domenica 25 aprile 2021

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: "Quello che non so di me" di Antonietta Gnerre (InternoPoesia 2021)

foto di Rino Bianchi
Se è vero, come dice Platone nel Fedro, che esistono misteriosamente cantori che sono baciati dalle Muse e hanno per noi, comuni mortali, il compito di interpretare un’oscura, composita, divina bellezza, la poesia e da Mnemosine hanno il dono di poter scegliere e celebrare solo quello che è degno di essere ricordato a futura memoria, facendolo permanere oltre il proprio tempo, ebbene, mi pare che ai nostri giorni Antonietta Gnerre abbia in sé questa  prerogativa rara.

È dono di pochi il fare ‘fiorire’ nel mondo la poesia, che nasce magicamente in modo oscuro dentro un poeta e si trasferisce, in modo ugualmente misterioso, al lettore. Egli magari non capisce esattamente l’assunto, non sarebbe in grado di riassumere il testo con precisione, ma ne penetra il senso quasi inconsciamente, lo percepisce  nell’intimo ad un punto talmente simbiotico da sentire all’unisono col poeta, anzi da ritenere che ‘quella’ poesia sia stata scritta per lui o, meglio ancora,  che sia totalmente cosa propria, gli appartenga nel profondo, descriva in forma figurata i suoi stessi stati d’animo nei percorsi, sempre diversi ma pur sempre uguali per sommi capi, dell’esistenza umana.

Faccio riferimento, andando forse troppo a ritroso, al pensiero di Platone, perché mi ci riporta la poetica di Antonietta Gnerre: Mnemosine costringe il tempo a piegarsi alla parola, anzi a fondersi con lei. Quando la poetessa scrive che gli anni non raccontati si perdono, non permangono e sfumano, entra nella logica platonica: tempo e poesia devono vivere insieme in rapporto di necessaria relazione. Come dice bene il prefatore Alessandro Zaccuri, la logica del rapporto tra tempo e parola è tale che “l’uno preserva l’altra, che di quella stessa tutela si sostanzia”.


Questa ‘divinità’ della poesia che, dalla notte dei tempi platonici, arriva ogni tanto con metri e stili adeguati al mutare dei periodi storici e delle forme espressive, non è cosa comune. Molti poeti oggi sanno scrivere bene e certo arrivano al lettore, ma troppo spesso più in discorsi intellettualistici, letterari, che al cuore. Resta spesso un senso di disagio, di incompiutezza, di mancata verità in chi legge e questa impressione di insoddisfazione è dovuta, credo, proprio a carenza di autenticità. In questo la discriminante. La poesia nasce da un modo di essere autentico, senza filtri, senza riserve: se c’è costruzione letteraria un po’ a tavolino, il lettore attento se ne rende conto. Ne deriva un senso di bellezza fredda, quella di un’anima celata, che pone le sue riserve e non ha il coraggio di apparire nella sua nudità.

Questo coraggio la Gnerre ce l’ha in toto, perché vive di poesia e all’interno della sua poesia, calda, vibrante, consapevole.

 

La sua ultima raccolta consta di una quarantina di testi: non sono moltissimi, ma sono così densi e compiuti, uno per uno, che ho difficoltà a operare una scelta antologica per proporli. Essendo tutti mirabili (si notano la cura e l’attenzione alla revisione puntuale da parte dell’autrice), la scelta si basa puramente su criteri di opportunità pratica di sintesi, di immediata facilità di coinvolgimento del lettore. Ma ogni testo è prezioso, lo ribadisco.

 

Dalla sezione La misura dei nomi:

 

a nonno Giovanni

Costruiva gli aquiloni guardando le querce.

Le pareti dall'anticamera

si spogliavano sotto il peso delle ghiande.

E ciò che diventava invisibile fermava il tempo.

Mi piaceva la scossa che subiva la sua mano sinistra.

La carta colorata tagliata a triangolo, il rosso decifrato dal giallo,

il blu che riappariva sul biancore delle pareti.

Gli asticini legati a croce a formare ombre di ciglia.

Poi l'attesa del volo contenuta in metri di filo,

l'erba sotto i piedi.

La forza della mano destra, l'intera nuvola sopra di lui.

Nonno pregava il centro esatto del cielo.

 

*

a mio figlio Mario

Quello che mi piace del tuo nome

è ciò che non è stato nei secoli.

Da bambino ti svegliava

quando non sapevi parlare.

Quando non conoscevi i numeri.

Lo ascoltavi in silenzio

prima di aprire gli occhi,

prima che lo smalto di una nuvola

diventasse grigio.

Lo so: hai bisogno di saperti in questo nome.

Di indossarlo come fosse seta,

straccio, riparo momentaneo.

Quel suo stare con te

moltiplica i tuoi pensieri.

 

Dalla sezione Mi dichiaro colpevole:

 

Non sono pronta a dirmi addio.

La gioia di quel poco che ho imparato

 

mi riporta al primo giorno.

Oltre ciò che sono.

 

L'allenamento che ripeto per trattenermi

l'ho imparato a fare da bambina.

 

Smetto di riconoscere il vento.

Muore un tulipano, la mia foto,

il libro che avevo sul comodino.

 

Il mare mi educa al silenzio.

Guardo l'azzurro che non c'è.

Gli alberi mutano in forma di ricordo,

anche loro non sono pronti a dirmi addio.

 

*

Se non ho saputo trattenerti

è perché gli anni in cui siamo stati

non li ho raccontati.

 

Nessuno ha spiato i nostri sguardi,

le stagioni degli abbracci.

I verbi degli aceri in un giardino.

 

Ho incorniciato nel presente tutti gli errori:

quadri alla parete del mio silenzio.

Ogni notte divido gli abiti che indosso

da ciò che sono prima di dormire.

 

Dalla sezione Futuro semplice:

 

Le ultime gocce stanno cadendo

 

alcune siedono accanto ai granelli nella mia mano,

altre nel tronco centrale di una betulla.

 

Sai, siamo qui per misurarci nelle cose create

per imparare a numerare le noci,

 

come fanno i contadini.

O a portare via i dolori dalle pietre.

 

Ora le luci del cielo sembrano sveglie.

Solo tu stai contando le particelle invisibili,

ferme nei mestoli di rame.

 

È come se tu potessi sentire tutta la somma del tempo.

 

Dalla sezione Muscovite:

 

Chiedo alla poesia,

adesso che ti attraversa come una luce,

 

di consegnarti l'immagine vera di me

come la vita di una pianta.

 

Rileggerai tutti i versi che ho sottolineato.

 

Non mi nasconderai più come un segreto.

Guarderai la vocazione della mia povertà,

 

il mio ultimo risveglio.

 

Ecco, vorrei che le poesie della mia vita

ti fossero amiche.

 

Che il tralcio che ora stai fissando

fosse immortale come ciò che ho letto.

 

Tutte queste liriche della Gnerre partono dalla concretezza della vita, pur arrivando alla generalità dei problemi e delle persone, che si ritrovano in situazioni e sentimenti, proprio in quanto esseri umani pensanti e senzienti: ritroviamo l’amore per certi aspetti della natura che, quasi in un antropomorfismo di corpi e anime, si vivificano con la nostra interiorità. Siamo noi a identificarci con elementi naturali o loro con noi? Spesso sono nuvole, spicchi di cielo, scaglie di arcobaleno, steli di fiori, rami di piante, voci di vento, un tulipano che sparisce, “i verbi degli aceri in un giardino”.

Del resto        

siamo qui per misurarci nelle cose create

per imparare a numerare le noci

come fanno i contadini.

O a portare via i dolori delle pietre.

 

Fin qui abbiamo considerato componimenti appartenenti tutti al genere lirico, che partono dunque da un’effusione di stato d’animo personale ma si aprono, come è giusto che sia, ad una condivisione universale.

Termino invece queste mie brevi annotazioni con un forte testo civile, di tono elegiaco e commovente, ma di notevole spirito di invettiva e di rivolta nella sostanza, che si evince tra le righe. È la vergogna di un’America cosiddetta civile, che nel 1944 condannò, nella Carolina del Sud, alla sedia elettrica un ragazzino quattordicenne afro-americano: George Stinney.

Era stato accusato del duplice omicidio di due bambine bianche, uccise con un colpo in testa di oggetto contundente, ma non sottoposte ad altro tipo di violenza. Nel 2014 la condanna venne annullata, nella revisione del processo richiesta dalla famiglia, in quanto il processo era stato viziato da molte irregolarità: al ragazzino terrorizzato era stata estorta una confessione e l’esecuzione capitale di un quattordicenne costituiva punizione mai avvenuta prima, proibita peraltro dall’ottavo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Il processo, di un solo giorno, si era risolto con dieci minuti di camera di consiglio, senza garanzie sufficienti per la difesa.

Erano anni di intollerabile razzismo, di violenza e discriminazione razziale, soprattutto negli stati del Sud.  I neri andavano bene a servire e a combattere nelle guerre degli Stati Uniti d’America ma, come gente di serie B, non godevano concretamente di diritti civili e neppure, a quattordici anni, della possibilità di ottenere un processo equo: ma di morire  indifesi sulla sedia elettrica, sì.

 

a George Stinney

Dalla sua prigione contava i giorni.

Anche se faceva caldo,

il suo corpo ringraziava

le stagioni che stavano per scomparire.

 

George aveva quattordici anni.

Ed erano lontani i nascondigli

di quando era piccolo.

 

Nella cella non c'era traccia di natura.

Di una difesa come avrebbero voluto le montagne.

I rami lo cercavano per giocare,

per contemplare i ritornelli dei soffioni.

 

Quel giorno la bibbia

che portava tra le mani

pesava più del mondo.

 

Le fibbie erano enormi per i suoi polsi

per le sue caviglie.

Il casco della scarica elettrica

era troppo grande.

 

Poi il boia ne attivò una

due tre scariche.

La sua innocenza

diceva addio al mondo.

 

Da quel momento

sua madre non ha mai più sorriso.

 

George quel giorno non morì,

si fermò sulla stella Sirio.

 

Da settant’anni ci illumina.

Ci protegge.

 

Ora un giudice ha annullato la sua condanna a morte.

Lui continua ad illuminarci.

Osserva i pensieri di chi è innocente.

 

 

 

 

 

 

domenica 11 aprile 2021

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: "La sete della sera" di Agnese Coppola (La vita felice 2021)

L’ultimo libro di Agnese Coppola rivela nel titolo La sete della sera il legame poetico e affettivo con la poetessa argentina Alejandra Pizarnik, di origine ebraico-russa, che è stata definita “poetessa dell’assenza” proprio come la sua amica Cristina Campo, che le scriveva in una lettera: “Bisogna fare deserto di sé e del mondo per vivere, nel mondo essere deserto in faccia agli uomini che ci vedono ma non vedono… bisogna calarsi nel sottosuolo di  sé”. L’oscurità, che permette di fare chiarezza paradossalmente molto di più della luminosità distraente, è un elemento costitutivo della poesia della Coppola.

La notte era in effetti entità particolarmente cara alla Pizarnik, che scriveva:

 

La notte sembra sapere di me

            e in più mi cura come se mi amasse

            mi copre la coscienza con le sue stelle…

 

e altrove, nella poesia Incontro dice:

 

Tu parli come la notte

            ti annunci come la sete

 

Ecco quindi la rivelazione del filo rosso che lega a distanza di decenni le due poetesse, Pizarnik e Coppola, in questo titolo suggestivo La sete della sera, che riecheggia i versi succitati. Per entrambe queste anime sensibili, attraverso la concentrazione della parola poetica, nel confine tra luci e ombre, tra giorno e notte, sta il tentativo di avvicinarsi al mistero che ci avvolge nell’esistenza. È una sete di ricerca di sé e del mondo, di conoscenza, che avviene non alla luce, cioè in forma razionale e logica, ma viceversa intuitiva, umbratile, incerta. È importante raccogliere anche le malcerte voci esterne a noi per riportarle dentro di noi e lavorarci sopra, magari nella solitudine ovattata della notte, per scoprire chi siamo, ma soprattutto cosa vogliamo essere, quale la nostra ‘qualifica’ reale, quale ruolo vogliamo impersonificare nei mutamenti continui e nella precarietà delle circostanze della vita. La pienezza della parola diventa per il poeta guida, certezza dell’esistere e del sentire.

È qui forse la chiave di lettura dell’essere e la possibilità di restare al di là di ogni traversia esistenziale. Ma la parola poetica è anche immaginifica, va al di là della concretezza dei sensi, favorisce la scoperta di un mondo parallelo, tra finito e infinito, adeguato alla nostra sete di metafisica, in cui scoprirci forse più autentici, più coincidenti con la nostra realtà interiore o, comunque, col nostro obiettivo di arrivare prima o poi a questa limpida, totale, credibilità.

 

Ho avvicinato fin qui per alcuni aspetti oggettivamente rilevabili (il titolo del volume della Coppola fa fede) Agnese alla Pizarnik, ma c’è, nella sostanza, una incommensurabilità tra le due figure: l’argentina è un’anima fragile, battuta da inquietudini insanabili, da abissali squarci interiori; Agnese Coppola è una donna consapevole e ardita di oggi, un’autrice che “sa dove arrivare e come arrivare. La sua è una poesia lontana da gesti inutili” come giustamente sintetizza la curatrice della collana di poesia italiana contemporanea della Vita felice, Diana Battaggia.

Essenziale, determinata, consapevole la parola di Agnese: questa decisa autocoscienza della donna d’oggi si palesa fin dalla dedica, perché tutto sia chiaro: “A me, per amore”. La donna Agnese non solo si accetta, ma vuole bene a se stessa, così come è determinata ad andare avanti senza mai rinunciare a se stessa. E subito nella prima pagina, dopo il titolo dell’opera, troviamo scritto a mo’ di enunciazione programmatica:

            Nella vita mi hanno detto:

            ‘rinuncia ai sogni’.

            Ho risposto:

            ‘sono io i miei sogni’

È una poesia di ombre, ma spesso di luce (ritorna nei versi il colore bianco luminoso), di immagini trasfigurate, di un vitalismo coinvolgente che nasce dalla fusione di elementi che proprio dall’eccesso o dalla contraddizione trovano una loro forma di equilibrio. È una parola poetica multiforme, talora amica, altre volte inquieta, dirompente, talvolta vero punto di rottura, specchio di abissi interiori destabilizzanti. L’essere è bifronte, la poesia “schiude l’apertura tra mondo e parola”: noi stessi peraltro non sappiamo bene chi siamo, lo specchio ci rende un’immagine falsata: “il vetro è una ruvida ferita”. Lo specchio è senz’anima.

 

Un pomeriggio sarò

davanzale disteso di luce

verrai merlo di neve impazzita

la giornata respira.

 

Tu lo sai

il vetro è ruvida ferita

non basta portare

su un lato le tende.

Il tempo rimane tessuto

dallo scuro scucito.

 

*

Pesante è la coltre del silenzio

fugge per non incontrare

la sua faccia.

Tienimi,

da lontano vicino al cuore.

Tienimi, tienimi,

tu tienimi

ancora una notte

e avrà un respiro lungo

anche il silenzio.

mele carnali

 

San Pantaleo, Sardegna

 

Intorno le ombre suonano

accordi confusi strumenti

io danzo nei tuoi occhi

tu inciampi sulla mia bocca

tra le mani ventagli di parole

portate via dal vento.

 

E la luna accesa gioca

tra le tasche delle montagne

a nascondere le guance.

 

*

Mi ostino. Dico. Buona notte

sono coriandoli le stelle

grattugiate nella notte.

Le falde faglie a parola

tra i denti battono

Senti. Lo schianto. Il Silenzio.

Gli angoli di luna

affettano gli occhi.

Le costellazioni sono lì

da anni e noi siamo

briciole di pane quotidiano,

Dio mastica l'infinito

e ci sputa.

Ho appeso corde

ai bottoni del cappotto

Ho cucito gli avanzi

che l'universo mi deve.

 


L'amore non è un interruttore

 

ON OFF

OFF ON

È una stella fissa

anche quando il cielo

la oscura

con il bagliore del giorno.

L'amore è un dono

che fai al mondo

anche quando lo lasci andare.

 

Lo specchio è senz’anima. Noi siamo altro, sentiamo di essere altro, ma chi? Sicuramente non figlie di Eva quanto di Lilith, la moglie ribelle di Adamo che osò ripudiare, lei, l’uomo e, con la rinuncia alla maternità, una vita già prefissata anche fisiologicamente.

È evidente la conoscenza di Agnese, nonché la sua adesione, al poemetto della poetessa libanese contemporanea Joumana Haddad, Il ritorno di Lilith. Quest’opera, simbolo attuale dell’emancipazione femminile, anche sessuale, canta la mitica donna che prende in mano il proprio destino: ella sa manipolare il mondo maschile con la trasgressione, con una sensualità che non conosce regole né limiti, assumendo un potere disinibito, provocatorio, assoluto. Il fascino della figura leggendaria di Lilith, che ebbe l’ardire di perpetrare il primo divorzio della storia umana, rifiutando Adamo e la vita coniugale, è presente in certe poesie più orgiastiche e sensuali di Agnese che la fanno avvicinare a certe voci del mondo mediorientale contemporaneo. Penso non solo, come si è detto, alla libanese Haddad, ma anche a Maram al Masri, siriana, e soprattutto a Zhabiya Khamis degli Emirati arabi, il cui linguaggio, impudicamente esplicito, si apre più specificamente a sostenere i diritti delle donne tuttora calpestati.

Trovo stimolante, per concludere, accostare la poesia su Lilith della Coppola a un brano tratto da Il ritorno di Lilith della Haddad sulla stessa mitica figura [da: AA.VV., Non ho peccato abbastanza - Antologia di poetesse arabe contemporanee, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2007] anche per avere un confronto, su analogo tema, relativo a voci femminili di diversa area geografica, pur legate entrambe al Mediterraneo e alle rivoluzioni culturali delle donne d’oggi.

 

            Agnese Coppola

 

Ho sputato chiodi

dall'imbuto fornace dei miei sensi

anche Dio è passato da lì.

 

Sulle rive del Mar Rosso

sparso l'ultimo sale

mi sono spogliata della corteccia dell'altra.

 

Donna non sai, io sono Lilith

e tu sei figlia di un doppio parto

croce e spillo di due lune.

 

Dal secondo pallido legno hai ereditato

il talamo supplice ai piedi

di un crocifisso a profilo di costole.

Ma l'uomo invocherà il mio ritorno

nel riflesso flesso degli occhi di Eva,

lei ha mammelle di latte per nutrire carne

e carne da tronco a germogli

che lo escludono,

ci poserà la giacca a sera.

 

Non saranno le tue labbra

a tenerlo nel letto

saranno gli altri venuti da te.

 

Nell'abisso del ventre incompiuto

la mia lussuria gonfierà

la polvere del suo sesso

spaccate le radici del peccato

si consumerà in me:

io sono Lilith, la prima donna

io sono ventre in cui

non è vergogna

io sono la tempesta.

In omaggio a una scultura di Silvano Bulgari

 

Joumana Haddad

 

Io sono in cammino.

Indosso una nuvola ogni notte e viaggio.

Solo io mi dico addio

e solo io mi accolgo.

Il desiderio è il mio cammino e la tempesta la mia bussola

in amore non getto l'ancora in nessun porto.

Di notte lascio gran parte di me stessa

poi mi ritrovo e mi abbraccio appassionatamente al ritorno.

Gemella del flusso e del riflusso

dell'onda e della sabbia

dell'astinenza della luna e dei suoi vizi

dell'amore

e della morte dell'amore.

Di giorno

La mia risata appartiene agli altri, ma la mia cena segreta

mi appartiene.

Chi comprende il mio ritmo mi conosce

mi segue

ma mai mi raggiunge.

 

Da quanto annotato spero si possano intravedere la ricchezza di registro e la vastità di tematiche della poesia di Agnese Coppola, che si pone tra le voci più giovani e interessanti della nostra poesia contemporanea. Vorrei che da qui si originasse una curiosità stimolante a prendere in mano questo libro e… nella sera, casalinga per pandemia, si estinguesse nel lettore una buona dose di questa sete di bellezza e di poesia.

Marvi del Pozzo