della memoria/è una corda pendula, il gancio/su un’attesa da riempire..”.  Il gancio dei ricordi appeso all’anima.
Ecco altri versi ricchi di metafore sulla vita e sull’oltre, sulla frantumazione del tempo e dei ricordi che, come le foglie, si insinuano quasi a non volerci lasciare mentre altri, ancora troppo freschi, troppo leggeri, si alzano in volo e ci abbandonano senza traccia: “Le foglie rosse nella tua stanza,/inutile raccolta, insostenibile il vuoto/affacciato su questo nulla…le più frantumate s’insinuano negli angoli/del parquet divelto,/non avvertono, non lasciano traccia/le più leggere che volano via.”
La sensitività, che è al tempo stesso sensibilità, emotiva dell’autrice è un asse portante nella sua poetica. L’empatia percorre il libro, e se da un lato la scrittura diventa un’operazione catartica per l’autrice, una modalità per lenire la sofferenza e magari anche il senso di colpa che una figlia fragile può provare dopo la scomparsa di un genitore pensando di aver “mancato” in affetto, in premure o comunque in qualcosa, dall’altro rappresenta un soccorso alla vita di chi resta, di chi legge e di chi prova lo “stesso dolore”, un com-patire insieme, generando un mosaico di altre possibili o reali madri e figlie che si sovrappongono all’immagine di sé e di sua madre, come nella poesia ‘Negozio di pietre’: “Tace il pianto/sigillato tra le pietre/dove la figlia padrona fuma e vende quarzi,/dice buongiorno come te/la madre quando arriva”.  Effetti della nostalgia…

Illustri e noti poeti hanno dedicato poesie alla propria madre, tra cui Pasolini nella “Supplica alla madre” (citata in esergo), Alberto Bevilacqua in “Poesie alla madre”, ma quella che più mi sovviene leggendo i testi del libro di Marzia è la “Lettera alla madre” di Quasimodo: “Ah, gentile morte,/non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro/tutta la mia infanzia è passata sullo smalto/del suo quadrante, su quei fiori dipinti:/non toccare le mani, il cuore dei vecchi.”
Così anche la nostra poetessa parla di un orologio: “Se è il giorno o la notte fa lo stesso,/ l’autunno di adesso m’ha fermata/alla tua ultima estate/fisso a quel nulla il tuo orologio/continua a chiedermi che ora è”, e quell’orologio non è solo una misura del tempo e dell’affetto filiale, ma di tutte le cose.
Questo libro non è un diario autobiografico e lamentevole, ma la descrizione della verità della realtà e del dolore. Lo stile è chiaro, pacato ma evocativo, mai eccessivo o forzato, non ci sono sbavature, ogni verso è al giusto posto. Una struttura liricamente ritmica e solida, versi asciutti, limpidi e densi: “Chiuse come urna nella tua stanza/le nostre verità, coltivavano tutte/spighe di grano, ciliegie che divoravi,/tra rami secchi d’ulivo benedetto,/e fiori,/di quelli almeno non ho mancato.”
E un congedo dolcissimo e struggente lascia l’amarezza del ricordo, l’ultimo: “L’ultima stanza é l’ultimo giorno,/il più lungo, poi ti portano via”.

                                                            Monica Martinelli


venerdì 15 settembre 2017

Vi scrivo da un carcere in Grecia (Rizzoli 1974) - A quarant'anni dalla morte di Panagulis di Andrea Mariotti

Del tutto assente sugli organi di stampa più rilevanti in Italia -per quanto mi risulta- il ricordo della morte di Aléxandros Panagulis (primo maggio del 1976). Politico, rivoluzionario e poeta Panagulis resta storicamente figura di primissimo piano nella lotta contro la dittatura dei colonnelli in Grecia (colpo di Stato del 21 aprile 1967); nonché protagonista del celebre romanzo-verità Un uomo di Oriana Fallaci (prima ed.1979), che in tale libro narrò la storia di colui che per pochi e intensi anni fu suo compagno nella vita. Non sarà inutile qui citare il prologo del libro della scrittrice fiorentina “…La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l’orologio senza lancette segna il cammino della memoria”. Ma veniamo al titolo del presente scritto, che è quello testuale della silloge di Aléxandros Panagulis uscita in prima edizione italiana nell’aprile del 1974 per la Rizzoli (silloge pressoché introvabile oggi in libreria): un titolo folgorante, che immediatamente qualifica l’autore come scriptor rerum (e non potrebbe essere altrimenti!). Ora è importante ricordare il nome di chi ebbe a scrivere la prefazione della raccolta in oggetto: Pier Paolo Pasolini, il quale incontrò in Italia Panagulis dopo la liberazione dal carcere; avendo del resto già dedicato ad Aléxandros una bellissima poesia intitolata Panagulis, inclusa in Trasumanar e organizzar (1971), ultima silloge del grande scrittore e regista. Occorre sottolineare l’inevitabilità dell’incontro umano-poetico di Pasolini con Aléxandros Panagulis: al netto delle raccolte postume di un indimenticabile Pier Paolo in veste di saggista e critico letterario (riferendoci a Passione e ideologia, 1994 e Descrizioni di descrizioni, 1996 ; non figurando per l’appunto in esse il nome di Panagulis). Tuttavia esiste una poesia di Pasolini del 1966 dal titolo Poeta delle ceneri (pubblicata su Nuovi Argomenti; Roma, luglio-dicembre 1980); poesia dalla quale conviene estrapolare i seguenti versi: “Perciò io vorrei soltanto vivere/ pur essendo poeta/ …Vorrei esprimermi con gli esempi./ GETTARE IL MIO CORPO NELLA LOTTA”. Ecco. L’ultimo verso, appositamente evidenziato, ci spiega bene le ragioni poetico-umane per le quali Pasolini fu profondamente solidale con Panagulis, scrivendo fra l’altro la suindicata prefazione a Vi scrivo da un carcere in Grecia, il libro di cui ci occuperemo adesso da vicino; non senza avere rammentato che tale silloge, in Italia, venne pubblicata dopo quella del 1972 dal titolo Altri seguiranno: poesie e documenti dal carcere di Boyati (Flaccovio editore in Palermo; con nota introduttiva di Ferruccio Parri e dello stesso Pasolini, Premio Viareggio Internazionale). In Vi scrivo da un carcere in Grecia, da ricondurre per Pasolini cronologicamente al “Secondo Boiati” (1970-3) -ossia alla seconda fase della prigionia di Panagulis fino alla sua liberazione- siamo al cospetto di chi, già “trasformato in poeta attraverso la tortura”, ora ha preso coscienza della funzione autonoma della letteratura in base a un “nuovo discorrere…oltre i confini nominali della giaculatoria”. Ciò non significa secondo Pasolini la scomparsa nella nuova poesia di Panagulis di due poli stilistici essenziali, ovvero la “furia anaforica” e la “clausola gnomica”; solo che adesso la prima può sciogliersi distesamente nella seconda “come uno stretto e magro fiumicello in un largo lago”: citando il prefatore al riguardo una delle più belle  poesie del volume, A mio fratello, tenente Giorgio Panagulis, con riferimento soprattutto ai versi finali di essa. Sia però concesso a chi scrive proporre al lettore, estrapolata da detta poesia, la seguente strofa, laddove lo scriptor rerum  Aléxandros raggiunge un vertice di struggente e asciutta tenerezza: “Eravamo fratelli, fratello/ ma anche amici/ amici e fratelli/ e non insultavamo/ il nostro amore/ adornandolo di parole/ Il grigiore di ogni giorno/ le solite piatte parole/ le parole quotidiane/ gli scarni gesti della vita/ e quelle nostre rabbie/ e il silenzio/ parlavano chiaramente d’amore”. Naturalmente di fronte ai versi di Panagulis non bisogna perdere il filo: nel senso che, sempre per Pasolini, va rammentata la durevole dicotomia in essi attiva e per la quale Panagulis è e resterà inconfondibilmente se stesso, come uomo e poeta: “Libertà da una parte, tirannia dall’altra: che non possono essere superate da sintesi di alcun genere. O coesistono, oppure una uccide l’altra”. Si legga, in merito, una poesia inclusa nella silloge quale La tinta: “Ho dato vita ai muri/ gli ho dato voci/ perché mi facciano un po’ di compagnia/ I secondini cercano e ricercano/ dove trovai la tinta/ I muri della cella/ tengono il segreto/ I mercenari frugano e rifrugano/ e non trovano la tinta/ Non gli è venuto in mente/ di frugarmi le vene” (S.F.M.Isolamento, Giugno 1971). Il nostro grande scrittore e regista riconosce nel rivoluzionario greco l’autore di una parola poetica di natura atroce, dovuta alle “sevizie, gli anni di prigionia dentro un cubo di cemento, i polsi stretti giorno e notte dalle manette…e tuttavia, le guasconate, l’irriducibile calcolo dell’estremismo, l’accettazione provocatoria (e sublime) della morte. Eppure un poeta come Panagulis che davvero ha gettato il suo corpo nella lotta considera “basso” per il nostro prefatore “parlare del corpo…Il suo perpetuo sforzo… è di tradurre in termini compiutamente metaforici… le esperienze vissute col corpo… Di tutto ciò si proietta nella sua poesia scritta, soltanto un’ombra. Ma, come appunto accade nella poesia, quest’ombra si fa a sua volta corpo. Valgano a parer mio in tal senso dalla raccolta in oggetto i versi di Devi vivere: “Se per vivere, Libertà/ chiedi di mangiare la nostra carne/ e per bere/ vuoi da noi sangue e lacrime,/ te li daremo/ Devi vivere”. La Grecia nei decenni successivi alla morte più volte ha reso omaggio a Panagulis: francobollo, scheda telefonica e stazioni del metrò nella capitale. Aléxandros fu in tutta evidenza ucciso nella notte fra il 30 aprile e il primo maggio del 1976 dai sicari del nuovo governo pesantemente colluso con la giunta dei colonnelli (“compromettenti” le indagini da lui condotte in veste di parlamentare ormai isolato). Ebbene Panagulis - ovunque simbolo di lotta per la libertà e la democrazia - quasi si è materializzato ai miei occhi di recente a Roma, in un vagone della metropolitana, osservando da parte mia il triste rituale di massa dei nuovi oranti - i passeggeri - con sguardi inebetiti sugli smartphone (in autistico raccoglimento, insomma): a me declamando, Aléxandros (a voce bassa per non disturbare i presenti), la seguente sua poesia tratta sempre da Vi scrivo da un carcere in Grecia e intitolata Gli ingranaggi: “Che tristezza per quelli che accettarono/ d’essere gli ingranaggi d’una macchina/ credendo voce loro/ i monotoni suoni della macchina/ Che orrore quando vedo/ mani acefale muovere la macchina/ con movimenti ritmici, gli stessi/ cui la voce di altri dà comandi/ Che disgusto inaudito/ osservare occhi e bocca/ di chi per conto d’altri parla e guarda/ Anche loro ingranaggi della macchina…”.

Andrea Mariotti, giugno 2016


Il presente articolo è stato pubblicato sull'ultimo numero della rivista "I fiori del male" e viene riproposto in questo blog su autorizzazione dell'autore. 
           



domenica 10 settembre 2017

L'intensità della poesia. Correnti Ascensionali (CFR Edizioni 2013) di Laura Garavaglia.


Ho conosciuto Laura Garavaglia per volere del destino, di quel destino, come disse Dickens, che a volte ti fa bei regali. Come poeta e direttrice del Festival Europa in Versi avevo già sentito parlare di Laura, ma non avevo mai letto nulla di suo. Tuttavia, l’occasione di un festival di poesia in Colombia nel quale eravamo entrambe invitate ha colmato questa mia lacuna. E così Laura mi ha fatto dono dei suoi libri di poesia. Tra di essi mi ha colpito per primo “Correnti ascensionali” perché edito nel 2013 dalla casa editrice CFR del nostro indimenticabile amico Gianmario Lucini, esempio altissimo di onestà intellettuale e di sconfinato amore per la poesia.
“Correnti ascensionali “ mi ha folgorato: 11 testi poetici perfetti. Un cesello di parole che rappresenta la perfezione. Laura usa la “parola” come Matisse usa il pennello: con sinteticità, libertà e colore.  In questi 11 testi la Garavaglia ha compendiato un’infinità di tematiche affrontandole pienamente. Partiamo da “Autoritratto (pag. 11), un testo di soli quattro versi con i quali la poetessa ci pone davanti al senso umano dell’esistere attraversando la dimensione del tempo e della memoria, aprendo, altresì, la vista al percorso lento e inevitabile dell’individuo e dell’umanità. “Estate” (pag. 13), senza cadere nel banale della descrizione, ci porta in una dimensione marina, ci fa vedere il mare senza nominarlo mai e, tramite esso, ci proietta nella parte più profonda dell’uomo, forse anche melanconica, attraversando l’inquietudine del forse e il pensiero del finire.  In “Estate 2” (pag.16) il pensiero torna alla memoria, alla ripetitività di una certa esistenza quotidiana. Il tono è tagliente, impietoso e la chiusa ci pone di fronte all’illusione dell’apparenza. E’ quasi un monito, un richiamo per non cadere nel vuoto di un apatico trascorrere del tempo.  Con “Donna di sudori” (pag. 18) entriamo in un’atmosfera cruda. La parola si fa quasi spietata davanti al senso dell’inquietudine. La penna della Garavaglia in questo testo sembra quasi un bisturi che tenta di eliminare l’ottusità del sentire mediocre. Ne “Il filo” (pag. 20) il protagonista è il destino inevitabile della morte. L’immagine della foglia come metronomo del tempo ci unisce nel ciclo eterno e circolare della natura attraverso il ripetersi delle stagioni così come quello alternante della vita e della morte.  Di questi sette versi si potrebbe parlare e scrivere all’infinito tanto portano alla riflessione, alla meditazione e alla elaborazione di  interrogativi.  Il primo verso parla de il filo teso nero è forse il limite dell’uomo, il varco da oltrepassare o rappresenta le nostre paure, il lato oscuro dell’umanità? Ne “il collo del fringuello” (pag. 22) torna il pensiero dell’ineluttabilità della morte ma con una prospettiva differente, con un sentimento di totale accettazione: segno opaco di morte/ che non ho pulito. Il dolore della perdita, del distacco, è qualcosa d’incancellabile, che c’è e ci deve essere. Nella poesia “Sindrome di Asperger” (pag. 24) si affronta con senso di smarrimento una tema particolare: Non capisco/ la sbavatura del dolore/ l’emozione che scomposta deborda/ il bercio della vita.  Come comprendere ciò che è più grande di noi e che si cela nel mistero della scienza. Esiste un sistema perfetto?  In questo testo appare, dunque, il connubio scienza–poesia che tanto caratterizza la poesia della Garavaglia e che ritroveremo fortemente in un suo libro del 2016 “Numeri e stelle” (Edizioni Ulivo).  “La fretta del vecchio” (pag. 27) è una sottile meditazione sul valore del tempo, sulla caducità dell’esistenza, sul suo essere Tempo, limitato e circoscritto.  L’esistenza è l’elemento di collegamento con il dopo, anzi, come dice la stessa poetessa con l’incognita del dopo.  “Indicativo presente” (pag. 29) si presenta testo complesso e stratificato di significati. Tutto è percezione nei versi della Garavaglia. Lei ci porta al contenuto, o meglio ai contenuti attraverso parole materiche e rarefatte nel contempo che non sono mai descrittive, ma evocative.  In questo testo c’è la ricerca costante dell’uomo, la necessità di dare risposte al senso dell’esistenza. Sono testi, tutti, dove la bellezza prevale sia pure nelle riflessioni più inquiete. E’ una bellezza evanescente, fatta di luce, di sensazioni vibratili. L’ultimo testo del libro è “Meccanica quantistica” (pag. 32-34) che desidero riportare per intero:

Certe cose succedono e basta
non si può sapere il perché.
Non sarà l’alchimia nucleare
a spiegare
i sei gradi di separazione
che ci legano agli altri.
E poi, ogni tanto,
bere un bicchiere di vino
intuire il destino nei fondi di caffè
non sapendo chi resta, chi parte.
Del corpo più di ogni altra cosa
amo la bocca che si nutre del mondo
e scolpisce parole.

In questa poesia credo sia racchiusa la poetica di Laura, il suo pensiero, il mistero della vita e l’amore per essa.
Pur non avendo esaurito le mie riflessioni su “Correnti ascensionali” termino qui la mia scrittura lasciando agli altri lettori il piacere della conoscenza della poesia di Laura Garavaglia.

Mi piace però ricordare che questo libro, oltre a riportare un’attenta prefazione di Donatella Bisutti  e i testi nelle traduzioni in  inglese, rumeno e spagnolo di Barbara Ferri e Mario Castro Navarrete, è arricchito alle foto delle porcellane di Daniela Gatti, che, come dice giustamente la Bisutti, con i loro luccichii Klimtiani pongono l’accento sulla qualità variegata dei versi  e sul loro rapporto con la luce.

Cinzia Marulli