foto di Dino Ignani |
In questo caso, in particolare, si tratta di autrice che considero molto non solo sul piano professionale, ma in primo luogo umano e di una prefatrice cui sono legata da un rapporto di ‘idem sentire’: per questi motivi, dico, mi sembra il caso di esprimermi familiarmente esternando con semplicità le mie sensazioni di lettrice. Del resto, com’è noto, io non sono un critico letterario di professione e spero mi vengano perdonate pertanto eventuali ingenuità. Nella poesia inoltre le emozioni, cronologicamente, prevalgono sulle riflessioni dell’intelletto, che arrivano in successione, in tempi anche lunghi e talora tendono persino a condizionare il fattore emotivo e a modificarlo, alla luce di un pensiero più coordinato e organico dello slancio del cuore.
Il Taccuino della madre è la storia di due donne, madre e figlia, due solitudini, due sofferenze, due incapacità di comprendersi, due amori malati. Mauriac scrisse un testo, Amarsi male com’è tradotto in italiano, Les mal aimés in francese, che io lessi da ragazzina e questo lancinante titolo, nelle due lingue, si attagliò spesso alle vicende della mia vita, così come mi pare alla vita di Sonia.
Riporto qualche testo di straziante bellezza:
ricordi d’infanzia
gli altri bambini scendevano a giocare sulla spiaggia
i pomeriggi risuonavano di grida e tonfi di pallone
quante facce li osservavano da queste bianche mura
ecco il cobalto vagare nel vago ricordo del mare
nuvole d'ebano e cenere sulle loro mani sporche
sulla rotondità perfetta e nuda della terra
rimanevo in casa a guardarli senza invidia
dallo spiraglio australe della finestra spalancata
non ci si può aspettare altro che uno sguardo passeggero
non c'è rimasto altro che un fotogramma sbiadito
non anelavo certo al calore della sabbia
non all'asprezza infetta delle ginocchia sbucciate
desideravo alle mie spalle soltanto le carezze
che priva d'interesse mia madre non mi dava
*
passeggiata sulla spiaggia
la risacca schiuma
la sabbia sospesa
cade giù
sbatte storto verso l'acqua
e vaga correndo
guardo mia madre perdersi nel sole
certi scafi le giacciono accanto
come cose morte riposano
il suo pensiero vola
accompagna un gabbiano
che richiama la compagna
col suo ignaro stridore
mentre io son qui, giaccio sul molo
col mio costumino a fiori
a cui ha tolto il pezzo di sopra
la vedo allontanarsi
e come quel gabbiano, io la chiamo
e urlo, e mi dispero
finché una nebbia non nasconde quel volo
e ognuno è con se stesso, quasi vuoto
e ognuno è con se stesso, solo
Poi, percorso fatale nella vita dei genitori, la malattia grave, tentativi di convalescenza, speranze vane, la fine:
convalescenza
oggi ricerca l'apatia delle mattine a letto
quando il tempo è convenzione e l'orologio è lontano
a due metri da lei abbandonato sul tavolo
due metri nell'eterno che dura un solo attimo
*
speranza
e rinnega l'attimo
in cui dispera
con questo tempo per nemico
di vani giorni daltonici
quando la luce si nasconde
dietro le persiane della speranza
*
nel buio
ora nel buio
tutto cambia in oro
baluginano i fosfeni
sulla calotta delle palpebre
la veglio nelle ultime notti
lei urla strozzando il respiro
la volta del soffitto
scurisce in un vago richiamo
l'insonnia mi volta lo sguardo
la vedo, lei è sveglia con me
due occhi rivelatori
che cercano sull'orologio
un ultimo istante concesso
per darsi una tregua dal pianto
ora nel buio
tutto cambia in nero
non so quanto ancora rimanga
per potermi dire con te
Mi pare di intuire che in queste poesie la morte non sia divisione, separazione eterna, ma forse momento determinante di comprensione. Si sanano gli opposti. Due solitudini, sempre più sole nell’addio terreno, si uniscono in una congiuntura che, reale o illusoria, in qualche modo pacifica, permettendo alla figlia che resta di andare avanti e realizzare se stessa anche in nome di quella madre, assente, sfuggente, dolorante, di certo irrealizzata, che ha causato tanto dolore, forse senza neppure rendersene del tutto conto.
Forse il rapporto tra madre e figlia non è mai un idillio, quasi sempre è lunga, sconosciuta epopea: talora assume i toni di moderna tragedia greca, in cui però lo spettatore – qui lettore – vede, come nell’antichità, la ‘figura’ del proprio percorso umano; si ritrova appieno e il coinvolgimento totale porta alla catarsi e ad una forma di rasserenamento non solo del presente, ma di tutto il percorso a due che viene finalmente ad assumere un senso compiuto e può persino aprirsi a una diversa prospettiva di pensiero. Non è questione di comprensione per ciò che è stato né di perdono, ma la presa d’atto finale di due vicende umane che portano chi resta a fare i conti con sé e col proprio passato, oltre alla consapevolezza che si è la persona che si è diventati proprio attraverso gli eventi dolorosi del vissuto e degli scogli superati con lacrime e sangue. Raramente mi è capitato di sentire così profondamente un libro sul rapporto madre-figlia, di ‘patirlo’ nel senso greco della parola, come mi è avvenuto per questo Taccuino. Eppure molti sono i libri di poesia editi, negli ultimi tempi, sull’argomento.
Magica Sonia!
All’intensità del suo pensiero e del suo sentire corrisponde la magia della parola e lo strabiliante uso di essa. Rara prerogativa. Non mi è capitato recentemente di imbattermi in uno stile tanto personale. Non direi ‘immaginifico’, perché non è solo questione di immagini, è di più. È quando l’immagine, resa in una parola adeguata, accostata magari ad un’altra di massimo valore semantico, riesce a penetrarti dentro creando non un’immagine, appunto, ma un fiorire di sentimenti e una realtà globale di figure e poi di pensieri che emergono dalla parola stessa.
Cinzia Marulli parla giustamente di parola nuda, perché è la parola giusta, inequivocabile e nello stesso tempo evocativa, creativa, quella ‘unica’ che determina nel modo più preciso (significato), quella stessa che suggestiona con i riferimenti più vaghi, immateriali e inconsci (significante). La parola che fa dire a Giovanni Tesio, docente all’Università di Torino e saggista:
La parola non è solo veicolo di contenuto e di senso, ma ha natura di scatola sonora, tessuto iridescente di suoni. La parola poetica viene a contare di più per i suoi valori evocativi e allusivi legati al suono, entro cui si creano nuovi significati supplementari che non per la sua corrispondenza con la cosa che designa.
La parola del testo poetico non rimanda più semplicemente alla realtà di cui si fa veicolo e portavoce, ma assume un valore in sé.
… Il testo poetico ha valore per se stesso, per la musica che crea e per i significati che da essa scaturiscono, inediti e moltiplicati.
[Giovanni Tesio, I più amati, Interlinea 2012]
A questo punto forse io non parlerei di parola nuda, ma di parola dalla cui unicità rampolla quella miriade di significati, di riferimenti, di quadri inaspettati, che erano già insiti nel termine lessicale stesso, ma come in potenza, non in atto, inanimati senza la forza creatrice del poeta. Il termine nudo mi evoca, per personale difetto caratteriale probabilmente, un ‘nudo e crudo’ essenziale, esatto, ma riduttivo rispetto al caleidoscopio magico che la parola, usata dall’artista riesce a suscitare in un animo ricettivo.
Forse sono questioni di lana caprina, ma se vi ho insistito è unicamente per far comprendere quale risonanza questo volumetto e la sua prefazione abbiano avuto in me. Sicuramente la mia reattività è causata anche dall’ambivalenza di un contrastato rapporto con la figura materna da figlia, ambiguità questa che purtroppo non ha agevolato il mio percorso di madre quando lo diventai a mia volta. La figura materna, nel bene e nel male, domina nella vita delle donne non solo durante l’esistenza comune, ma per sempre la madre resta presenza ingombrante, di nostalgia o di pena, di sentimenti inespressi o insufficientemente chiariti, di mancanza rancorosa o di bisogno d’amore.
Anche la pacificazione è impresa faticosa: e Sonia rende magistralmente questo percorso esistenziale così personale e universale insieme, così sofferto, ma infine liberatorio grazie al potere della parola poetica, che libera chi scrive e chi legge dal contingente ed eleva in qualche modo al rasserenamento olimpico dell’arte (quando arte sussista e ti investa l’animo, come in questo caso avviene).
Vi lascio con due poesie conclusive:
estraniazione
pronuncio il suo nome
nell'aria umida della sera
come se volessi chiamare qualcuno
ma non ne ricordassi il volto
ma la potenza dell'aggettivo si perde
l'essenza del verbo è fallace
il sostantivo stesso perde forma
e sviluppa un'idea oscura
a cui non corrisponde
nulla
*
sopravvivere
invenzione
è un respiro ritrovato
nel coraggio dell'ignavia
tra pensieri palombari
incagliati nell'apnea
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