domenica 28 novembre 2021

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: "La ferita celeste" di Silvio Raffo (Ed. La vita felice 2019)

foto di Dino Ignani
Silvio Raffo è artista multiforme, intellettuale di vasti orizzonti, raffinato traduttore. Poeta, romanziere, critico, docente di Liceo classico, ha tradotto l’opera omnia della Dickinson (il suo Meridiano Mondadori, 1997, è alla decima ristampa), oltre a numerosi altri autori classici e contemporanei di lingua anglosassone. Per inciso, il suo è il parlare inglese più perfettamente intonato e musicale che mi sia stato concesso di ascoltare nella vita: da restare incantati a sentirlo interloquire, per ore.

Evidentemente anche nella lingua ‘straniera’ (ma per lui è una seconda lingua madre) si percepisce quella propensione alla musicalità melodica che è cifra della sua poesia, caratterizzata da amore per la tradizione italiana del poetare. La forma stilistica di Raffo è basata infatti su versi classici (endecasillabi e settenari), per lo più legati da una struttura di rime, spesso alternate o incrociate, talora baciate.  È estremamente interessante, in Raffo, l’uso di un lessico moderno, rigorosamente contemporaneo, scandito per contrasto da questa musicalità ritmata, intensa, che riporta ai fondamenti della nostra tradizione poetica letteraria, attualizzandola con vivacità.

Altro grosso merito spetta a Raffo, in quanto critico letterario: quello di essersi occupato di voci contemporanee a rischio di dimenticanza. Penso, tra tante poetesse, alle mie amate Maria Luisa Spaziani, a Daria Menicanti – ricordata nell’antologia critica Le muse del disincanto, Castelvecchio 2019 –, ad Antonia Pozzi. Tra i romanzi ricordo La voce della pietra, Il Saggiatore 1996, finalista al premio Strega, da cui è stato tratto nel 2017 un film thriller gotico sul tema del distacco dalla figura materna.

Raffo vive a Varese, ove dirige il centro di cultura creativa La piccola Fenice, da lui fondato nel 1986.  È appena uscito da Puntoacapo 2021 l’ultima silloge Il giovane dolore.

 

Una caratteristica precipua di Raffo, poeta e personaggio dalla fortissima personalità, mi pare sia quella di essere un esteta, nella vita e nell’arte, sempre alla ricerca del Bello e dell’Oltre. Curioso del diverso e del non omologabile, ricerca attraverso i suoi percorsi una personale strada che veda al di là del caduco del mondo, che superi disagi, dolori e, forse, anche la morte fisica.

L’artista, nella fattispecie il poeta, è tale nella sua vita, prima che nell’arte stessa: la sua è un’esistenza che si plasma, si abbellisce, si inventa, che l’autore sublima e decora con tutti gli accorgimenti possibili, al fine di cogliere, nobilitandola, una realtà che non cessa di stupire in positivo, se solo si sanno superare vacuità, disillusioni, disattese. In una parola, i fraintendimenti e le sconfitte del mondo.

Come combattere la negatività di un irrimediabile declino fisico e psicologico, che gli anni


evidenziano in tutti, uomini, animali, cose?  È fatale soccombervi senza tentare di porvi dei limiti temporali, se non dei rimedi?

Il poeta Raffo crea per sé e condivide con gli altri un mondo ‘altro’, di creatività, di seduzione luminosa, di speranza, un mondo che è fatto di opalescenze, di classicità eterna nella forma di versificazione, di immagini cristalline: gli è cara l’età adolescenziale, la prima giovinezza, perché ingenua, inconsapevole, per lo più felice di impulsi istintivi e vitali. Le metafore usate diventano ‘figura’: il simbolo esorcizza il reale. La felicità dell’uomo rivive nelle immagini di una specie di paradiso perduto, nella tessitura di suggestioni evocative, nella forte musicalità delle parole, nel gioco delle rime che diventa canto.

Anche in questo sta la preziosità dell’arte di Raffo: il senso sotteso dell’ineluttabilità della vita viene espresso grazie a questi accorgimenti, come in un passo di danza; con grazia, con levità, il pensiero filosofico entra ma quasi di straforo, in modo sommesso, per non rischiare di scalfire neppure in minima parte quella bellezza risuscitata dal passato, senza tempo, da recuperare alla vita nei nostri giorni perversi (cosa che è quasi una missione, per l’autore). Siamo figli dei canoni della perfezione della grecità e della loro trasposizione nel mondo latino: penso al mio amato Orazio, ai suoi tredici musicali metri ritmici (nelle Odi), alla scienza faticosamente costruita di una vita in costante equilibrio. Salta all’occhio del lettore tutta la sapienziale sedimentazione, nella mente e nel cuore di Raffo, del suo passato di docente di latino e greco al Liceo classico. Emerge questa cultura, che si è fatta carne ed è parte integrante della sua essenza di uomo e di poeta.

Il pacato sorriso disilluso, proprio dell’arte, della poesia e della filosofia classica, è infatti anche cifra della silloge di Raffo; certo non è il sorriso insipiente che spesso accompagna i nostri giorni alla ricerca di una qualsiasi fuga dal reale, ma è un sorriso che nasce dalla consapevolezza delle leggi che governano il corso delle cose, la coscienza della fatalità del destino, la presenza comunque del dolore delle incomprensioni, dei tanti tradimenti nel vivere quotidiano. Ma anche il dolore, forse soprattutto il dolore, ha in sé una sua bellezza costruttiva, ci fa crescere, ci rende più vivi, ci innalza, ci fa quasi Titani, dei Prometei combattenti, anche se la sconfitta arriverà immancabile alla fine del viaggio. Ma con questa consapevolezza allora le nostre ferite saranno state davvero celesti (come dal titolo della silloge), avranno portato ‘oltre’ noi stessi; l’armonia della bellezza pura, della poesia con la sua musica e i suoi densi silenzi, ci avrà accompagnato, con la malinconia dolce dell’elegia, alla scoperta di una nostra interiorità più rasserenata, non solo rassegnata.

 

Ma veniamo ai testi della silloge.  È una poesia intimista, psicologica: l’io alla ricerca di sé si riflette in uno specchio che si rivela un pozzo senza fondo.  È fondamentale tuttavia non eludere il mistero dell’essere, anzi ricercarne le radici, seguire le orme dell’amata Dickinson: essere fedeli a se stessi e al mistero che circonda la vita, ché tutto il resto è menzogna. Al poeta non resta che dare forma in poesia al suo sentire, anche sublimandolo protendendosi al momento in cui i sentimenti, ma io credo anche il pensiero, verranno eternati in poesia. La scrittura è ciò che conta: la scrittura non tradisce. Tra vita e scrittura c’è chi sceglie di scrivere, vedi la poetessa Piera Oppezzo che vi si annullò in toto, c’è chi fa la scelta opposta: tra vita e scrittura si preferisce vivere, nella convinzione che la vita e la ricchezza delle esperienze vincano su tutto e nella pia illusione che qualcosa degli scritti… comunque rimanga.

 

Twice betrayed

                                                           [Quartina di rima alternata]

Presto il mio volto non sarà più il mio,         a

nello specchio il suo doppio apparirà,           b         

e quell'alieno non sarò più io                         a

ma un altro inganno della verità.                   b

 

*

Le vague équipage

                                    [Sestina di 4 versi a rima alternata più 2 a rima baciata]

Quanto inutile spreco di dolore                     a

quanti fiumi di lacrime versati,                     b

quanto tempo perduto, quanto amore            a

dissolto, quanti sogni disperati...                   b

 

Equipaggio in approdo di fortuna                 c

sul deserto infinito della luna                        c

 

*

Kronos acharistos

(Al di là delle cose)

                                               [Sestina in forma di rima incrociata]

Nessun rinvio, né arresto                               a

concede, indifferente                                     b

a suppliche più tenere.                                   c

Il tutto anela al niente.                                   a

Conosceremo presto                                      b

la grazia della cenere.                                    c

 

In  Le vague équipage, lirica di intenso dolore, amo la forma contemporanea e cristallina per un tema infinito, proprio di ogni tempo. La nave come metafora di vita, dal sogno di Dante di Guido i’ vorrei a Passa la nave mia di Petrarca, Heine, Carducci. Il fluire del viaggio della vita verso il sogno dell’abbandono al nulla: bella la poesia contemporanea che si sposa alla classicità.

La scansione definitiva sta in Kronos acharistos: nella grazia della cenere la sintesi. Rendere, con la limpidezza sublime, la caducità del niente e del tutto che è l’uomo. Andare al di là delle cose, all’Oltre di Rilke.

 

I

                        (La voz deseada

                        Jorge Luis Borges)

                                               [Rime alternate e baciate]

Per forgiare la fiamma al calor bianco          a         

scrivo il lungo Poema dell'Attesa.                 b

Del mio inerme aspettare non mi stanco,      a

so che sarà comunque una sorpresa              b

la chiamata dell'angelo. Contratto                 c

l'arco del tempo si distende. Io fisso             d

il quadrante d'argento stupefatto:                  c

non ci son più lancette. Il cuore è scisso       d

in due lembi squarciati. La ferita                  e

sanguina ma non so chi l'abbia incisa           f

con tanta precisione. Resto in vita -              e

ma come? - la mia anima è divisa,                f

nell'identico modo, io sopravvivo                 g

solamente in virtù di ciò che scrivo.             g

Anima e cuore si ricomporranno                   h

alla chiamata, e svanirà ogni affanno.           h

 

*

II

                                               [Quartina di rima incrociata]

Attendere: la sola condizione                        a

concessa all'uomo nell'impermanenza          b

insensata tenace resistenza                            b

alimento della disperazione                           a

 

*

III

                                   [2 Sestine: gioco di rime incrociate inframmezzate da baciate]

Non ricordo un sol giorno della vita             a

che dalla muta attesa di un evento                b

non sia stato percorso o visitato.                   c

Un ritorno impossibile, un commiato,          c

il ritardo ad un primo appuntamento,            b

la vittoria a un finale di partita.                     a

 

Era un gioco col tempo, astratto, ignaro       d

d' alfieri o di cavalli. La scacchiera               e

non aveva pedine, le mie mosse                    f

erano lente, cieche, quasi fosse                     f

sottintesa la mia sconfitta, e vera                  e

solo la pena di un cimento amaro.                 d

 

*

XIX

                                   [Quartina di rima incrociata, più due versi in rima baciata]

... un battello che dall'imbarcadero               a

scivola lento, e attracca all'altra sponda,       b

poi tornerà allo stesso filo d'onda                  b

nel crepuscolo, timido e leggero –                a

questo è l'Evento d'ogni nostro giorno,         c

nonsenso di un'andata e di un ritorno            c

                       

Queste ultime liriche mi sembrano testi esemplari sotto diversi aspetti. Dal punto di vista metrico e ritmico in Non ricordo un sol giorno della vita trovo cura raffinatissima, con risultati di straordinaria eleganza: due sestine di rime incrociate sono inframmezzate da due coppie di versi in rima baciata. Spesso ritorna in Raffo l’uso della rima baciata. Mi chiedo come sia possibile che l’autore non cada mai nella faciloneria del verso cantilenante un po’ stucchevole (nella rima baciata in particolare). Credo sia effetto dell’uso affiancato degli enjambement, assai spesso presenti nella poesia di Raffo. Essi esorcizzano ogni eventualità di rischio filastrocca con un gioco di pause e di silenzi, che consegnano il testo a una consistente musicalità sana, mai banale, e ad una melodia, avvertibile, di grande effetto fonico.

Nella sestina ... un battello che dall'imbarcadero (rime incrociate, più due baciate) il simbolismo del nonsense del percorso umano sfuma nella leggerezza evanescente dell’immagine elegiaca dell’acqua nel crepuscolo e si perde così mirabilmente ogni senso di ribellione, amarezza e pena, che la vanitas vanitatum delle sorti umane porterebbe con sé nella cognizione della insensatezza del vivere, soffrire, lottare. In nome di che cosa? In fondo resta il nonsenso di un'andata e di un ritorno, eternato tuttavia dalla bellezza olimpica di un poeta, filosofo ed esteta.

 

Ianuarius

                                   [3 Quartine: rima incrociata, alternata, incrociata]

Quanti ragazzi accompagnai al cancello       a

di un giardino d'infanzia abbandonato          b

sapendo che l'avrebbero varcato                   b

illusi di un cimento ardito e bello.                 a

 

Quanti volti scomparsi nella bruma,             c

profili delicati in filigrana                             d

dissolti in grigia cenere. Consuma                c

i loro tratti una speranza vana                       d

 

ora che inevitabilmente sanno                       e

quanto c'è da sapere. Nello smorto                f

lume al cancello altri novizi scorto,              f

che al mio giardino non ritorneranno            e

 

*

Fleur de Lys

[Quartina in rima incrociata]

Fanciullo alato, a che ti rassomiglio?            a

Ha la tua grazia inquieta il lampo acceso      b

del cristallo - incantesimo sospeso –             b

l'immacolata nudità del giglio.                      a

 

*

(Fanciullo in treno)

[2 Quartine in rima alternata]

Un brivido fremeva intermittente                  a

al collo del mio piccolo capriolo –                b

gli occhi serrava, poi lo sguardo assente       a

al vuoto rivolgeva. Così solo,                        b

 

a chissà quale viaggio destinato,                   c

a quali campi e prati, a quali terre                 d

a cui non io, non io l'avrei scortato,              c

a quali inganni, a quali assurde guerre ...      d

 

*

Shining

[Quartina rima incrociata]

Della divina luce un solo raggio                   a

ravviva il buio. L’intima scintilla                  b

che nello sguardo innamorato brilla              b

del mio fanciullo angelico e selvaggio.         a

 

In questa serie di poesie campeggia la Bellezza, quella dell’Olimpo, dell’Eden pagano, della nudità senza peccato, l’immacolata nudità del giglio. Questi versi riportano istintivamente all’atmosfera di Sandro Penna: c’è la stessa candida ossessione, il desiderio gioioso, innocente e tormentoso dell’amore efebico. Raffo anche nel linguaggio, non solo nelle tematiche, palesa un’affinità con Penna, soprattutto nell’andamento limpido, classico, cantato. Questo linguaggio apollineo, che è carattere peculiare in Raffo – come ho già in precedenza rilevato – evoca nel lettore una grecità misurata e tradisce la cultura vasta, profondamente introiettata, dell’autore. Mi pare cosa rara, ai nostri giorni, e particolarmente ammirevole.

 

Ancora due poesie di questa splendida raccolta, quella iniziale e una delle finali.

 

                                                           [Versi liberi con una rima e diverse assonanze]

Il maggior tempo della vita ho speso

attendendo qualcuno che doveva

venire e non veniva

 

Mai non saprò se si sentiva atteso

con tanto amore l'ospite, e non credo

che l'opposto per me sia mai avvenuto

 

*

Il passato eventuale

                                   a Ginevra B.

                                    [4 Quartine in strofe in varia rima o assonanza]

Non gli eventi accaduti                                 a

nel passato reale                                            b

ma il fantasma virtuale                                  b

di ciò che non è stato ...                                 c

 

Gli amori non vissuti                                     a

un dono mai donato                                       c

i testimoni muti                                             a

del passato eventuale                                     b

 

È nel giardino spoglio                                   d

della tua Nostalgia                                         e

che un disperato orgoglio                              d

allevia l'agonia                                               e

 

"Non soffro più." Sorride                              f

l'anima inaridita                                             g

ma un marchio amaro incide                         f

la nascosta ferita                                            g

 

Leggo un collegamento tra i due testi pur in diverse pagine, iniziali e finali, e con tante sezioni in mezzo.

Nella prima, nella simbologia di qualcuno che doveva venire, una specie di Aspettando Godot, si affronta il tema della non reciprocità dei rapporti umani e del tempo cronologico che non aspetta e non segue i nostri tempi spirituali. Ci rimane il senso della ineluttabilità del vivere, che porta allo spleen, alla nostalgia indistinta per cose e persone: E sempre corsi e mai non giunsi al fine e dimani cadrò (Carducci, Traversando la Maremma toscana). I problemi esistenziali si perpetuano nei decenni.

Nel passato eventuale è presente il dramma umano del fantasma virtuale di ciò che non è stato. Il problema di non aver fatto abbastanza, di non aver vissuto abbastanza, riporta il tema della non reciprocità, dell’incomunicabilità, mia verso altri o di altri verso di me, fa lo stesso. L’anima è ferita comunque e rimpiange il tempo sciupato. Stessa pena, stesso senso di ineludibilità nelle due poesie, di irrimediabilità. Ormai è tardi.

Il procedimento inizio-fine libro è quindi circolare: si ritorna al punto di origine perché non c’è soluzione plausibile.  È un rompicapo assurdo il percorso dell’uomo, lo è per ogni essere umano, ma in particolar modo per chi soffre di più, in quanto essere dotato di maggiore sensibilità, consapevolezza, capacità di elaborazione del pensiero.

 

 

 

 

domenica 14 novembre 2021

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: "La direzione del silenzio" di Salvatore Contessini (Ed. La vita felice, 2021)

Il poeta, Salvatore Contessini, è un architetto di studi e di professione, ma basterebbe sfogliare il suo straordinario ultimo libro La direzione del silenzio senza neppure leggere una riga per rendersene conto nell’immediato. Colpisce già straordinariamente l’interessante struttura architettonica dell’opera, originale, inconsueta, che fa da cornice irrinunciabile al contenuto poetico. C’è una armonia sottesa che conduce il lettore a penetrare, attraverso le varie tappe, nell’intero percorso dei testi: si è quasi tenuti per mano dall’autore, forse sincero come mai prima in precedenti suoi volumi, perché stavolta si mette a nudo come poeta, ma soprattutto come uomo. Vuole farci capire, con la genesi dell’opera, il suo reale travaglio interiore, una penosa forma di smarrimento, che sfocia alla fine nella rinascita di un sé poeticamente nuovo, nella gioia del ritrovamento dell’armonia interiore attraverso forme rinnovate di creatività e di sentire. Non avrebbe senso il libro di poesie senza l’introduzione di Contessini stesso: senza reticenze, in meravigliosa concisione – ove ogni parola ritrovata, non solo poeticamente ma anche in prosa, è quella ‘giusta’, direbbe Flaubert – confessa al lettore quello che per un poeta è un dramma:

scopro la perdita della parola, il suo esaurirsi nell’inaccessibile, l’impervio suo utilizzo che dissolve la vena creativa e porta al silenzio totale, afono di significato, algido di suggestione. Ho scoperto così la perdita del canto, lo smarrimento poetico che non trova più il senso, l’arido deserto…

 

e poi la ricerca e l’affanno di un progetto nuovo, nella speranza del dono di parole rinnovate, in suono
rarefatto, di ieratica sostanza, scarne, essenziali di significato ma ricche di significante, valenze che vengono dall’oltre, misteriose, enigmatiche forse, come misterioso ed enigmatico credo sia il percorso esistenziale dell’uomo sotto ogni latitudine. Questa poesia è partorita da un silenzio che si credeva vuoto, sterile: originava infatti sofferenza e pena, era la matrice invece da cui la voce interiore spezzata trovava nuovi accordi, dove nascevano speranze di trasformazione, dove i frammenti dissonanti trovavano completezza armonica. Nasceva quasi da sé, nel poeta che non scriveva più, il canto nuovo della rinascita della poesia.

A questa meravigliosa introduzione dell’autore ho dato grande spazio non certo a caso ma, in primo luogo, perché penso sia irrinunciabile leggerla e rileggerla per penetrare a fondo nella poetica che sta alla base di questa silloge e, in secondo luogo, per egoismo del tutto personale, perché mi ha fatto bene percorrere e ripercorrere con Contessini quelle che sono state, anche per me, le circostanze di perdita della parola poetica, mancanza tanto più grave in quanto in essa consiste la mia forma privilegiata di comunicazione col mondo.

 

Le tre sezioni del libro di Salvatore Contessini corrispondono ai tre momenti dell’intero suo percorso:

 

RIPRESA, dopo il periodo di limbo dell’anima:

 

Era il silenzio a nutrire la mia anima.

Prima ancora, la parola necessaria

l’alimentava.

 

Arido vuoto

Ho perso il vento amico

che bisbigliava versi

ora che riparato all'aria

sono una stella spenta

in un silenzio siderale.

La sabbia immobile di dune

attende la tormenta

profili di passaggi

svolti nel silenzio.

 

*

Estetica del silenzio. Quadro due

Parole non ancora nate

spingono all'uscita dal nulla

dal rumore d'esistenza

ma non dal suono.

Cercano minuta percezione

che scaturisce dal silenzio.

Melodiche trasformazioni

di foniche materie

tra gli equilibri estesi

di frequenze sconosciute

e le sonorità perdute

carenti di attenzione.

 

*

Monile

Sono io stesso

la materia del mio libro

l'abrasione scoperta

nell'ordine dell'inimmaginabile

la sorpresa del silenzio

che diviene

oro di quiete.

 

*

Divisionismo

Niente vale sempre e ovunque,

questo ho appreso.

Il mondo da vicino

è come un quadro

fatto di quantità discrete

di colore e spazio

che da lontano

raccontano legami.

Chiama la terra

ma è solo il cielo che solleva.

 

La seconda sezione, MINIMALIA, vede la parola ritrovata nella sua essenzialità, ma anche nella sua forza evocativa, fortemente mentale ma, nello stesso tempo, misteriosa, spesso onirica. Parola creativa di per sé, particolarmente nelle ore dei sonni notturni o nei silenzi lunghi delle ore di veglia e di insonnia.

 

Superbia

Non tutto mi arriva alla vista,

di più riesco a immaginare.

Così lo scrivo in versi

anche per chi non vede.

 

*

Sogni

Torna quel cosmo di miraggio

con densità di vita propria

e la domanda stravagante

sulla realtà dell'esistenza.

È qui che incontro esseri notturni

insoliti racconti con filmati,

la cupa notte ad occhi chiusi.

Al mio risveglio

annaspo nel ricordo

e il cambio di stagione

rivela scempio.

 

*

Scorrimenti

Ci sono orologi privi di corda,

segnano un tempo che non è.

Sono la sintesi di tempi morti

o meglio: la raccolta di quelli persi.

Dimenticati o conservati

addestrano la spinta al cruccio.

 

Spero venga perdonata la mia predilezione a questo tipo di testi; mi ci ritrovo particolarmente e conseguentemente la mia adesione è totale. La poesia vive di raccordi, di strane vicinanze tra testi di autori diversi e allora, grazie alla lettura, corrono le memorie a somiglianza di situazioni, di stati d’animo, ne derivano corrispondenze di testi poetici. A me è capitato, ripensando in particolare a certe mie poesie che presentano forti analogie mentali ed emozionali.

 

La terza sezione, FRAMMENTARIA, è introdotta da una lapidaria, quanto realistica, sentenza:

Lo sguardo crudo del silenzio

promuove spazio sconosciuto

In effetti le poesie di questa sezione sono frammenti di estrema sintesi, forme quasi di aforismi, ma non sono noiose come gli aforismi in genere sono; queste brevi sentenze fanno volare in alto: sono poesie, solo in seconda istanza portano a una riflessione sulla realtà concreta.

 

Numeri estremi

Sono nato da una somma

e mi ritrovo differenza.

 

*

Fuso

Il mio complesso appagamento

genera la forma del cristallo.

Ghiaccio dissolto al caldo della luce.

 

*

Mutazioni

È sull'orlo della notte

quando il rumore tace

che le parole cambiano verso.

 

*

Explicit

È tempo di consegna dei raccolti,

è il corso nuovo che bussa nel progetto.

Recapito nel flusso del passato

un pacco senza nome,

a labile memoria un seme

per terra di domani.

 

L’architettura di questa silloge viene ultimata da una serie di note di lettura a firma di ben  sei poeti e critici, tra i più sensibili e noti della contemporaneità: Agnese Coppola, Anna Maria Curci, Cinzia Marulli, Luigi Camillo, Antonio Fiori, Giuseppe Vetromile. Sono annotazioni che forniscono un’indicazione alla lettura di grande acume e costituiscono un’interessante, quanto competente, guida all’avvicinamento ai testi. In particolare, tutti questi autori hanno enucleato con sapienza le sfaccettature del silenzio coltivato nel libro. C’è l’affezione al silenzio che offre un’infinità di direzioni all’estensione della parola, c’è l’ambizione di un silenzio che, da vuoto di parole, perdita sofferta temuta come irreparabile, diventa l’unico possibile strumento per “affinare lo sguardo e temprare il dettato poetico” necessario attraversamento, tramite il fare deserto in sé, 2dell’aridità temuta ed affrontata”.

Le parole, scandite dal silenzio, esaltano il quadro poetico nella sua pura essenzialità. Ogni parola diventa carica di senso. Insostituibile e preziosa, si fa messaggio in un libro che è stato definito “di sorgente… in quanto contiene l’acqua cristallina del ruscello emersa dal buio delle profondità… In questo libro troviamo non solo il percorso ma anche il senso nuovo e rigenerato dell’esistere”. È stato detto che in Contessini “la parola è sostenuta dall’equilibrio tra parola e silenzio”, anzi la poesia si fa forma del silenzio.

 

Personalmente, in sintesi, ritengo che, come deve essere in poesia, la parola – anche quella estremamente concisa – deve aprirsi a sortilegio, a evocazione, a mistero. Nella suggestione talora enigmatica di Contessini, il lettore ha modo di perdersi, di pensare, di sognare, di riflettere sui suoi di silenzi e forse di ritrovarsi diverso, certo più vitale e costruttivo. L’esperienza dell’autore diventa così sapienziale: è quella della struttura ontologica dell’uomo, che emerge da momenti di buio dell’anima e dalla perdita dei ‘fondamentali’ della vita per riprendere, al termine della notte, con maggiore forza e consapevolezza.

Del resto bisogna perdersi per potersi ritrovare: molto spesso nell’esistenza capita così.