domenica 29 agosto 2021

Per le donne di Kabul: Zingonia Zingone

Le campane della memoria

 

 

Nei sogni, un’altra voce, mi ripete, avverto:

«il fiore aprirà al bacio di un nuovo giorno»

e un rumore transitorio, mi dice, già sveglio:

«Il fiore che ieri è sbocciato, ha donato la sua fragranza ed è morto»

Omar Khayya

 

 

I

 

In un angolo della notte

una bimba si cinge le gambe,

si dondola, in trance, e piange.

Le lacrime scendono

sui lati del corpo,

cadono in strada nella polvere

in un inverno senza pioggia.

Affiorano volti

mostruosi d’uomo,

rubano il grido d’orrore

tappano la piccola bocca,

il garofano acceso e godono

della stessa gioia maledetta

che illumina il volto di Shaytan.

Chiude gli occhi, si ripara

al buio del dolore,

si graffia le cosce come un gatto ingannato

affonda il suo volto negli abissi.

 

 

II

 

Soraya ha occhi di carbone.

Il suo corpo fino porta

il peso di una infanzia

sporcata dal destino.

La casa è la sua tomba,

il mormorio della gente, la sua morte.

Si guarda allo specchio e oscilla il ventre;

prova la danza della dea madre. I

campanellini sonanti

circondano il piccolo ventre

come l’abbraccio dell’amato.

Nodo che stringe il collo del cane

fino a lasciarlo senza fiato;

ventre sfinito, solco degli spasmi,

tatuaggio di una rabbia implacabile.

Soraya danza sul palco

per fuggire da se stessa

e strappare i chiodi piantati

nella carne dei ricordi.

 

 

III

 

I ricordi imprigionano il tempo.

 

IV

 

«Vuoi una storia, bimba bella?

Ne ho molte da raccontare…»1

la voce del padre si avvicina

nel crepuscolo vespertino; l

a branda tremante,

l’aria impregnata del fumo di un agnello

sul focolare in cucina,

l’orrore di un silenzio complice

e Soraya trattenuta in un respiro.

«Dimmi tu, di quale vuoi?»

La risata tra i denti, i denti

Tra le cosce; il forare del ribrezzo

nella fessura che conduce all’anima.

Il selvaggio inchioda

la sua lingua di schiuma e tabacco

nella gola dell’angelo,

impedisce il suo pianto l’urlo

del terrore. Un salto brusco,

un grugnito tetro:

crosta che nasconde morte in vita

ferita sanguinante.

«Così fu. La bella giovane

dalla pelle bianca e gli occhi neri,

soddisfò gli sfizi del re…»

Intorno si sente l’orrore

il silenzio complice.

 

1 «Vuoi una storia, bimba bella? / Ne ho molte da raccontare…»/ «Dimmi tu di quale vuoi?»

«Così fu. La giovane bella/ dalla pelle bianca e occhi neri, / soddisfò gli sfizi del re…» (Rubén Darío).

 

 

V

 

Soraya vende il suo corpo, compra

allegria. Vende allegria, compra

oblio. Si libera dal presente

inchiodandosi alla croce della lussuria,

martire del piacere e della vertigine.

Erotismo, fantasma che la abita

e spaventa; seme catapulta

che l’ha scagliata in questo mondo

 

VI

 

Tremano i sonagli del ventre.

— Chi sei? — domanda un uomo

avvolto in stracci fetidi, seduto

ai margini della via.

— Soraya — risponde lei fermandosi.

— Che voce dolce — l’uomo

sorride al vento, abbaglia il sole

con l’indaco del suo sguardo;

— parlami, Soraya, raccontami una storia. — Turbata,

si aggiusta la gonna, passa

la mano tra la furia dei capelli,

insegue gli occhi del vecchio:

levriero che scava il cuore

della lepre. — Siediti, Soraya, qui

accanto a me; vestimi della tua presenza,

narrami il mondo del tuo mondo, a

primi un orizzonte… — indica il cielo

e la terra, la mano trema

sospesa, l’indice disteso

tra le pieghe del tempo.

È il primo uomo che non la guarda.

Soraya si china e si siede,

la schiena dritta

e i sonagli silenziosi del ventre.

È il primo uomo che la vede.

Il vecchio non abbassa la mano; — il destino

ti riserva grandi cose,

hai il cuore bianco

benché sanguini di spine.

Non mi dire, Soraya, della tua vita,

dimentica il volo del condor,

concedimi il lento battito d’ali

di un gabbiano. — Cola il rimmel

sulla guancia, muta ritorna

la luce dell’infanzia

nel suo angolo buio;

lanterna che raduna

un albore rapito.

 

VII

 

Soraya condanna i racconti.

La sua sventura si porta dietro

il sussurro di una favola orientale.

Come struccarsi le labbra

della carne azzannata? Come ripudiare

il satiro che abita nell’uomo?

— Soraya, vedo nascere un arcobaleno

sul tuo volto; le lacrime lavano

l’anima, sollevano la luce

inabissata nei nostri precipizi;

dall’aureola restaurata

forgiano colori nuovi.

— Il vecchio non la guarda in volto,

perso nella nostalgia ridente del cielo.

Il fetore dei suoi abiti dichiara l

a sua indigenza; i suoi modi

le alte insegne dell’onore.

Soraya sfiora i piedi del cieco

con il deserto del suo sguardo:

— Sono un fiore marcito nel vizio

imposto dalla sorte, maledizione

che sopporto e compio ogni giorno

con la puntualità del diavolo;

mi disgustano l’uomo e le curve

che accompagnano la mia carne.

Odio queste mani schiave,

questa bocca affamata di orrore.

Impotente nel chiuso dell’odio,

dove niente vive in pace,

filo spinato teso, pavimento schiodato,

sgambetto.

Come un cane,

sento desideri che diventano morso,

ferita, voce che ritorna

nel tamburo dell’orecchio

una danza tribale che chiede

acqua per uccidere l’arsura,

ad irrorare una speranza screpolata,

morente, senza voce per gridare

l’odio che le cresce nelle viscere.

La poca linfa che scorre

in questa pianta del deserto.

 

VIII

 

Soraya e il cieco, il ciglio e il tempo.

Lasciano passare il vento e il sole.

Attendono una luna nuova

nell’eclisse del sole

che lei porta dentro. 

 

IX

 

Il silenzio accompagna l’ascesa. 

 

X

 

Il sole illumina il mattino

e il vecchio racconta una storia:

— C’era una volta, nella terra

dove nacqui, un potente magnete

(empia forza che attira due persone,

una verso l’altra) che mutava

il desiderio in necessità,

la necessità in follia e, a volte,

la follia in catastrofe. Temibile

magnete figlio di papà abbondanza

e mamma povertà, legato al buio

dell’ignoranza, desideroso di verità.

Abbandonato a se stesso, Eros,

paradossale ragazzino elevato a divinità,

si appropriò del mondo.

Vittima e carnefice.

Desiderio eterno e assassino.

Soraya, c’era una volta,

nella terra dove nacqui,

la risposta al fuoco che fece

di te un angelo.

 

XI

 

Soraya apre gli occhi e sorride

al vento.

Una luce profumata

di fiori silvestri

riempie lo spazio

che la polvere lasciò.

XII

Lei segue il battito ipnotico

delle sue palpebre

e ripete come un mantra

a fior di labbra dei versi che non sa:

«ogni cosa sotto il cielo ha il suo momento.

C’è tempo per nascere e tempo per morire […]

un tempo per uccidere e un tempo per guarire […]

un tempo per piangere e un tempo per ridere […]

un tempo per cercare e un tempo per perdere […]

un tempo per strappare e un tempo per cucire,

un tempo per tacere e un tempo per parlare,

un tempo per amare e un tempo per odiare,

il tempo della guerra e il tempo della pace»[1].

Lei segue il battito ipnotico

delle sue palpebre e,

scivolando dal ciglio del ponte, risente

il battito nel petto

fuori tempo

il battito discordante della vita.

 

XIII

In una chiesa d’oriente

le campane colpisco

il ventre del cielo.

 

Zingonia Zingone

da “I naufragi del deserto” Edizioni della Meridiana 2015



[1] Ecclesiaste 3.1-8

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