Le
campane della memoria
Nei sogni, un’altra voce, mi ripete,
avverto:
«il fiore aprirà al bacio di un nuovo
giorno»
e un rumore transitorio, mi dice, già
sveglio:
«Il fiore che ieri è sbocciato, ha donato
la sua fragranza ed è morto»
Omar Khayya
I
In un
angolo della notte
una bimba
si cinge le gambe,
si
dondola, in trance, e piange.
Le lacrime
scendono
sui lati
del corpo,
cadono in
strada nella polvere
in un
inverno senza pioggia.
Affiorano
volti
mostruosi
d’uomo,
rubano il
grido d’orrore
tappano la
piccola bocca,
il
garofano acceso e godono
della
stessa gioia maledetta
che
illumina il volto di Shaytan.
Chiude gli
occhi, si ripara
al buio
del dolore,
si graffia
le cosce come un gatto ingannato
affonda il
suo volto negli abissi.
II
Soraya ha
occhi di carbone.
Il suo
corpo fino porta
il peso di
una infanzia
sporcata
dal destino.
La casa è
la sua tomba,
il
mormorio della gente, la sua morte.
Si guarda
allo specchio e oscilla il ventre;
prova la
danza della dea madre. I
campanellini
sonanti
circondano
il piccolo ventre
come
l’abbraccio dell’amato.
Nodo che
stringe il collo del cane
fino a
lasciarlo senza fiato;
ventre
sfinito, solco degli spasmi,
tatuaggio
di una rabbia implacabile.
Soraya
danza sul palco
per
fuggire da se stessa
e
strappare i chiodi piantati
nella
carne dei ricordi.
III
I ricordi
imprigionano il tempo.
IV
«Vuoi una
storia, bimba bella?
Ne ho
molte da raccontare…»1
la voce
del padre si avvicina
nel
crepuscolo vespertino; l
a branda
tremante,
l’aria
impregnata del fumo di un agnello
sul
focolare in cucina,
l’orrore
di un silenzio complice
e Soraya
trattenuta in un respiro.
«Dimmi tu,
di quale vuoi?»
La risata
tra i denti, i denti
Tra le
cosce; il forare del ribrezzo
nella
fessura che conduce all’anima.
Il
selvaggio inchioda
la sua
lingua di schiuma e tabacco
nella gola
dell’angelo,
impedisce
il suo pianto l’urlo
del terrore.
Un salto brusco,
un
grugnito tetro:
crosta che
nasconde morte in vita
ferita
sanguinante.
«Così fu.
La bella giovane
dalla
pelle bianca e gli occhi neri,
soddisfò
gli sfizi del re…»
Intorno si
sente l’orrore
il
silenzio complice.
1
«Vuoi una storia, bimba bella? / Ne ho molte da raccontare…»/ «Dimmi tu di
quale vuoi?»
«Così
fu. La giovane bella/ dalla pelle bianca e occhi neri, / soddisfò gli sfizi del
re…» (Rubén Darío).
V
Soraya
vende il suo corpo, compra
allegria.
Vende allegria, compra
oblio. Si
libera dal presente
inchiodandosi
alla croce della lussuria,
martire
del piacere e della vertigine.
Erotismo,
fantasma che la abita
e
spaventa; seme catapulta
che l’ha
scagliata in questo mondo
VI
Tremano i
sonagli del ventre.
— Chi sei?
— domanda un uomo
avvolto in
stracci fetidi, seduto
ai margini
della via.
— Soraya —
risponde lei fermandosi.
— Che voce
dolce — l’uomo
sorride al
vento, abbaglia il sole
con
l’indaco del suo sguardo;
— parlami,
Soraya, raccontami una storia. — Turbata,
si
aggiusta la gonna, passa
la mano
tra la furia dei capelli,
insegue
gli occhi del vecchio:
levriero
che scava il cuore
della
lepre. — Siediti, Soraya, qui
accanto a
me; vestimi della tua presenza,
narrami il
mondo del tuo mondo, a
primi un
orizzonte… — indica il cielo
e la
terra, la mano trema
sospesa,
l’indice disteso
tra le
pieghe del tempo.
È il primo
uomo che non la guarda.
Soraya si
china e si siede,
la schiena
dritta
e i
sonagli silenziosi del ventre.
È il primo
uomo che la vede.
Il vecchio
non abbassa la mano; — il destino
ti riserva
grandi cose,
hai il
cuore bianco
benché
sanguini di spine.
Non mi
dire, Soraya, della tua vita,
dimentica
il volo del condor,
concedimi
il lento battito d’ali
di un
gabbiano. — Cola il rimmel
sulla
guancia, muta ritorna
la luce
dell’infanzia
nel suo
angolo buio;
lanterna
che raduna
un albore
rapito.
VII
Soraya
condanna i racconti.
La sua
sventura si porta dietro
il
sussurro di una favola orientale.
Come
struccarsi le labbra
della carne
azzannata? Come ripudiare
il satiro
che abita nell’uomo?
— Soraya,
vedo nascere un arcobaleno
sul tuo
volto; le lacrime lavano
l’anima,
sollevano la luce
inabissata
nei nostri precipizi;
dall’aureola
restaurata
forgiano
colori nuovi.
— Il
vecchio non la guarda in volto,
perso
nella nostalgia ridente del cielo.
Il fetore
dei suoi abiti dichiara l
a sua
indigenza; i suoi modi
le alte
insegne dell’onore.
Soraya
sfiora i piedi del cieco
con il
deserto del suo sguardo:
— Sono un
fiore marcito nel vizio
imposto
dalla sorte, maledizione
che
sopporto e compio ogni giorno
con la
puntualità del diavolo;
mi
disgustano l’uomo e le curve
che
accompagnano la mia carne.
Odio
queste mani schiave,
questa
bocca affamata di orrore.
Impotente
nel chiuso dell’odio,
dove niente
vive in pace,
filo
spinato teso, pavimento schiodato,
sgambetto.
Come un
cane,
sento
desideri che diventano morso,
ferita,
voce che ritorna
nel
tamburo dell’orecchio
una danza
tribale che chiede
acqua per
uccidere l’arsura,
ad
irrorare una speranza screpolata,
morente,
senza voce per gridare
l’odio che
le cresce nelle viscere.
La poca
linfa che scorre
in questa
pianta del deserto.
VIII
Soraya e
il cieco, il ciglio e il tempo.
Lasciano
passare il vento e il sole.
Attendono
una luna nuova
nell’eclisse
del sole
che lei
porta dentro.
IX
Il
silenzio accompagna l’ascesa.
X
Il sole
illumina il mattino
e il
vecchio racconta una storia:
— C’era
una volta, nella terra
dove
nacqui, un potente magnete
(empia
forza che attira due persone,
una verso
l’altra) che mutava
il
desiderio in necessità,
la
necessità in follia e, a volte,
la follia
in catastrofe. Temibile
magnete
figlio di papà abbondanza
e mamma
povertà, legato al buio
dell’ignoranza,
desideroso di verità.
Abbandonato
a se stesso, Eros,
paradossale
ragazzino elevato a divinità,
si
appropriò del mondo.
Vittima e
carnefice.
Desiderio
eterno e assassino.
Soraya,
c’era una volta,
nella
terra dove nacqui,
la
risposta al fuoco che fece
di te un
angelo.
XI
Soraya
apre gli occhi e sorride
al vento.
Una luce
profumata
di fiori
silvestri
riempie lo
spazio
che la
polvere lasciò.
XII
Lei segue
il battito ipnotico
delle sue
palpebre
e ripete
come un mantra
a fior di
labbra dei versi che non sa:
«ogni cosa
sotto il cielo ha il suo momento.
C’è tempo
per nascere e tempo per morire […]
un tempo
per uccidere e un tempo per guarire […]
un tempo
per piangere e un tempo per ridere […]
un tempo
per cercare e un tempo per perdere […]
un tempo
per strappare e un tempo per cucire,
un tempo
per tacere e un tempo per parlare,
un tempo
per amare e un tempo per odiare,
il tempo
della guerra e il tempo della pace».
Lei segue
il battito ipnotico
delle sue
palpebre e,
scivolando
dal ciglio del ponte, risente
il battito
nel petto
fuori
tempo
il battito
discordante della vita.
XIII
In una
chiesa d’oriente
le campane
colpisco
il ventre
del cielo.
Zingonia
Zingone
da “I
naufragi del deserto” Edizioni della Meridiana 2015