mercoledì 24 marzo 2021

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Filo spinato di Alessandro Fo (Einaudi 2021)

Quando, in seguito alla predilezione per la poesia di Alessandro Fo e per la simpatia umana che provo per la sua persona, ho deciso di occuparmi del suo ultimo volume di versi, Filo spinato, appena uscito per la mitica ‘Bianca’ dell’Einaudi, non potevo supporre in quale ginepraio potesse cacciarsi un relatore che intendesse offrire del libro uno sguardo di completezza e neppure immaginavo il senso frustrante di inadeguatezza che mi sarebbe crollato sul groppone. Faccio mie, per dare un’idea, le parole che un giorno il pittore Juan Gris ebbe a dire sul libro che Vincente Huidobro gli aveva dedicato, Poesie artiche: “è troppo bello per me, non riesco a penetrarlo”.

Non è che non si riesca a penetrare la poesia di Fo, che anzi è di struttura accessibile ad ogni persona dotata di un minimo di sensibilità e di gusto estetico, ma è la complessità dell’insieme che disorienta, la pregnanza e la varietà delle problematiche umane, trattate tutte come protagoniste indiscusse del libro, mai comprimarie, ma ugualmente meritevoli di attenzione particolareggiata. Ogni sezione del libro richiederebbe pagine e pagine di osservazioni puntuali: una minima parte riguarda la natura prettamente stilistico-formale, ma di portata invece più impegnativa è quella relativa alla globalità sostanziale della vita e del pensiero dell’autore: si tratterebbe di aprire discorsi di filosofia, di psicologia sulla natura umana, sull’entità uomo-poeta, sull’autocoscienza, sulle scelte nel vivere e, forse, sull’idea del morire.

La lettura ha suscitato in me una forma di affetto immediato per questo libro, la gratitudine per qualcosa di cui si prova interiormente l’assoluta necessità, perché prima se ne sentiva la mancanza. Come sempre avviene per la migliore poesia, sono situazioni non logicamente spiegabili, ma intuitivamente chiare: Filo spinato è un ‘exemplum’ per me, cioè un modello esemplare di come debba essere una poesia contemporanea e a quale bisogno attuale e autentico del lettore risponda. Non faccio un discorso estetico-formale, che pure ha il suo peso, visto che è la forma a caratterizzare il genere letterario poetico.

Non è questo a colpirmi in modo precipuo, quanto la lucidità che lo stile ha nell’agevolare la trasmissibilità dell’oggetto del dire, il contenuto globale, che è il ricco mondo interiore ed esteriore dell’autore. È incredibile come questo insieme di avvenimenti di testa, di cuore, di stile nel dire si trasferiscano in forte adesione sentimentale in chi legge. Io credo che questa immedesimazione da parte del lettore possa avvenire solo quando gli venga trasmesso – quasi da anima ad anima, nel profondo e nell’immediato – un messaggio autentico, reale, senza calcoli letterari, direi senza difese, senza finzioni. Sembra un discorso un po’ peregrino, ma una come me, che bazzica poesia da tutta la vita e scribacchia pure, un po’ del mestiere quindi, si accorge subito, oltre che della qualità dei versi, della sincerità di asserzioni e sentimenti o, viceversa, dei mezzucci letterari di cui a vari scopi ci si serve troppo spesso ai nostri giorni: l’effetto della poesia nei due casi sul lettore è ben dissimile, lo posso garantire.

L’umanità quotidiana della gente ‘comune’, unita all’incanto della trasfigurazione della normalità tramite la poesia, la semplicità caratteriale dell’autore e la sua sapienza accademica, i tanti riferimenti culturali (che sarebbero talora ardui da scoprire, se l’autore pietosamente non li svelasse al lettore al termine del libro) sembrano talora entità incommensurabili, per usare termini matematici; ma allora per quale arcano questa poesia trova equilibrio, composizione, armonia? Forse è proprio così composita la materia del vivere, la vita stessa, che, come la poesia e le arti in genere, prende il suo respiro dal sanarsi degli opposti: ogni pacificazione avviene per lavorio di sintesi, per composizione di contrasti.

 

Nelle sezioni del libro scorre il fiume della vita quotidiana semplice o, meglio, banalmente eroica come quella di tutti noi. Ci si ritrova appieno in questa scrittura chiara, gentile, discorsiva, ma non di meno aristocratica (parlo ovviamente di aristocrazia dello spirito).

Delle tre sezioni: Ingannare il tempo – Muto carcere – Dei sepolcri again non posso che dare in questa sede solo un assaggio: vi sottoporrò alcuni testi, scelti unicamente in base a suggestioni personali. Sulla sezione  Muto carcere, scritta in seguito ad attività di volontariato da parte dell’autore in istituti di pena, forse scriverò dell’altro più avanti: vorrei coinvolgere una poetessa torinese, operatrice culturale, Cinzia Morone, che opera mirabilmente nelle carceri femminili della città da molti anni. Vorrei che la poesia di Fo si facesse vita reale negli stessi ambienti difficili di altra città (Torino) e da questo potente stimolo poetico, che è Filo spinato, si portasse avanti – comunitariamente, magari – un piccolo aspetto di quell’Oltre di cui parla Rilke, in una condivisione reale di situazioni e di poesia.

 

E ora alcuni testi: pochi, purtroppo, ma spero bastanti ad alimentare negli animi la voglia di bellezza e di emozione che questo tipo di poesia suscita.

Sul tema delle cose della vita, sui pensieri della notte, sulle memorie che uniscono vivi e morti:

 

Doni

 

Nella notte d’estate  appena  tiepida,

ma quanto basta a aprire  la  finestra

sul silenzio di stanze e luci fievoli,

anche se è tardi d’improvviso un’elica

fa la sua rotta verso l’eliporto.

 

Non ha orari il trapianto.

 

E in volo nel ricordo

c’è casa tua sulla linea del «Pègaso»,

cavallo alato che, nei nostri giorni,

serve gli eroi nel trasporto degli organi.

 

Se per caso ne avvertivi l’elica

balzavi su e correvi alla finestra

presa da affanno e improvviso sconforto.

 

E anche se tacevi

sapevo che avvenire avevi in mente,

disposto a testamento.

 

«Io che, da viva, non servivo a niente,

servirò a qualche cosa almeno morta».

 

Nota: come saggiamente ci chiarisce l’autore, “Pegaso” è l’elicottero per missioni di soccorso e trasporto di organi per trapianti urgenti.

 

Un vecchio scatto della Nobil Contrada del Bruco

 

Dopo la cena, ecco Mario e Giovanna

mi fanno un quiz. Mi mostrano una foto

di un tempo: bimbi con uova pasquali.

«Riconosci qualcuno?» E io la scruto

fila per fila… «Mah… Forse… è Mario questo?»

«Mario, tu dici?» «Aspetta… No, è Simone!

Ma sì! È Simone, certo, è lui, lo stesso

disegno d’occhi, naso, sopracciglio,

anche i capelli, il suo solito taglio».

 

Simone fu il loro unico figlio.

Morì ragazzo, a ventidue anni

il 10 agosto del Novantasei.

 

«Esatto!… Però è una foto nel Bruco

scattata per la Pasqua del Sessanta…

Capisci? È un bimbo che avrà nove anni,

e dunque è nato nei primi Cinquanta…»

«… Non è Simone?… Eppure è il suo ritratto…

Chi è?» «Non lo sappiamo.

Stiamo cercando chi l’abbia conosciuto,

un qualsiasi contatto,

fra gli altri della foto.

È così uguale. A trovarlo, vedremmo

come sarebbe

nostro figlio cresciuto».

 

Poesia dell’amore commovente e di un dolore genitoriale che non trova tregua nel tempo. Il coinvolgimento emotivo ci prende con la semplicità del discorso diretto. Parole quotidiane e linguaggio parlato, proprio come sono i discorsi di tutti noi: ci ritroviamo.  Per questo la conclusione di questo dialogo ci devasta moralmente, ma ci eleva anche, facendoci ben sperare sulle sorti dell’Umanità, poiché il dolore può aprirsi esaltandosi nella capacità ulteriore d’amare, non necessariamente ci chiude nello schianto e nel rifiuto di vivere.

Il Bruco è una delle diciassette contrade storiche della città di Siena che corrono il Palio, giostra equestre di origine medioevale, il 2 luglio - Madonna di Provenzano e il 16 agosto - Madonna Assunta di ogni anno.

 

Casa di riposo «Il Balcone»

 

«È questa solitudine» (piangendo)

«… Non la si vince, professore… Non…

Non la si vince…»

 

(Più tardi invece) «E questa solitudine

si vince anche… Che vuole, si prende

quello che viene…

E anche la si vince…

Ma è

            (piangendo)

                                   che non ho notizie…

ormai non so più niente di nessuno…

Cosa sarà di loro?

Ormai i miei genitori sono anziani…

Io ho già compiuto e passato i novanta»…

 

Un’altra novantenne in corridoio

si culla stretto al petto

il bambolotto in cui vede un neonato.

 

Vorrei dire a questo punto che poeta non è solo chi scrive poesie, ma anche chi trasfonde poesia nelle cose della vita, chi vive poeticamente; il che significa in primo luogo dare un’attenzione più vigile a tutto ciò che ci circonda, un interesse, una ricerca nei riguardi di altri, fossero anche sconosciuti o legati a incontri minimi o del tutto fugaci. Il poeta fa anche questo. Leggiamo questi due testi:

 

Quel che inizia nel giorno

 

Disporre a chi lasciare i libri, i quadri:

un giorno o l'altro ci dovrò pensare.

E anche giacche, cravatte, biancheria,

la vita dei bicchieri e delle pentole...

 

È l'alba, e lento mi dirigo al lavoro,

mentre sul cielo semigrigio e lucente

scorre a zigzag la fuga di spioventi.

 

Mi supera, compresa nel suo footing,

una ragazza.

Ha la coda,

le sobbalzano

nel passo svelto e elastico i capelli.

 

Ma a destare stupore

è come, anche all'impatto delle suole,

sia già lontana, senza alcun rumore.

 

*

Angelo fra le righe

 

(uno studio)

Timida, un po' più in là sopra il mio treno,

stava leggendo, con gli occhi riversi

sopra un piccolo libro della 'bianca'.

 

Da un sacchettino di plastica verde

(... Tjutecev magari, o Rutilio, o Larbaud...)

sgranocchiava ogni tanto qualche mandorla.

 

Batteva ai finestrini primavera.

Nella sua camicetta bianca e nera,

assorta protraeva la lettura,

Valentina Lisitsa in seta azzurra

che attraversa uno studio di Chopin.

 

Poi, chissà a che pensiero o a quali versi,

sul volto basso si schiuse un sorriso.

 

Scendendo, prima di doverla perdere,

sbirciavo il libro, passando vicino.

Lei sollevò lo sguardo dallo Splendido

violino verde e, finalmente pieno,

splendido, le virò il viso riverso.

 

Nella prima poesia colpisce la semplicità seria, profonda – ma anche spicciola –  delle azioni e dei pensieri dell’autore, che sfumano poi nell’attenzione meravigliata della leggerezza silenziosa del footing di una giovane sconosciuta, che sembra avere naturalmente il mondo in pugno e volare a venti centimetri dal suolo. È forse salto generazionale, altro modo di iniziare la giornata, di concepire la vita.

Angelo tra le righe è componimento più complesso, pieno di riferimenti culturali, ma tutt’altro che freddi, visto che anzi molto da vicino hanno a che fare con la vita dell’autore. Come anticipavo poc’anzi, Fo si prende cura dei lettori aiutandoli a dipanare eventuali enigmi con debite annotazioni finali. Sottotitolo: (uno studio). Io forse lo definirei un ‘improvviso’, poiché la visione bionda su un treno suscita pensieri diversi, liberi e fugaci come un improvviso musicale. La rivelazione finale, di un legame inconsapevole ma forte con la splendida sconosciuta, avviene tramite il libro di Angelo Maria Ripellino, autore amatissimo da Fo, Splendido violino verde. È un ‘coup de théâtre degno di Alessandro Fo e della sua super importante famiglia di artisti! Ma anche Ripellino asseriva che “occorre teatralizzare la vita” per giocarla (jouer), per modificarla o, almeno, avere l’impressione di poterlo fare, per sdrammatizzarla.

In tutto questo il padre dell’autore, Fulvio, è stato maestro, col supporto amorevole di Alessandro, come si evince da questo meraviglioso, commovente, gioco delle parti. Una teatralizzazione della vita per altruismo, per amore. Un accordo segreto del fingere.

 

Ingannare il tempo

 

a Fulvio,

che ha lasciato il suo corpo

il 17 novembre 2010

Scrivo anche a te da un giardino di ospedale,

qui con mio padre. Ma lui a dire il vero

si è sempre ritenuto un immortale,

con un segreto di sopravvivenza

(«quando non morirò,

poi ve lo svelerò»).

E prende il male come una grande influenza.

Dopo una cura forte, ritornerà a spaziare,

conquistare la vita per quanto è immensa,

amori, viaggi, libri.

Non la pensa

così il chirurgo, che parla di gennaio.

Siamo a settembre. Ha perduto i capelli,

ma regge bene la chemioterapia.

 

Piuttosto c'è un altro guaio: Federico,

il bimbo avuto già quasi a ottant'anni.

Come ingannarlo?

 

Prende a modello La grande illusione

e la pelata di von Stroheim:

... scritturato

a interpretare un vecchio generale,

si è dovuto - gli dice - rapare,

da feroce soldato,

e gli hanno imposto una sorta di collare

(esigenze di scena)

che è presto fatto con carta stagnola.

 

La sahariana gli fa da divisa

per le foto utili alla prova,

che voleranno via mail dal bambino.

Gli appunto le medaglie,

cartone e paccottiglia;

è insofferente dei ritardi; mi pungo

con la spilla da balia. Un po' di sangue.

 

Viene bene il servizio da parà

o marine, non si sa.

Fotomontaggio: la testa ingrugnata

passa su un fusto di un gruppo in parata,

mitra e mimetica. L'inganno è perfetto,

da esserne orgogliosi.

 

Anche Federico lo sarà:

«Però eri più carino coi capelli,

anche se erano bianchi» «Ma no,

cosi son più giovanile!»

«Non so...»

Chiedo un 'autografo' sulla stampata:

«Al Tano, che ricordi del papà

i lati meno imperiosi».

 

Siamo «in Alvernia», direbbe il poeta,

ma «occorre teatralizzare la vita».

E in settembre. Il terzo ciclo si avvia.

Andiamo all'ospedale sul raccordo.

Vorrebbe vendere mobili preziosi

e fare un grande viaggio

promesso ai nuovi figli. «A Parigi»

dove fu da ragazzo, «Sì, a Parigi,

ma poi Madrid, dovunque... Questi soldi

li dobbiamo godere, anche se costa parecchio».

«Ma scusa, invece, se li mettiamo noi i soldi

e fate il viaggio mentre ancora stai bene?»

«Ma no, figurati. E poi è per verso maggio,

o nell'estate. E spero che entro un anno

li avrò venduti. E, se no, lascio perdere».

 

Maggio. L'estate. «Nessuno è così vecchio

che non creda di avere ancora un anno»

(De senectute). Si sente sempre verde,

e qualche impreciso gesto da anziano

- l'inerme debolezza

contro le cinture di sicurezza,

o la stizzita impotenza a domare

l'infido cellulare ‑

lo nega, o non lo avverte

(come il resto, del resto).

 

«Comunque vediamo. È ancora settembre.

Ho questa cura, fino a Natale, a gennaio,

praticamente non c'è spazio per altro;

mi troverò poi qualcosa da fare,

un corso, qualche laboratorio teatrale...»

«Per guadagnare?» «No, per lavorare,

per ingannare il tempo».

La campagna

del Tevere. Il ponte.

Brevi scatti

nella contingenza della vita

che non intercettano il tuo tempo,

cose che, scusa, in fondo non ti toccano.

 

Allora dai, metto punto.

Spossata,

la donna accanto a me sulla panchina

s'è addormentata.

 

Voglio concludere con quella parte di poesia che dà il titolo alla raccolta, inserita in copertina al libro, che segna l’origine, grottesca in quanto causata da bizzarria del destino, di questa geniale, anticonformista famiglia che ha nascosto lacrime dietro ad ironia e, sotto la specie di buffonerie, ha insegnato civiltà al nostro paese. “Castigat ridendo mores”, ovvia citazione per il poeta latinista!

 

Filo spinato

 

[…]

Dopo un assalto, rientrava di fretta,

ma al momento del salto, sotto i colpi

restò impigliato in un reticolato.

Bestemmiando contro i numi avversi

disimpegnava in affanno la ghetta,

quando una bomba gli sorvolò la testa,

finì in trincea al suo posto, e uccise tutti.

 

Senza quel filo, a cui noi siamo appesi,

niente Bianca, né Dario, né Fulvio,

né noi nipoti, né il premio Nobèl 

 

(né questa nebbia di ricordi in versi).

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