Carla Malerba ha coltivato il suo amore per il dire poetico fin dalla più tenera età, quando il suo talento fu individuato da Dino Buzzati e dai professori Gramigna e Sala, che in lei scorsero capacità lessicali e architetture tematiche di grande rilevanza, soprattutto in relazione alla giovanissima età dell’autrice, allora dodicenne.
Oggi mi piace riprendere, dopo la pausa estiva, le letture condivise con Di terre straniere, scritto appunto da Carla Malerba e pubblicato da La vita felice nel 2010. Non è un libro recentissimo, ma io non lo conoscevo ed è stata una delle scoperte dell’estate: lo ritengo particolarmente adatto per la ripresa della nostra rubrica in quanto tutti noi siamo ancora protesi alla memoria di luoghi, atmosfere, colori dei giorni di vacanza e ci troviamo quindi mentalmente inclini ad assaporare appieno il mondo di dolcezza e insieme di nostalgia di cui ci parla l’autrice.
Nel suo caso è un inno d’amore per Tripoli, La città natale che ha dovuto forzatamente abbandonare negli anni Sessanta e che rimpiange tuttora.
Quali terre di mare,
elette per caso,
dove soffia un vento
per ogni tempo e stagione,
dove poco cambiano
i segni sui tronchi nodosi
ho abitato per oscure ragioni?
Credo che tutti noi
abbiamo un posto del cuore, il luogo eletto del nostro rimpianto, culla degli
affetti più cari, quello che ci ha plasmato nell’infanzia, ci ha dato
l’imprinting e continuiamo a portarci dentro con un misto di tenerezza e di
pena. È l’elegia di ogni perdita che sia
‘costruttiva’, perché continua ad essere alla base della nostra essenza umana e
quindi punto di riferimento ‘formativo’ imprescindibile, in quanto proprio a
quel luogo dobbiamo la globalità, l’unicità della persona che siamo diventati e
che siamo tuttora in divenire.
Ho scelto quattro testi, esemplari nella forma e nella sostanza della poesia di Carla. La sua peculiarità mi pare quella di saper trovare la chiave più limpida e immediata per arrivare all’interiorità del lettore, in assoluta verità, senza infingimenti o mezzucci letterari. Da questa autenticità il lettore è conquistato e viene accompagnato con semplicità alla condivisione. Si tratta di poesia ‘nuda e cruda’ nella sua essenzialità, quella che non ha bisogno di essere spalleggiata da forme pubblicitarie o da concorsi letterari perché non richiede riconoscimenti esteriori. Quando la scrittura è davvero poesia parla da sé e sa farsi strada da sola. Una strada che resta impressa in chi legge. Credo che sia questo il compito primo della parola poetica.
Se fossi nata
Se fossi nata
in un paese di brume
sarei, forse, come non sono:
brusca, taciturna e poco benevola.
Ma sono nata
all’ombra delle palme,
là dove il vento del deserto
fa fiorire le rose fra le dune.
Non abeti, ma bassi cespugli
conosco.
Mia madre è l’Africa,
già madre di mia madre.
Riporto per prima l’ultima poesia del libro, come del resto fa il prefatore della silloge, Francesco Prestopino, perché inquadra, in pochi cenni determinanti, la nostalgia per la terra natale ma anche quel ‘mal d’Africa’ di cui in generale si parla, indistinto ma reale, incomprensibile per chi in Africa non ci sia mai stato. È questione di colori, di atmosfere ambientali, di naturalità, ma soprattutto di risonanze interiori che portano al ritrovamento di speciale accoglienza e al risultato di un senso stretto di appartenenza atavica, come gli ultimi due versi illuminano in modo inequivocabile:
Mia madre è l’Africa,
già madre di mia madre.
Cornamusa d’estate
Si perdono
le note di una cornamusa
dentro un perfetto tramonto
che non conosce
sbavature di profilo.
Prevaricano
sul sospiro dell'acqua
leggero.
Inducono
all'anima assorta
un'indolenza amara.
Intridono d'universo
una scomposta teoria
di pensieri.
Perché l'estate non è stagione di cornamuse.
Mi ha colpito di questa poesia l’essenza di una musica mista così come mescolati e frammentati in vari momenti sono i ricordi a formare una scomposta teoria di pensieri. La vita non è infatti una sommatoria di esperienze in successione: non c’è un prima e un dopo rigorosamente cronologico, ma la mescolanza inconscia, spesso indistinta ma indivisibile di queste esperienze sapienziali. La suggestione e la capacità del poeta consistono nel portarle alla luce, nel renderle, per il lettore, dall’inconscio al consapevole, pur mantenendone l’indeterminatezza dell’irreale e del sogno nella realtà poetica.
Altra vita
Altra vita era
quella di cui poco
è rimasto:
memorie di strada
e di volti,
gialla la luce
della sera
sulle case,
nei vicoli
canti e richiami.
L'ombra dei vent'anni
che scivola tra le dita
come acqua di fonte
e sentirsi a volte
come collocata a forza
entro paesaggi stranieri,
ferita pulsante
la non appartenenza
né a questo, né a quello
di paese.
I.' unico paese
che mi è rimasto
è il mio cuore.
Chi è strapiantato a forza dal proprio paese, dalla propria cultura di formazione, vive dimezzato anche quando bene si inserisce in una nuova realtà. Resta lo spaesamento, in senso letterale, il dover venire a patti con la propria identità divisa, fare sempre i conti con se stessi e con le pene ‘ricattatorie’ di una esistenziale nostalgia che ritorna continuamente. L’autrice rende in modo poeticamente musicale, con immagini soffuse di grazia ai versi 9-13, un serio problema psicologico. Riesce a rendere con leggerezza questioni anche di rilevanza civile e sociale. Pensiamoci, per esempio, quando parliamo di immigrazione: prima di essere un problema colossale, di grandi numeri, di ben diversa natura rispetto ai temi affrontati da Carla, sicuramente si verifica la frantumazione dell’io di ogni singola persona, di ogni singola vicenda umana.
La poesia ha lo scopo di allargare la sfera di riflessione dal caso particolare a un ‘generale’ che abbia qualche nesso di analogia, anche lontano, col primo. La vera poesia dall’emozione epidermica porta sempre alla riflessione e al pensiero ed è questo l’aspetto che ci fa crescere e può cambiarci la vita. In questo senso a me la poesia di Carla è servita tanto: ci agevola in tale processo la perfetta struttura stilistica e formale della lirica, la cultura dell’autrice, i riferimenti artistici in lei diventati cosa propria, indivisibili da sé. Come non pensare al migliore Ungaretti, nei versi finali di Carla?
È il mio cuore
il paese più straziato
[San Martino del Carso]
Malastrana
Per ignote vie
strette
stride il violino,
balzano le note
contro i muri
delle case desolate,
urlano alla vita
pezzi d'amore
come specchi
rifulgenti al sole.
Lo zingaro
riprende il suo cammino
mentre s'alza il canto.
E le note,
le note
sembrano non aver mai fine.
A quanto detto sulla poesia Altra vita mi ricollego a proposito di Malastrana.
La nostalgia è un sentimento particolare, viene e va sull’onda di emozioni sfumate: non sai in che modo si metta in movimento, però ti coglie nel profondo, pur partendo da intuizioni sparse, imprecise. Certo non ha a che fare con la sfera logico-conoscitiva di noi. Per questo l’autrice nel libro l’accompagna spesso alla musica, ma non a composizioni ‘organizzate’ – che so un trio, una sinfonia, un lied – quanto a sprazzi di melodia accennata e sfuggente come le note dello zingaro, che qui diventa ‘figura’ di ogni strapiantato nel mondo, di ogni forma di estraniamento. Queste note si dilatano nello spazio e sembrano non avere mai fine perché di fatto non ce l’hanno una fine: scavano un solco profondo dell’anima e lì restano.
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