Lucianna Argentino |
Riprendo
oggi a scrivere per la rubrica Letture condivise, dopo la pausa estiva, con un
difficile, bellissimo testo della poetessa romana Lucianna Argentino,
già autrice di mirabili volumi di versi; in particolare voglio qui ricordare
L’ospite indocile, Passigli 2012 e Le stanze inquiete, La vita felice 2016.
Parlo
di lei oggi, ritemprata da un periodo di vacanza lungo, ottimistico e gioioso
perché, diversamente, in altri momenti non avrei cuore di affrontare un libro
problematico che mi ha posto di fronte alla mia inadeguatezza in senso
professionale, umano, poetico, teologico, trattandosi di un testo con forti
addentellati religiosi. Ma non potevo salvarmi con la fuga ed evitare
vigliaccamente di parlarvene. E’ un testo di rara difficoltà ma anche di
eccezionale bellezza poetica, di particolare profondità spirituale, con
ventaglio aperto a trecentosessanta gradi su problematiche esistenziali
presenti in ogni tempo, ad ogni latitudine umana, che esulano quindi dalla
problematica primaria, che è quella di presentare in forma di poemetto tre
pagine note del Vecchio e del Nuovo Testamento. Dalla Genesi la vicenda di
Caino e di Abele, dai Vangeli gli episodi della Samaritana e della Emorroissa.
Il
taglio che intendo proporvi oggi non è tuttavia quello specificamente
teologico-religioso. Pur essendo discretamente formata in questo ambito, non
sento di possedere una approfondita preparazione specifica né penso, come vi
accennavo poc’anzi, che sia questa la chiave necessaria per entrare nel testo,
bensì quella di problematiche più genericamente umane, come la ricerca del
senso dell’esistere, l’esplorazione di noi stessi, la creazione di nuovi
cammini di vita insospettabili perché, come dice l’autrice, “noi siamo e
possiamo di più di quanto crediamo”.
Questo
libro si intitola Il volo dell’allodola, l’uccello che Shelley canta come
spirito di gioia:
percorri
con l'ali l'infinito azzurro,
ti
levi nell'aria cantando,
e
librandoti alta ancora canti.
Altezza,
vette, cielo, elevazione metafisica, Dio: ecco i passaggi e le mete e poi,
arrivati a Dio, la citazione di Simone Weil: “l’unico rapporto di Dio con il
mondo consiste nella possibilità che il soprannaturale esista nel mondo, in
un’anima umana”.
Se
questo è l’inizio nonché la visione programmatica di Lucianna Argentino c’è di
che far tremare le vene ai polsi ad una persona semplice come me, attratta come
ogni anima dal divino, ma soffocata (anche felicemente, va detto) dall’umano.
A
mia discolpa faccio mie le parole del pittore del primo Novecento Juan Gris
scritte al poeta Huidobro, che gli aveva dedicato il volume Poesie artiche
senza averne in cambio un cenno tangibile di apprezzamento: “è troppo bello
per me, non riesco a penetrarlo”. Così è per me per Il volo
dell’allodola.
Limitando
forzatamente il campo di indagine ad un’unica sezione dell’opera, vi lascerò
quindi qualche spunto di riflessione per una ricerca personale, evitando ogni
discorso di Fede e di culto cristiano, ma fermandomi – se così possiamo dire –
ad un discorso di religione naturale, di civismo, di umanità, cose quanto mai
necessarie in quest’ultimo nostro periodo storico. Ovviamente, per la mia
natura e per i miei interessi, la prima attenzione sarà rivolta alla poesia:
alla compiutezza del discorso poetico, alla capacità compositiva e stilistica,
all’equilibrio dei versi, al clima di pathos e di bellezza che l’autrice riesce
a suscitare, ma soprattutto trasferire, al lettore. Io ne sono uscita
alleggerita, quasi rigenerata.
Ho
scelto di non parlarvi del primo poemetto, Abele, in quanto
ripubblicazione di un testo già precedentemente edito, Edizioni Le gemme 2015.
Propongo invece una parte del testo È questa l’ora sull’episodio, dal
Vangelo di Giovanni, della Samaritana, la donna che al pozzo di Sicar su
richiesta di uno straniero assetato, Gesù, e nonostante i disaccordi tra le due
nazionalità dei Samaritani e Giudei, gli offre l’acqua da bere senza immaginare
che così salverà la sua vita, avendo in cambio un’acqua che non si corromperà,
la fede purificatrice e la vita eterna.
Vi
propongo un passo in cui la donna ricorda le speranze dell’infanzia, la
discriminazione femminile in una società di disuguali, le disillusioni della
vita e dell’amore, l’autoconfessione della sua solitudine infinita, la sua
insoddisfazione ad insufficienti risposte esistenziali nel silenzio della notte
immensa della Palestina, dilatato scenario del vuoto interiore della creatura
umana,. Il brano è già molto vasto. Ho scelto quindi di arrestarmi prima del clou
dell’episodio, a quel “dammi da bere, mi chiese”, che segna l’inizio
primo del brano evangelico, del resto noto nel suo sviluppo. Il poemetto è
splendido e non vi mancherà quindi lo stimolo a proseguire la lettura.
Mi
è sembrato più importante proporvi l’acuta indagine psicologica sulla pena
umana della Samaritana, in quanto resa in maniera tale, poetica e realistica
insieme, da riuscire ad essere condivisa da qualsiasi lettore: ma vado oltre la
condivisione, direi di più: si crea magistralmente il coinvolgimento emotivo,
la compassione, nel senso del patire insieme, del vivere le stesse emozioni,
del ritrovare vitali in noi gli stessi sentimenti del personaggio. E quindi non
sussiste qui solo il capire, ma il sentire, e in questo sentire
all’unisono scoprire meglio chi siamo, qual è la strada che vogliamo percorrere
per essere quello che vorremmo diventare per noi stessi e per gli altri.
Magicamente l’autrice realizza la funzione non solo estetica, ma quella etica,
dell’Arte.
Poi
mio padre morì e fu il buio.
…
Non
intonai più canti e compiuti tredici anni
mio
fratello mi diede in sposa.
La
mia vita si rovesciò e caddi nel vuoto arido
che
a poco a poco era diventata.
Persi
anche Dio. Quel Dio a cui assieme alle preghiere
affidavo
i miei sogni, si fece lontano e muto,
annegò
nella mia sete.
Fu
allora che scoprii la solitudine.
Giorno
dopo giorno smisi di amarmi.
Mi
disabitai.
Nido
senza la covata. Promessa non mantenuta.
Ripudiata.
Inadempiente e inadempiuta.
Questa
ero.
L'inganno
fu un riverbero negli occhi, si solidificò il cuore
come
il cielo qui pietra dura e senza grazia
che
a guardarlo fa male.
Ruvido
come i monti Gerizim ed Ebal
in
cui l'azzurro si incunea
simile
a un terzo monte rovesciato,
la
cima conficcata nella terra.
Raccolsi
il passato, spiga dopo spiga,
ne
feci pane per l'avvenire.
Mi
illusi di poter placare la mia fame.
Ero
stata amata, avevo amato, avevo creduto di poter essere
amata
ancora.
Mi
ebbero corpi senza carne né anima, braccia senza il vuoto
necessario
all'abbraccio,
parole
senza silenzio — dure e impermeabili
mi
lapidavano dentro.
La
notte mi regalavo tempo, sedevo accanto al fico
e
guardavo il cielo,
in
realtà me ne nutrivo, me ne dissetavo.
Quel
cielo che di giorno sentivo ostile e lontano
la
notte s'addolciva, si faceva fragile e pietoso,
commosso
forse da quanto il sole gli aveva mostrato:
la
solitudine e il dolore di tutte le creature terrestri.
Preferivo
le notti senza luna quando le stelle
si
adagiavano sul mio grembo
e
ci consolavamo strette nelle stesse distanze.
Il
loro tremolio vibrava di mistero, quello stesso mistero che
sentivo
in me
e
a cui non sapevo dare un nome.
A
volte un piccolo roditore frusciava tra l'erba
interrompendo
i miei pensieri.
Lo
vedevo fermarsi, annusare l'aria e poi correre via e sparire
nel
buio.
Avrei
voluto sparire anch'io, dissolvermi nella notte,
eppure
amavo la vita, ma mi sfuggiva,
non
ero capace di farne qualcosa
perché
non m'apparteneva.
Era
un perenne crepuscolo di luce arresa, immobile
come
le grandi pozzanghere dove da bambini,
io
e i miei fratelli facevamo navigare le foglie.
E
come quelle foglie navigavo senza remi sulla superficie
della
mia esistenza,
non
ne ascoltavo più la voce. L'avevo messa a tacere.
La
mia anima era deserta e vuota come la Terra
prima della Creazione.
…
–
Dammi da bere, mi chiese –
Dopo questa lettura credo ci
sia ben poco da aggiungere: la poesia parla da sé.
Voglio solo farvi notare la
pregnanza lessicale delle parole usate dall’autrice. Sono “giuste”, nessuna di
troppo, essenziali. Notate il ritmo di musicalità lenta, solenne,
l’autoconfessione è di creatura stanca, ferita, disillusa, appassita anzitempo
e l’andamento del verso rende alla perfezione questo clima. Rimane vitale la
sua forte spiritualità e l’amore per la natura della donna, che vengono resi
dall’accostamento di figure concrete, di termini talmente poeticamente limpidi
da diventare ineffabili in prosa o, peggio, rischiano di annullarsi, perdersi
con parole prosaiche di spiegazione che elidono, limitano la loro essenzialità
e pregnanza.
Io, che sono solita
esemplificare a dimostrazione delle mie affermazioni, mi trovo di fronte ad
un’ulteriore difficoltà: dovrei riproporvi quasi tutto il testo… Due o tre
esempi di perfezione sia semantica sia concettuale e poi mi fermerò su queste
frasi chiave:
“giorno dopo giorno
smisi di amarmi.
Mi disabitai”
Non
è vero che tutti abbiamo vissuto almeno una volta questo vuoto di noi stessi?
Come esprimerlo in modo più efficace?
“Raccolsi
il passato, spiga dopo spiga,
ne
feci pane per l’avvenire.
Mi
illusi di poter placare la mia fame.
Ero
stata amata, avevo amato, avevo creduto di poter essere
amata
ancora”
Vi
invito a rileggere anche i versi seguenti – precedentemente riportati nel testo
proposto – di rara intensità… emotiva.
“Preferivo
le notti senza luna quando le stelle
si
adagiavano sul mio grembo
e
ci consolavamo strette nelle stesse distanze”.
Puro
lirismo: incantamento, dilatazione dell’anima di chi ha scritto e di chi legge.
Nel
momento stesso in cui vi propongo queste citazioni, mi rendo conto che opero un
taglio ad una parte precedente o ad un seguito ugualmente preziosi.
È
incredibile come io mi veda uscire spiazzata da quest’allodola di Lucianna.
Ma
Letture condivise è anche questo. Oggi vi presento i miei limiti. Non
tutte le ciambelle mi riescono col buco… mi consolo al pensiero che forse
l’idea sono riuscita a renderla comunque…
Marvi del Pozzo
Grazie carissima Marvi per questa tua lettura. Pur con i limiti che dici di avere avuto sei riuscita a dire ciò che in effetti è al cuore di questo mio lavoro, ossia la volontà di scavare e trarre dalle storie di questi personaggi, emblematici della condizione umana, il valore spirituale e terreno della loro straordinaria esperienza di vita. In tal modo escono dalla Bibbia e vanno per le strade di ognuno, parlano ancora ad ognuno di noi credenti e non credenti. Grazie anche a Cinzia Marulli per la cordiale ospitalità.
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