domenica 10 ottobre 2021

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: "Taccuino della madre" di Sonia Caporossi (Ed. Progetto Cultura 2021)

foto di Dino Ignani
Dopo avere letto il Taccuino della madre di Sonia Caporossi, Edizioni Progetto Cultura 2021, ho capito che non potevo esentarmi dal consigliarne assolutamente la conoscenza nella rubrica Letture condivise, pur essendo conscia di andare a caccia di guai perché avrei dovuto, su due fronti, fare i conti con quel senso di inadeguatezza che talora mi prende, retaggio del passato, quando mi trovo di fronte a cose troppo intense e profonde per essere rese, anche in minima parte, dalle mie parole limitate. Qui ci sono ben due elementi impareggiabili con cui confrontarmi: un testo di ‘vetta altissima’, dove una tematica importante viene espressa con verso e stile rasentanti l’umana perfezione e, in secondo luogo, una altrettanto perfetta prefazione di Cinzia Marulli, dove ogni parola, essenziale, si adegua al testo poetico e riesce ad aprire una chiave importante di conoscenza all’ignaro lettore, in modo sintetico ma irrinunciabile. Mi limito quindi ad esporre le mie osservazioni così come mi sono venute alla mente durante la lettura del Taccuino, senza alcuna pretesa di letterarietà.

In questo caso, in particolare, si tratta di autrice che considero molto non solo sul piano professionale, ma in primo luogo umano e di una prefatrice cui sono legata da un rapporto di ‘idem sentire’: per questi motivi, dico, mi sembra il caso di esprimermi familiarmente esternando con semplicità le mie sensazioni di lettrice. Del resto, com’è noto, io non sono un critico letterario di professione e spero mi vengano perdonate pertanto eventuali ingenuità. Nella poesia inoltre le emozioni, cronologicamente, prevalgono sulle riflessioni dell’intelletto, che arrivano in successione, in tempi anche lunghi e talora tendono persino a condizionare il fattore emotivo e a modificarlo, alla luce di un pensiero più coordinato e organico dello slancio del cuore.

Il Taccuino della madre è la storia di due donne, madre e figlia, due solitudini, due sofferenze, due incapacità di comprendersi, due amori malati. Mauriac scrisse un testo, Amarsi male com’è tradotto in italiano, Les mal aimés in francese, che io lessi da ragazzina e questo lancinante titolo, nelle due lingue, si attagliò spesso alle vicende della mia vita, così come mi pare alla vita di Sonia.

Riporto qualche testo di straziante bellezza:

 

 

ricordi d’infanzia

 

gli altri bambini scendevano a giocare sulla spiaggia

i pomeriggi risuonavano di grida e tonfi di pallone

 

quante facce li osservavano da queste bianche mura

ecco il cobalto vagare nel vago ricordo del mare

 

nuvole d'ebano e cenere sulle loro mani sporche

sulla rotondità perfetta e nuda della terra

 

rimanevo in casa a guardarli senza invidia

dallo spiraglio australe della finestra spalancata

 

non ci si può aspettare altro che uno sguardo passeggero

 

non c'è rimasto altro che un fotogramma sbiadito

 

non anelavo certo al calore della sabbia

non all'asprezza infetta delle ginocchia sbucciate

 

desideravo alle mie spalle soltanto le carezze

che priva d'interesse mia madre non mi dava

 

*

passeggiata sulla spiaggia

 

la risacca schiuma

la sabbia sospesa

cade giù

sbatte storto verso l'acqua

e vaga correndo

 

guardo mia madre perdersi nel sole

certi scafi le giacciono accanto

come cose morte riposano

 

il suo pensiero vola

accompagna un gabbiano

che richiama la compagna

col suo ignaro stridore

 

mentre io son qui, giaccio sul molo

col mio costumino a fiori

a cui ha tolto il pezzo di sopra

 

la vedo allontanarsi

e come quel gabbiano, io la chiamo

e urlo, e mi dispero

finché una nebbia non nasconde quel volo

 

e ognuno è con se stesso, quasi vuoto

e ognuno è con se stesso, solo

 

Poi, percorso fatale nella vita dei genitori, la malattia grave, tentativi di convalescenza, speranze vane, la fine:

 

convalescenza

 

oggi ricerca l'apatia delle mattine a letto

quando il tempo è convenzione e l'orologio è lontano

a due metri da lei abbandonato sul tavolo

due metri nell'eterno che dura un solo attimo

 

*

speranza

 

e rinnega l'attimo

in cui dispera

con questo tempo per nemico

di vani giorni daltonici

quando la luce si nasconde

dietro le persiane della speranza

 

*

nel buio

 

ora nel buio

tutto cambia in oro

 

baluginano i fosfeni

sulla calotta delle palpebre

 

la veglio nelle ultime notti

lei urla strozzando il respiro

 

la volta del soffitto

scurisce in un vago richiamo

 

l'insonnia mi volta lo sguardo

la vedo, lei è sveglia con me

 

due occhi rivelatori

che cercano sull'orologio

 

un ultimo istante concesso

per darsi una tregua dal pianto

 

ora nel buio

tutto cambia in nero

 

non so quanto ancora rimanga

per potermi dire con te

 

Mi pare di intuire che in queste poesie la morte non sia divisione, separazione eterna, ma forse momento determinante di comprensione. Si sanano gli opposti. Due solitudini, sempre più sole nell’addio terreno, si uniscono in una congiuntura che, reale o illusoria, in qualche modo pacifica, permettendo alla figlia che resta di andare avanti e realizzare se stessa anche in nome di quella madre, assente, sfuggente, dolorante, di certo irrealizzata, che ha causato tanto dolore, forse senza neppure rendersene del tutto conto.

Forse il rapporto tra madre e figlia non è mai un idillio, quasi sempre è lunga, sconosciuta epopea: talora assume i toni di moderna tragedia greca, in cui però lo spettatore – qui lettore – vede, come nell’antichità, la ‘figura’ del proprio percorso umano; si ritrova appieno e il coinvolgimento totale porta alla catarsi e ad una forma di rasserenamento non solo del presente, ma di tutto il percorso a due che viene finalmente ad assumere un senso compiuto e può persino aprirsi a una diversa prospettiva di pensiero. Non è questione di comprensione per ciò che è stato né di perdono, ma la presa d’atto finale di due vicende umane che portano chi resta a fare i conti con sé e col proprio passato, oltre alla consapevolezza che si è la persona che si è diventati proprio attraverso gli eventi dolorosi del vissuto e degli scogli superati con lacrime e sangue. Raramente mi è capitato di sentire così profondamente un libro sul rapporto madre-figlia, di ‘patirlo’ nel senso greco della parola, come mi è avvenuto per questo Taccuino. Eppure molti sono i libri di poesia editi, negli ultimi tempi, sull’argomento.

 

Magica Sonia!

All’intensità del suo pensiero e del suo sentire corrisponde la magia della parola e lo strabiliante uso di essa. Rara prerogativa. Non mi è capitato recentemente di imbattermi in uno stile tanto personale. Non direi ‘immaginifico’, perché non è solo questione di immagini, è di più.  È quando l’immagine, resa in una parola adeguata, accostata magari ad un’altra di massimo valore semantico, riesce a penetrarti dentro creando non un’immagine, appunto, ma un fiorire di sentimenti e una realtà globale di figure e poi di pensieri che emergono dalla parola stessa.

Cinzia Marulli parla giustamente di parola nuda, perché è la parola giusta, inequivocabile e nello stesso tempo evocativa, creativa, quella ‘unica’ che determina nel modo più preciso (significato), quella stessa che suggestiona con i riferimenti più vaghi, immateriali e inconsci (significante). La parola che fa dire a Giovanni Tesio, docente all’Università di Torino e saggista:

La parola non è solo veicolo di contenuto e di senso, ma ha natura di scatola sonora, tessuto iridescente di suoni. La parola poetica viene a contare di più per i suoi valori evocativi e allusivi legati al suono, entro cui si creano nuovi significati supplementari che non per la sua corrispondenza con la cosa che designa.

La parola del testo poetico non rimanda più semplicemente alla realtà di cui si fa veicolo e portavoce, ma assume un valore in sé.

… Il testo poetico ha valore per se stesso, per la musica che crea e per i significati che da essa scaturiscono, inediti e moltiplicati.

[Giovanni Tesio, I più amati, Interlinea 2012]

 

A questo punto forse io non parlerei di parola nuda, ma di parola dalla cui unicità rampolla quella miriade di significati, di riferimenti, di quadri inaspettati, che erano già insiti nel termine lessicale stesso, ma come in potenza, non in atto, inanimati senza la forza creatrice del poeta. Il termine nudo mi evoca, per personale difetto caratteriale probabilmente, un ‘nudo e crudo’ essenziale, esatto, ma riduttivo rispetto al caleidoscopio magico che la parola, usata dall’artista riesce a suscitare in un animo ricettivo.

Forse sono questioni di lana caprina, ma se vi ho insistito  è unicamente per far comprendere quale risonanza questo volumetto e la sua prefazione abbiano avuto in me. Sicuramente la mia reattività è causata anche dall’ambivalenza di un contrastato rapporto con la figura materna da figlia, ambiguità questa che purtroppo non ha agevolato il mio percorso di madre quando lo diventai a mia volta. La figura materna, nel bene e nel male, domina nella vita delle donne non solo durante l’esistenza comune, ma per sempre la madre resta presenza ingombrante, di nostalgia o di pena, di sentimenti inespressi o insufficientemente chiariti, di mancanza rancorosa o di bisogno d’amore.

Anche la pacificazione è impresa faticosa: e Sonia rende magistralmente questo percorso esistenziale così personale e universale insieme, così sofferto, ma infine liberatorio grazie al potere della parola poetica, che libera chi scrive e chi legge dal contingente ed eleva in qualche modo al rasserenamento olimpico dell’arte (quando arte sussista e ti investa l’animo, come in questo caso avviene).

 

Vi lascio con due poesie conclusive:

 

estraniazione

 

pronuncio il suo nome

nell'aria umida della sera

come se volessi chiamare qualcuno

ma non ne ricordassi il volto

 

ma la potenza dell'aggettivo si perde

l'essenza del verbo è fallace

il sostantivo stesso perde forma

e sviluppa un'idea oscura

a cui non corrisponde

nulla

 

*

sopravvivere

 

invenzione

è un respiro ritrovato

nel coraggio dell'ignavia

tra pensieri palombari

incagliati nell'apnea

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