Giorgio Caproni - foto di Dino Ignani |
C’è
una poesia di Giorgio Caproni paradigmatica dalla quale converrà prendere le
mosse nel presente scritto, intitolata "Battendo a macchina": “Mia
mano, fatti piuma:/ fatti vela; e leggera/ muovendoti sulla tastiera,/ sii
cauta. E bada, prima/ di fermare la rima,/ che stai scrivendo d’una/ che fu
viva e fu vera…”; più che sufficiente davvero, tale poesia, grazie a questa sua
prima strofe (inclusa nei "Versi livornesi", all’interno dalla
raccolta IL SEME DEL PIANGERE, 1959) per comprendere il difficile e felice
equilibrio tra spirito aristocratico e vena popolare raggiunto in modo
esemplare da Caproni con la suddetta raccolta; per diversi studiosi il frutto
più fine della sua storia poetica (e basterà citare al riguardo nomi come
quelli di Biancamaria Frabotta e Pier Vincenzo Mengaldo; quest’ultimo prefatore
del Meridiano Mondadori dedicato al poeta). Difficile se non impossibile,
naturalmente, negare la grazia affilata della poesia di Giorgio Caproni fino
all’acme del SEME DEL PIANGERE, dagli esordi genovesi influenzati dalle
correnti ermetiche e, in particolare, dalla presenza tutelare e costante di
Camillo Sbarbaro. Del resto non andranno dimenticati, del nostro poeta (nato a
Livorno nel 1912), i notevoli sonetti “monoblocco” inclusi nel PASSAGGIO D’ENEA
(raccolta del 1956) fra i quali spicca per chi scrive "Alba" (1945),
con endecasillabi tronchi in uscita non vocalica rafforzati da interiezioni
sapienti ( a frantumare la musica consolidata di una forma dorata e “chiusa”
della nostra grande tradizione letteraria). In ogni caso anche il peso del
PASSAGGIO D’ENEA risulta evidente, nello sviluppo del lavoro poetico del grande
Livornese, alludendo alle famose e bellissime "Stanze della
funicolare" leggibili in tale raccolta. Sarà bene a questo punto rammentare
– volendo giungere al cuore di quanto mi preme sottolineare più avanti su
Caproni- la finissima attività di traduttore del poeta, ripensando soprattutto
ai suoi Proust, Céline, per tacer d’altri; giacché tale attività ha dischiuso
ovviamente al grande Livornese, per sua stessa ammissione, lungo il corso degli
anni, “zone” dell’affettività e della cognizione altrimenti insondate. Ma
eccoci al punto: i lettori che amano il nostro poeta, e sono in molti, sanno di
una innegabile, rilevante cesura fra un “primo” Caproni e un “secondo” Caproni,
per così dire; cesura sulla quale sarà necessario insistere qui proprio per
tentare di comprendere le ragioni di una voce poetica più che mai viva e
incisiva nei tempi attuali. Così dicendo, ecco che non possiamo non individuare
nel CONGEDO DEL VIAGGIATORE CERIMONIOSO & ALTRE PROSOPOPEE (1965), la
suddetta cesura fra quanto precedentemente pubblicato da Caproni e la grande
Trilogia compresa fra gli anni Settanta e Ottanta (IL MURO DELLA TERRA, 1975;
IL FRANCO CACCIATORE, 1982; e IL CONTE DI KEVENHŨLLER, 1986). Basterà, in
merito, rileggere la chiusa della poesia che dà il titolo alla citata raccolta
del 1965 (dedicata all’attore Achille Millo): “Ora che più forte sento/
stridere il freno, vi lascio/ davvero, amici. Addio./ Di questo, sono certo:
io/ son giunto alla disperazione/ calma, senza sgomento./ Scendo. Buon
proseguimento”. Non posso negare, per quanto mi riguarda, di nutrire un
sentimento quasi di devozione per tali versi: essi, infatti, nella loro
disarmante semplicità, si fanno profondissima metafora della condizione umana;
talché, a questo punto, la voce di Caproni conquista maggiore libertà tematica
e formale rispetto alle precedenti e pur splendide prove (il pensiero torna,
soprattutto, ai citati "Versi livornesi" del SEME DEL PIANGERE e
dedicati ad Anna Picchi, ricamatrice e suonatrice di chitarra, madre del poeta;
poeta-violinista, questi, peraltro, diplomato in composizione giovanissimo a
Genova). Sia come sia, con il CONGEDO del 1965 (l’anno di un traumatico intervento
operatorio per il poeta, che da allora fino alla morte vivrà da “resecato
gastrico”, per sua stessa definizione); sia come sia, stavamo dicendo, col
CONGEDO, comincia il “viaggio metafisico” di Giorgio Caproni, in tutta
evidenza. Il grandissimo cantore di Genova, sua città d’adozione, e della
madre- fidanzata del poeta (che intuizione, quella di cantare la giovinezza
materna!); cantore nel contempo antico e sottilmente sabotatore come già detto,
della nostra grande tradizione metrico-stilistica; questo cantore, insomma, col
CONGEDO, scopre le sue carte decisive di “cerimonioso dicitore del nulla”,
secondo quanto osservato da Italo Calvino (e non a caso il grande Livornese è
stato accostato a Samuel Beckett). Il nostro poeta, austero e riservato, maestro
elementare per tutta la vita, parlerà in effetti con la sua voce più alta nel
1975, dando alle stampe IL MURO DELLA TERRA, accolto con grande favore di
critica e di pubblico. Con il MURO, infatti, tutto è mirabilmente al suo posto;
nel senso che nel libro la densità metafisica di una evidente “ontologia
negativa” (sempre per citare Calvino), è una cosa sola con una forma
“frantumata e ellittica” (com’è stato osservato da più parti); la cui qualità
più corrosiva, forse, consiste nella chiusa delle poesie: senza punti di
domanda che possano favorire un rassicurante dialogo con il lettore. Detta
qualità di Caproni, è stata individuata felicemente da Carlo Bo; senza
stupirsene più di tanto da parte nostra; ché, in tutta evidenza, Carlo Bo ha
avvicinato i grandi poeti del Novecento italiano più intensamente di altri; nel
senso umano del termine, prima ancora che dal punto di vista strettamente
critico. Ma torniamo a Giorgio Caproni. Dopo IL FRANCO CACCIATORE del 1982
-laddove si può percepire un certo “manierismo” rispetto al libro precedente,
come osserva a parer mio giustamente Pier Vincenzo Mengaldo in antitesi, nella
fattispecie, agli eccessivi entusiasmi di Pietro Citati- eccoci al cospetto
dell’ultimo grande libro di Caproni: IL CONTE DI KEVENHŨLLER, del 1986. Con
tale raccolta la poesia di Caproni raggiunge una stoica, rarefatta scansione;
con alte e attualissime punte di agnizione nell’indicarci l’inquietante
ambivalenza fra l’Essere e il Nulla: quasi il poeta si fosse dotato di un
misterioso periscopio grazie al quale scrutare la scaturigine tutt’altro che
rassicurante di tutti gli ossimori, di tutte le ambiguità (senza dare cioè
l’impressione di una pratica letteraria e forzata dei contrari, ossia a
posteriori). Così, nel CONTE DI KEVENHŨLLER, il cacciatore è la sua preda; la
Bestia, per la cui uccisione il Conte ha promesso bei soldoni alla popolazione,
è sfuggevole e parte di noi; e si potrebbe continuare a lungo. Il poeta morì il
22 gennaio 1990; sul comodino (è stato riferito) la pagina della COMMEDIA
laddove spiccano i famosi versi: “L’alba vinceva l’ora mattutina/ che fuggia
innanzi, sì che di lontano/ conobbi il tremolar de la marina”; Purg. I, 115-7:
il giorno successivo, 23 gennaio, il suo funerale, senza la presenza delle
autorità (nel quartiere romano di Monteverde, dove abitava); in perfetto stile
con la riservatezza e il distacco del grande Livornese, si potrebbe chiosare
con amara asciuttezza (non mancarono però Walter Binni, Biancamaria Frabotta e
Valerio Magrelli). D’altronde la poesia di Giorgio Caproni costituisce un
patrimonio ricchissimo e attuale della mente e del cuore di numerosi lettori; e
di chi scrive in modo particolare -mi sia concesso di dire- avendo io abitato
dal 1969 al 1980 a trecento metri dal grande Livornese, nella piazza dove
sbocca la salita di via Pio Foà (via lungo la quale, dal 2012- in occasione del
centenario della nascita di Caproni- è visibile al numero 28 una targa che lo
ricorda, assieme ai versi di "Dopo la notizia", dal MURO DELLA
TERRA). Mi piace concludere questo scritto citando di Caproni i versi in morte
di Pasolini, suo grande amico (intitolati "Dopo aver rifiutato un pubblico
commento sulla morte di Pier Paolo Pasolini" , ora inclusi nella raccolta
postuma RES AMISSA, 1991, curata da Giorgio Agamben): “Caro Pier Paolo./ Il
bene che ci volevamo/ -lo sai- era puro./ E puro è il mio dolore./ Non voglio
pubblicizzarlo./ Non voglio, per farmi bello,/ fregiarmi della tua morte/ come
d’un fiore all’occhiello.” Così era Giorgio Caproni, maestro elementare fino al
1973: un uomo riservato e fiero che insegnava ai suoi alunni invogliandoli a
scrivere versi; non negandosi neppure a scuola la gioia del trenino elettrico.
Andrea Mariotti
(scritto
apparso nel blog andreamariotti.it in data 9/4/15 e successivamente incluso nel
numero 61, maggio/agosto 2015, della rivista letteraria I FIORI DEL MALE)
Andrea
Mariotti è nato a Roma nel 1955. E’ poeta e critico letterario. Studioso di
Giacomo Leopardi, al quale ha dedicato il suo lavoro di laurea centrato sul
pensiero filosofico del grande Recanatense intorno al tema dell’amore. Ha
pubblicato due sillogi poetiche. E’ fino conoscitore della musica classica e
della pittura.
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