martedì 31 agosto 2021

Per le donne di Kabul: Andrea Giramundo

Come fare per raccontare l'orrore

senza mai averlo vissuto davvero

Qualche immagine non può certo bastare

per poter immaginare i lineamenti del male

 

Adesso l'occidente ha scoperto in tele

cosa vuol dire essere occidentale : abbandonare

una ragazza nel primo giorno di scuola, la libertà

al destino di un burka. Una dieci cento mille ragazze

che chiamerò ognuna Libertà : così mi piace pensare

che da oggi i genitori afghani vogliano chiamare le loro

neonate figlie : Libertà.

 

E se nominare una cosa ne permette l'esistenza,

allora diamo anche il nome del colpevole : Noi !

L'occidente abbandona il teatrino e va via,

il suo ruolo principale di difensore dal male.

 

Ché il primo vero colpevole non è il talebano

- un'arma non intelligente, scappata a quella stessa gente

che l'ha creata anni e anni prima-, ma proprio quell'occidente

che scappa con la coda tra le gambe, e abbandona la scena

senza neppure il bisogno di una scusa : è finito lo spettacolo

della democrazia, cala il sipario su Kabul: cala

un velario nero su gli occhi di tutte quelle donne.

 

 

Almeno per i prossimi vent'anni 

 

                                     *a Basir Ahang :
                                       poeta, giornalista e attivista afghano
                                       naturalizzato italiano.
                                       Si occupa di tematiche legate
                                     ai rifugiati e al diritto d’asilo.

 

Basir, esule vagabondo
malinconico ma ardito
con un bagaglio di racconti
di guerra e dolore, la sua voce
ha dato al suo paese
prima per radio poi a piedi
per il mondo : questo è il suo momento.

 

È il momento in cui il mondo
scopre l’orrore che circonda
l’Afghanistan : un paese abbandonato
a se stesso, abbandonato al terrore
all’oscurità. Basir ha dato voce
anche ai greci : la voce di Patrasso,
mentre noi, occupati dal lasciapassare
non riusciamo nemmeno a guardare
le immagini del televisore : uomini
appesi ad aerei di speranza
donne che l’hanno persa, la speranza,
ancora prima di veder partire gli alleati.
Bambini che gridano al di là del muro,
muti.

 

Arrivano i talebani, scappano anche i cani
non resta che polvere tanta paura e tutta
la nostra vergogna di vigliacchi, che forse
nemmeno ci hanno veramente provato
a fare qualcosa : ma cosa ? La guerra
per esportare la democrazia ? L’utopia
di volere il bene di qualcuno solo fino a che
fa comodo : sogni di tregua, sono le poesie
di Basir, altre parole mi sembra ridicolo
usare per parlare dei padroni
del terrore, il nuovo oppio dei popoli.

 

Mentre l’occidente, impotente non fa altro
che investire in armi e democrazia
da esportare : speriamo che di tanti
rifugiati che si potranno accogliere, almeno un pò
della loro dignità rimarrà poi anche a noi

 

almeno per i prossimi vent’anni.

 


 

Andrea Giramundo

 

lunedì 30 agosto 2021

Per le donne di Kabul: Elena Bonassi

Che cosa c’è sotto i veli

nei vostri pensieri?

Non lo so

Davvero non lo so

È tanto facile

attribuirvi la mia voce

lo strazio del mio cuore

e alleggerire

in questo modo la pena.

Ma non lo so

Davvero non lo so

Non posso sentire le parole

di tutte quelle che stanno nell’onda.

Ed è questo il dolore più grande.

 

Elena Bonassi

 

Per le donne di Kabul: Annamaria Ferramosca

Baccante - foto di Annamaria Ferramosca
quale deserto ha ingoiato il sole?

lo cercherò

sulle spalle incurvate della notte

sulle vie del pensiero dissolto

su questa terra stremata   separata   

 

lo cercherò

con nuovi occhi che sappiano vedere

i campi larghi del futuro

i solchi di luce dileguati

 

lo cercherò

in piccole frasi   brani di fiaba

perchè i bambini possano addormentarsi

stringendo in pugno la loro stella

 

perchè non sentano l'anatema

rivolto ai loro padri

da una terra stanchissima

 

uomini    vi sarò sterile

fintanto che mi coprirete

di corpi uccisi   segregati   avviliti

 

uomini   non vi darò tregua

finchè non sentirò

     il canto assoluto

delle mie figlie liberate

(libererà anche voi)

 

 Annamaria Ferramosca

Per le donne di Kabul: Viviane Ciampi

Cauchemar

 

mauvais rêve que notre temps

arraché à d’autres temps

tout le regard en un seul œil

incolore

tolérance annulée

la terre pâlit d’inquiétude

– l’indocile –

pas d’excuses

mauvais rêve que notre temps

le futur se tord de rire

 

Incubo

 

brutto sogno il nostro tempo

strappato ad altri tempi

tutto lo sguardo in un solo occhio

incolore

tolleranza azzerata

la terra impallidisce d’inquietudine

– l’indocile –

nessuna scusa

brutto sogno il nostro tempo

il futuro si contorce dalle risate

 

Viviane Ciampi (France/Italy) 

domenica 29 agosto 2021

Per le donne di Kabul: Sandro Pecchiari

Ti impongo il burka

Così asporto te con la legge

Che soffocherà la mia colpa

*

Bisogna evacuare la folla

Nellaeroporto in mano a nessuno -

Sono così efficaci le bombe

*

Abiti abbandonati nel canale

Giocattoli e zaini ingombranti

Anche il sangue è dingombro

*

Non sono uomini -mi rifiuto-

Sono rifiuti accecati

Da un dio travisato

*

Vestiti e armi troppo a lungo addosso

Puzzano di animale.

Gli animali veri profumano

*

Poesie sussurrate nei telefoni

Ma il sussurro lima lentamente

Il tempo sarà corto nuovamente

*

Il lezzo della legge violenta

Uomini e donne -

Quelli che sono ancora

Uomini e donne

*

C’è un dio per gli uomini

E uno per le donne?

No, solo per gli uomini

E li maledice

 

Sandro Pecchiari

Per le donne di Kabul: Davide Zizza

Havdalah al Café Qaifit di Gerusalemme

 

Non possiamo più vederci, mia isha, la Legge lo vieta.
È doloroso il distacco da te; dentro me qualcosa muore.

 

                     È un supplizio non vederti più, nour, nour dei miei occhi –

                     non vederti più è come morire: nahy è la nostra vita.

Il giorno ritira il suo sole: fuori è già il deserto.


                       Oggi fa eco la mezzanotte del terrore.


I soldati saranno presto qui; una nuova shoah
ridurrà in polvere questi muri.

                        Il tempo distruggerà questo tavolo dove tempo fa
                        ti amai la prima volta con baci furtivi.

Ricordo bene, era Yom-Kippur,
quel giorno capii che non esiste peccato nell’amore.

                         Quando non saremo più né tu né io,
                         quel giorno saremo finalmente liberi, mio amato.

 

 

Davide Zizza, da  Ruah  - Edizioni Ensemble, 2016

 

Per le donne di Kabul: Tommaso Urselli

Dice Ipazia

 

Sono già morta

almeno così sembra

o è tutto morto intorno a me:

la città 

andata a fuoco

un teatro fatto a pezzi 

la sua pelle, aperta:

e io sono viva 

di una vita che non conosco

che non so dire

che non so ancora misurare

Di chi è la voce che dentro di me 

ancora parla?

Chi sono io, chi siete voi: vivi che 

vogliono diventare morti, morti

che vogliono diventare vivi? 

Forse per questo siamo qui insieme

in questa terra di nessuno

in questo tempo che non c’è

io e voi come una stessa cosa:

per non dimenticare, dice Ipazia

Che quei punti, quei puntini di luce 

sono i frammenti di un’unica grande 

immagine senza tempo

Che questi suoni, queste note, sono parte

di un’unica nota più alta

Ma quale sia questa immagine

quale questa nota

non ci è dato per ora ricordare

E io ora vorrei solo morire 

ma morire davvero, morire 

tutta, dice Ipazia

Che i pezzi di me, ogni mia singola 

parte ritorni al tutto

Tutti i numeri all’Uno 

l’acqua dei fiumi dei mari dei laghi 

alla sorgente, le curve 

della spirale all’unica origine

alla madre che non ho conosciuto

 

Tommaso Urselli

 

Per le donne di Kabul: Asupta Gabriella Greco

sono andati via gli angeli da Kabul

Kandahar Jalalabad Herat

hanno lasciato donne e bambini

lanciati sul filo spinato del confine

per la salvezza

 

il terrore negli occhi di

madri disperate

la corsa a nascondere le bambine

per non farle divenire                                     

bottino di guerra

regalo di carne e sangue

 

è finito

il benessere degli anni sessanta

dilagano siccità e carestia

insieme alla malnutrizione

dei bimbi

 

fantasmi vagano senza tempo

fra le pietre

un tempo infinito di

canzoni di morte

attraversa il Paese

passaggi sconquassati

d’anime e fiori appassiti

 

24 . 8 . ‘21

 

Asupta Gabriella Greco

Per le donne di Kabul: Zingonia Zingone

Le campane della memoria

 

 

Nei sogni, un’altra voce, mi ripete, avverto:

«il fiore aprirà al bacio di un nuovo giorno»

e un rumore transitorio, mi dice, già sveglio:

«Il fiore che ieri è sbocciato, ha donato la sua fragranza ed è morto»

Omar Khayya

 

 

I

 

In un angolo della notte

una bimba si cinge le gambe,

si dondola, in trance, e piange.

Le lacrime scendono

sui lati del corpo,

cadono in strada nella polvere

in un inverno senza pioggia.

Affiorano volti

mostruosi d’uomo,

rubano il grido d’orrore

tappano la piccola bocca,

il garofano acceso e godono

della stessa gioia maledetta

che illumina il volto di Shaytan.

Chiude gli occhi, si ripara

al buio del dolore,

si graffia le cosce come un gatto ingannato

affonda il suo volto negli abissi.

 

 

II

 

Soraya ha occhi di carbone.

Il suo corpo fino porta

il peso di una infanzia

sporcata dal destino.

La casa è la sua tomba,

il mormorio della gente, la sua morte.

Si guarda allo specchio e oscilla il ventre;

prova la danza della dea madre. I

campanellini sonanti

circondano il piccolo ventre

come l’abbraccio dell’amato.

Nodo che stringe il collo del cane

fino a lasciarlo senza fiato;

ventre sfinito, solco degli spasmi,

tatuaggio di una rabbia implacabile.

Soraya danza sul palco

per fuggire da se stessa

e strappare i chiodi piantati

nella carne dei ricordi.

 

 

III

 

I ricordi imprigionano il tempo.

 

IV

 

«Vuoi una storia, bimba bella?

Ne ho molte da raccontare…»1

la voce del padre si avvicina

nel crepuscolo vespertino; l

a branda tremante,

l’aria impregnata del fumo di un agnello

sul focolare in cucina,

l’orrore di un silenzio complice

e Soraya trattenuta in un respiro.

«Dimmi tu, di quale vuoi?»

La risata tra i denti, i denti

Tra le cosce; il forare del ribrezzo

nella fessura che conduce all’anima.

Il selvaggio inchioda

la sua lingua di schiuma e tabacco

nella gola dell’angelo,

impedisce il suo pianto l’urlo

del terrore. Un salto brusco,

un grugnito tetro:

crosta che nasconde morte in vita

ferita sanguinante.

«Così fu. La bella giovane

dalla pelle bianca e gli occhi neri,

soddisfò gli sfizi del re…»

Intorno si sente l’orrore

il silenzio complice.

 

1 «Vuoi una storia, bimba bella? / Ne ho molte da raccontare…»/ «Dimmi tu di quale vuoi?»

«Così fu. La giovane bella/ dalla pelle bianca e occhi neri, / soddisfò gli sfizi del re…» (Rubén Darío).

 

 

V

 

Soraya vende il suo corpo, compra

allegria. Vende allegria, compra

oblio. Si libera dal presente

inchiodandosi alla croce della lussuria,

martire del piacere e della vertigine.

Erotismo, fantasma che la abita

e spaventa; seme catapulta

che l’ha scagliata in questo mondo

 

VI

 

Tremano i sonagli del ventre.

— Chi sei? — domanda un uomo

avvolto in stracci fetidi, seduto

ai margini della via.

— Soraya — risponde lei fermandosi.

— Che voce dolce — l’uomo

sorride al vento, abbaglia il sole

con l’indaco del suo sguardo;

— parlami, Soraya, raccontami una storia. — Turbata,

si aggiusta la gonna, passa

la mano tra la furia dei capelli,

insegue gli occhi del vecchio:

levriero che scava il cuore

della lepre. — Siediti, Soraya, qui

accanto a me; vestimi della tua presenza,

narrami il mondo del tuo mondo, a

primi un orizzonte… — indica il cielo

e la terra, la mano trema

sospesa, l’indice disteso

tra le pieghe del tempo.

È il primo uomo che non la guarda.

Soraya si china e si siede,

la schiena dritta

e i sonagli silenziosi del ventre.

È il primo uomo che la vede.

Il vecchio non abbassa la mano; — il destino

ti riserva grandi cose,

hai il cuore bianco

benché sanguini di spine.

Non mi dire, Soraya, della tua vita,

dimentica il volo del condor,

concedimi il lento battito d’ali

di un gabbiano. — Cola il rimmel

sulla guancia, muta ritorna

la luce dell’infanzia

nel suo angolo buio;

lanterna che raduna

un albore rapito.

 

VII

 

Soraya condanna i racconti.

La sua sventura si porta dietro

il sussurro di una favola orientale.

Come struccarsi le labbra

della carne azzannata? Come ripudiare

il satiro che abita nell’uomo?

— Soraya, vedo nascere un arcobaleno

sul tuo volto; le lacrime lavano

l’anima, sollevano la luce

inabissata nei nostri precipizi;

dall’aureola restaurata

forgiano colori nuovi.

— Il vecchio non la guarda in volto,

perso nella nostalgia ridente del cielo.

Il fetore dei suoi abiti dichiara l

a sua indigenza; i suoi modi

le alte insegne dell’onore.

Soraya sfiora i piedi del cieco

con il deserto del suo sguardo:

— Sono un fiore marcito nel vizio

imposto dalla sorte, maledizione

che sopporto e compio ogni giorno

con la puntualità del diavolo;

mi disgustano l’uomo e le curve

che accompagnano la mia carne.

Odio queste mani schiave,

questa bocca affamata di orrore.

Impotente nel chiuso dell’odio,

dove niente vive in pace,

filo spinato teso, pavimento schiodato,

sgambetto.

Come un cane,

sento desideri che diventano morso,

ferita, voce che ritorna

nel tamburo dell’orecchio

una danza tribale che chiede

acqua per uccidere l’arsura,

ad irrorare una speranza screpolata,

morente, senza voce per gridare

l’odio che le cresce nelle viscere.

La poca linfa che scorre

in questa pianta del deserto.

 

VIII

 

Soraya e il cieco, il ciglio e il tempo.

Lasciano passare il vento e il sole.

Attendono una luna nuova

nell’eclisse del sole

che lei porta dentro. 

 

IX

 

Il silenzio accompagna l’ascesa. 

 

X

 

Il sole illumina il mattino

e il vecchio racconta una storia:

— C’era una volta, nella terra

dove nacqui, un potente magnete

(empia forza che attira due persone,

una verso l’altra) che mutava

il desiderio in necessità,

la necessità in follia e, a volte,

la follia in catastrofe. Temibile

magnete figlio di papà abbondanza

e mamma povertà, legato al buio

dell’ignoranza, desideroso di verità.

Abbandonato a se stesso, Eros,

paradossale ragazzino elevato a divinità,

si appropriò del mondo.

Vittima e carnefice.

Desiderio eterno e assassino.

Soraya, c’era una volta,

nella terra dove nacqui,

la risposta al fuoco che fece

di te un angelo.

 

XI

 

Soraya apre gli occhi e sorride

al vento.

Una luce profumata

di fiori silvestri

riempie lo spazio

che la polvere lasciò.

XII

Lei segue il battito ipnotico

delle sue palpebre

e ripete come un mantra

a fior di labbra dei versi che non sa:

«ogni cosa sotto il cielo ha il suo momento.

C’è tempo per nascere e tempo per morire […]

un tempo per uccidere e un tempo per guarire […]

un tempo per piangere e un tempo per ridere […]

un tempo per cercare e un tempo per perdere […]

un tempo per strappare e un tempo per cucire,

un tempo per tacere e un tempo per parlare,

un tempo per amare e un tempo per odiare,

il tempo della guerra e il tempo della pace»[1].

Lei segue il battito ipnotico

delle sue palpebre e,

scivolando dal ciglio del ponte, risente

il battito nel petto

fuori tempo

il battito discordante della vita.

 

XIII

In una chiesa d’oriente

le campane colpisco

il ventre del cielo.

 

Zingonia Zingone

da “I naufragi del deserto” Edizioni della Meridiana 2015



[1] Ecclesiaste 3.1-8