venerdì 11 ottobre 2019

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Angela Suppo, Senza indicazione di Tempo (Ed. La Vita Felice 2019)


Adolescenza
 
Come è audace
il papavero
che, a marzo, alza la testa!

Adolescente impudente,
frettoloso di vita,
inquieta il prato
di primavera.

***

Le rane di primavera

Le rane fornicatrici
delle notti di primavera
annunciano la loro stagione.

Anche per noi:
inteneriti ascoltiamo,
nel quieto delle coperte,
uniti dal nostro autunno.

***

Montegrazie respira
dietro le porte.
Verdi come pensieri,
freschi di alberi e sole.

Montegrazie invecchia
i suoi vecchi e stupisce di bambini.

Montegrazie mi regala
chiarore di aria e di foglie.

Innamorata mi affaccio:
creature vegetali, e il mio geco,
guizzanti pennellate di verde su verde,
si illuminano al sole.

***

Lascia crescere la cicoria:
non darmi foglie ignave
e piccolette,
ma il crocchio vegetale
che sai,
e olio e aceto e sale.

Dammi il tepore
della terra nuova,
e in campi girasoli
che il caldo innamora,
e abbatte di desiderio.

Dammi terra matura
e campi di silenzio, e alberi lontani
per ascoltare il vento.

***

Separazione

Te ne sei andato.

Le tue cose raccolte dal cassetto,
nelle valigie delle vacanze,
(più non saranno:
bagagli e luoghi diversi –  io spero –
ci attendono).

Dopo ho spostato il tavolo,
le sedie.
Dopo ho spostato mobili
e disappeso quadri.

Potrei, oggi, rivoltare la casa,
come se anche la mia anima,
leggera, componibile,
io potessi rovesciare,
e cancellare,
e cancellarti.

***

Storia di luglio

In quella città – diceva –
¬abbiamo camminato
sotto portici e logge,
e conversato, la sera,
tra bicchieri, scoppi di risa,
frammenti di pensieri.

Ci bastava tacere
per seguire il sentiero
della mente dell'altro,
e consentire ai confini
datati di una storia,
già tutta affidata alla memoria,
in uno scatto di fotografia,
senza diritto alla malinconia.

***

Ex

Come amante sei stato
il solito pretesto sbagliato,
per dire che non va.

Un uomo scelto a caso,
forse desiderato
per sfida e farsi male.

Come amante
non certo dei migliori,
avaro di fiori
e di parole,
prodigo solo di gambe
sotto i tavoli.


Oggi vi presento alcune poesie di Angela Suppo, tratte dal suo primo libro Senza indicazione di tempo, Edizioni La vita felice 2019.
E’ il canto libero, senza condizionamenti, senza appartenenza, di chi con sguardo poetico ed attento considera le esperienze vissute in una parte considerevole della vita con l’occhio equilibrato di chi è già andato oltre, superando gli scogli dolorosi del tempo e parla quindi a se stessa ed agli altri cogliendo, senza più acrimonia ma con saggezza ed armonia, spesso addirittura con stupore bambino, i giochi della vita e la sconcertante epopea di tutti noi che svolgiamo un percorso del vivere più o meno analogo seppur variabile negli eventi spiccioli delle diverse vicende.
Ma il tempo di Angela non è solo soggettivo, anche se molta parte ha quello della sua prima giovinezza, delle scoperte, della natura con cui imbastisce accordi affettuosi, di cui ama investigare la vita segreta al fine di percepirne, o almeno intuirne, l’essenza. Le risposte arrivano da anima ad anima attraverso la misteriosa corrispondenza panica insita nelle creature, in tutte, siano esse vegetali od animali, o anche appartenenti a mondi solo apparentemente amorfi e senza storia come il mondo delle cose, degli oggetti.
C’è poi il tempo del ricordo, quello dolce e quello amaro, quello dell’autocritica, quello dell’ironia sugli altri e su noi stessi. C’è il momento in cui disseppelliamo i nostri fantasmi, c’è quello in cui ci ritroviamo altro da noi perché i decenni passati ci hanno mutato dentro e fuori e soffriamo quindi di questo mancato riconoscimento di noi stessi; altri momenti viceversa in cui quasi anacronisticamente ci riscopriamo magicamente identici al noi di vari decenni prima, come non ci fossimo mai mossi dall’adolescenza, con la stessa indistruttibile passione di agire, di sentire, di amare, di godere la vita e ci sentiamo padroni, col mondo in pugno come allora, in preda ad un sentimento di onnipotenza per ricchezza di emozioni e di passioni uguali come un tempo.
Tutti questi momenti di tempo esistenziale trovano spazio nelle poesie di Angela, ma c’è anche in lei un estrinsecarsi diverso del concetto di tempo.  C’è infatti il tempo come entità metafisica, quello che non ha bisogno del controllo dell’orologio, c’è la ricerca di un’eternità possibile, c’è il tempo dilatato della preghiera nella realtà di un Dio che non risponde ma la cui presenza si ricerca e che continua ad aleggiare senza preclusione di tempo, senza valutazione di ore, mesi, anni o vita intera. E’ la ricerca di un senso ultimo, la risposta a dubbi che durano da sempre, cui forse non c’è risposta mai, logicamente parlando. Ma c’è anche la stagione metereologica che si eternizza al di là del trascorrere del mese, dell’anno in corso: “il papavero audace, adolescente, impudente che a marzo alza la testa”, come dicono i versi, vivrà per sempre, per tutti i mesi di marzo possibili, a venire, nella mente del lettore, evocando altri quadri di incanto e altre suggestioni antropomorfe, così come le “rane fornicatrici” vivranno ben al di là della loro vita limitata in quello stagno, in quel serbatoio d’acqua, in quel momento storico preciso ed ormai andato e consumato. E’ la bacchetta magica della poesia, quella del poeta rabdomante che anima le cose  insufflandovi la vita e spariglia le carte della logica perché esiste un sapere intuitivo ed emozionale.
Angela Suppo vivifica il mondo intorno a sé con la sua arte e mette in pratica, in modo quanto mai contemporaneo, l’assunto del poeta tedesco dell’Ottocento Joseph von Eichendorff. Lui era un romantico, Angela certo che no, però l’effetto della poesia era quello e resta quello. Diceva von Eichendorff in una sua poesia:

Dorme un canto in ogni cosa
destinata a sognare senza fine
se trovi la magia della parola
il mondo allora innalzerà il suo canto

Angela la magia della parola la conosce bene: rende il ricordo realtà attuale e, viceversa, riempie la realtà di elementi immaginifici, talora onirici, misteriosi, sfuggenti, sempre comunque intriganti.

Ma di cosa è fatta la poesia di Angela, quale la sua cifra caratteristica? L’ha ben individuata la prefazione del poeta Giuseppe Conte, che con il suo acume e la grande esperienza poetica ha colto nella “grazia” dell’autrice la peculiarità determinante il percorso poetico del libro. Sono del tutto d’accordo: la musicalità, il ritmo scandito, l’originalità delle figure, i registri linguistici sono di raro equilibrio: non una parola disturbante, non un termine lessicale che possa essere privo di garbo, signorilità, che rasenti qualcosa di dozzinale, che si avvicini alla banalità, quando non alla volgarità, dei tempi. E’ poesia raffinata e sapiente, giocata però su un linguaggio lapidario e contemporaneo, su figure di bellezza ardita ma in un dire essenziale, sempre estremamente sintetico, preciso – “giusto” avrebbe detto Flaubert – sempre alla ricerca della parola unica, pregnante al massimo. E’ difficile ottenere in questa forma così stringata una tale capacità di evocazione, di suggestione del lettore che aggiunge di suo le immagini proprie, ricordi a ricordi, il cumulo e l’accumulo delle proprie fantasie. E il lettore si appropria del testo e lo fa suo: la fulmineità e l’arditezza entrano nel cuore di chi legge con totale ed immediata autenticità.
Il bello di questa poesia è che nessuno può mettere in dubbio la sincerità del sentire di Angela. Lei scrive per comunicare se stessa, mettendo a nudo, anche talora coraggiosamente, il suo modo di essere vitale, schietta, talora con un briciolo di sensualità e di provocatorietà, a suo modo fanciullescamente innocente. E anche qui è questione di “grazia”, lo capite bene.
A proposito di quanto detto, noterete anche voi dalla lettura dei testi la varietà delle sfaccettature di questa poesia, la mutevolezza e la ricchezza dei registri stilistici. L’autrice, abbiamo convenuto, è gentile nel suo approccio col mondo, elegante, raffinata, misurata lessicalmente e stilisticamente, ma talora è più che ironica, è mordace, persino caustica, assai vicina al sarcasmo. Il tutto sempre in brevi, lapidari versi.
La scelta dei testi che vi propongo può risultare disorientante per chi legge: è concepita proprio perché tocchiate con mano la varietà delle atmosfere che l’autrice riesce a creare, mutando quasi di personalità. Ma nessuno di noi è uniforme, sempre identico a se stesso nel variare continuo del tempo, delle circostanze, dei rapporti col mondo e con le cose. Questo è il fascino della persona umana e del fluire della vita fin dai tempi di Eraclito e del suo “panta rei”.

In una precedente lettura condivisa proponevo un testo di Giuseppe Conte sostenendo che la poesia, quando è autentica, lascia un solco destinato a dare frutti in avvenire tramite altra futura poesia. Si costituisce così un anello basilare nella circolarità di un ritorno di riferimenti culturali ed umani che legano passato  e presente letterario.
Ebbene Angela Suppo porta avanti nei suoi versi, a parer mio, l’atmosfera affettiva colloquiale del migliore Attilio Bertolucci, ma anche la verve ironica, di lapidaria attualità, di Daria Menicanti, poetessa della metà del Novecento, in quest’ultimo decennio riscoperta e profondamente rivalutata. Mi piace dunque avvicinare alle letture di Angela di Montegrazie respira e di Lascia crescere la cicoria il testo di Attilio Bertolucci che vi riporto qui di seguito:

                                              
At home

Il sole lentamente si sposta
sulla nostra vita, sulla paziente
storia dei giorni che un mite
calore accende, d'affetti e di memorie.

A quest'ora meridiana
lo spaniel invecchia sul mattone
tiepido, il tuo cappello di paglia
s'allontana nell'ombra della casa.

Affianco anche a Separazione, Storia di luglio ed Ex di Angela i seguenti versi di Daria Menicanti:               
A Venezia con uno

… Questa
era Venezia quel giorno, città
per innamorati e poeti. Io non ero
né l’una cosa né l’altra
o non più.
Ero spietata e asciutta. Gli ridevo
in faccia
e tutto mi faceva ira.

***
                                              
Vivere è

Vivere è non sapere le ragioni.
Dopo un silenzio da contarsi a mesi
o anni, questa sera
ho una cena ridente affollata.
Al vino amaro si riscalda, a belle
donne, alle rose alte la cena.
Seduta accanto a lui, commensale adulato,
mi sento al sole. Affilo le mie spade
per la prima apertura di guardia.
Vivere è tutti i giorni cominciare.

                                               ***
                                              
Ultimo

Qualcuno va a nozze. Gran gente
al party. Io so che anche tu
ci sei che neppure ti cerco.
Giro di gruppo in gruppo ridendo
evitando tartine aperitivi.
Sono sicura che a un momento dato
mi sarai accanto tu denso tu oscuro
uomo solo e roccioso
col bicchiere gelato color erbe.
un veleno di più. Da ieri
so come sei e tu come sono io
e c'è questo fra noi filo non visto
così tiepido e dolce, tranquillo.
Io ti prendo con gli occhi. ti chiudo
dentro le palpebre e, Dio,
grazie per quest'ultimo amore.

E’ un suggerimento all’analisi e alla libera riflessione di chi voglia condividere questa rubrica con me. I legami e le interrelazioni tra poeti del passato e del presente si moltiplicano in un tempo di lettura che viene ad eternarsi nell’incantamento dell’arte.






martedì 17 settembre 2019

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Lucianna Argentino, Il volo dell’allodola, Edizioni Segno 2019


Lucianna Argentino
Riprendo oggi a scrivere per la rubrica Letture condivise, dopo la pausa estiva, con un difficile, bellissimo testo della poetessa romana Lucianna Argentino, già autrice di mirabili volumi di versi; in particolare voglio qui ricordare L’ospite indocile, Passigli 2012 e Le stanze inquiete, La vita felice 2016.
Parlo di lei oggi, ritemprata da un periodo di vacanza lungo, ottimistico e gioioso perché, diversamente, in altri momenti non avrei cuore di affrontare un libro problematico che mi ha posto di fronte alla mia inadeguatezza in senso professionale, umano, poetico, teologico, trattandosi di un testo con forti addentellati religiosi. Ma non potevo salvarmi con la fuga ed evitare vigliaccamente di parlarvene. E’ un testo di rara difficoltà ma anche di eccezionale bellezza poetica, di particolare profondità spirituale, con ventaglio aperto a trecentosessanta gradi su problematiche esistenziali presenti in ogni tempo, ad ogni latitudine umana, che esulano quindi dalla problematica primaria, che è quella di presentare in forma di poemetto tre pagine note del Vecchio e del Nuovo Testamento. Dalla Genesi la vicenda di Caino e di Abele, dai Vangeli gli episodi della Samaritana e della Emorroissa.
Il taglio che intendo proporvi oggi non è tuttavia quello specificamente teologico-religioso. Pur essendo discretamente formata in questo ambito, non sento di possedere una approfondita preparazione specifica né penso, come vi accennavo poc’anzi, che sia questa la chiave necessaria per entrare nel testo, bensì quella di problematiche più genericamente umane, come la ricerca del senso dell’esistere, l’esplorazione di noi stessi, la creazione di nuovi cammini di vita insospettabili perché, come dice l’autrice, “noi siamo e possiamo di più di quanto crediamo”.
Questo libro si intitola Il volo dell’allodola, l’uccello che Shelley canta come spirito di gioia:

percorri con l'ali l'infinito azzurro,
ti levi nell'aria cantando,
e librandoti alta ancora canti.

Altezza, vette, cielo, elevazione metafisica, Dio: ecco i passaggi e le mete e poi, arrivati a Dio, la citazione di Simone Weil: “l’unico rapporto di Dio con il mondo consiste nella possibilità che il soprannaturale esista nel mondo, in un’anima umana”.
Se questo è l’inizio nonché la visione programmatica di Lucianna Argentino c’è di che far tremare le vene ai polsi ad una persona semplice come me, attratta come ogni anima dal divino, ma soffocata (anche felicemente, va detto) dall’umano.
A mia discolpa faccio mie le parole del pittore del primo Novecento Juan Gris scritte al poeta Huidobro, che gli aveva dedicato il volume Poesie artiche senza averne in cambio un cenno tangibile di apprezzamento: “è troppo bello per me, non riesco a penetrarlo”. Così è per me per Il volo dell’allodola.
Limitando forzatamente il campo di indagine ad un’unica sezione dell’opera, vi lascerò quindi qualche spunto di riflessione per una ricerca personale, evitando ogni discorso di Fede e di culto cristiano, ma fermandomi – se così possiamo dire – ad un discorso di religione naturale, di civismo, di umanità, cose quanto mai necessarie in quest’ultimo nostro periodo storico. Ovviamente, per la mia natura e per i miei interessi, la prima attenzione sarà rivolta alla poesia: alla compiutezza del discorso poetico, alla capacità compositiva e stilistica, all’equilibrio dei versi, al clima di pathos e di bellezza che l’autrice riesce a suscitare, ma soprattutto trasferire, al lettore. Io ne sono uscita alleggerita, quasi rigenerata.

Ho scelto di non parlarvi del primo poemetto, Abele, in quanto ripubblicazione di un testo già precedentemente edito, Edizioni Le gemme 2015. Propongo invece una parte del testo È questa l’ora sull’episodio, dal Vangelo di Giovanni, della Samaritana, la donna che al pozzo di Sicar su richiesta di uno straniero assetato, Gesù, e nonostante i disaccordi tra le due nazionalità dei Samaritani e Giudei, gli offre l’acqua da bere senza immaginare che così salverà la sua vita, avendo in cambio un’acqua che non si corromperà, la fede purificatrice e la vita eterna.
Vi propongo un passo in cui la donna ricorda le speranze dell’infanzia, la discriminazione femminile in una società di disuguali, le disillusioni della vita e dell’amore, l’autoconfessione della sua solitudine infinita, la sua insoddisfazione ad insufficienti risposte esistenziali nel silenzio della notte immensa della Palestina, dilatato scenario del vuoto interiore della creatura umana,. Il brano è già molto vasto. Ho scelto quindi di arrestarmi prima del clou dell’episodio, a quel “dammi da bere, mi chiese”, che segna l’inizio primo del brano evangelico, del resto noto nel suo sviluppo. Il poemetto è splendido e non vi mancherà quindi lo stimolo a proseguire la lettura.
Mi è sembrato più importante proporvi l’acuta indagine psicologica sulla pena umana della Samaritana, in quanto resa in maniera tale, poetica e realistica insieme, da riuscire ad essere condivisa da qualsiasi lettore: ma vado oltre la condivisione, direi di più: si crea magistralmente il coinvolgimento emotivo, la compassione, nel senso del patire insieme, del vivere le stesse emozioni, del ritrovare vitali in noi gli stessi sentimenti del personaggio. E quindi non sussiste qui solo il capire, ma il sentire, e in questo sentire all’unisono scoprire meglio chi siamo, qual è la strada che vogliamo percorrere per essere quello che vorremmo diventare per noi stessi e per gli altri. Magicamente l’autrice realizza la funzione non solo estetica, ma quella etica, dell’Arte.

Poi mio padre morì e fu il buio.
Non intonai più canti e compiuti tredici anni
mio fratello mi diede in sposa.
La mia vita si rovesciò e caddi nel vuoto arido
che a poco a poco era diventata.
Persi anche Dio. Quel Dio a cui assieme alle preghiere
affidavo i miei sogni, si fece lontano e muto,
annegò nella mia sete.
Fu allora che scoprii la solitudine.
Giorno dopo giorno smisi di amarmi.
Mi disabitai.
Nido senza la covata. Promessa non mantenuta.
Ripudiata. Inadempiente e inadempiuta.
Questa ero.
L'inganno fu un riverbero negli occhi, si solidificò il cuore
come il cielo qui pietra dura e senza grazia
che a guardarlo fa male.
Ruvido come i monti Gerizim ed Ebal
in cui l'azzurro si incunea
simile a un terzo monte rovesciato,
la cima conficcata nella terra.
Raccolsi il passato, spiga dopo spiga,
ne feci pane per l'avvenire.
Mi illusi di poter placare la mia fame.
Ero stata amata, avevo amato, avevo creduto di poter essere
amata ancora.
Mi ebbero corpi senza carne né anima, braccia senza il vuoto
necessario all'abbraccio,
parole senza silenzio — dure e impermeabili
mi lapidavano dentro.
La notte mi regalavo tempo, sedevo accanto al fico
e guardavo il cielo,
in realtà me ne nutrivo, me ne dissetavo.
Quel cielo che di giorno sentivo ostile e lontano
la notte s'addolciva, si faceva fragile e pietoso,
commosso forse da quanto il sole gli aveva mostrato:
la solitudine e il dolore di tutte le creature terrestri.
Preferivo le notti senza luna quando le stelle
si adagiavano sul mio grembo
e ci consolavamo strette nelle stesse distanze.
Il loro tremolio vibrava di mistero, quello stesso mistero che
sentivo in me
e a cui non sapevo dare un nome.
A volte un piccolo roditore frusciava tra l'erba
interrompendo i miei pensieri.
Lo vedevo fermarsi, annusare l'aria e poi correre via e sparire
nel buio.
Avrei voluto sparire anch'io, dissolvermi nella notte,
eppure amavo la vita, ma mi sfuggiva,
non ero capace di farne qualcosa
perché non m'apparteneva.
Era un perenne crepuscolo di luce arresa, immobile
come le grandi pozzanghere dove da bambini,
io e i miei fratelli facevamo navigare le foglie.
E come quelle foglie navigavo senza remi sulla superficie
della mia esistenza,
non ne ascoltavo più la voce. L'avevo messa a tacere.
La mia anima era deserta e vuota come la Terra
prima della Creazione.
      Dammi da bere, mi chiese  


Dopo questa lettura credo ci sia ben poco da aggiungere: la poesia parla da sé.
Voglio solo farvi notare la pregnanza lessicale delle parole usate dall’autrice. Sono “giuste”, nessuna di troppo, essenziali. Notate il ritmo di musicalità lenta, solenne, l’autoconfessione è di creatura stanca, ferita, disillusa, appassita anzitempo e l’andamento del verso rende alla perfezione questo clima. Rimane vitale la sua forte spiritualità e l’amore per la natura della donna, che vengono resi dall’accostamento di figure concrete, di termini talmente poeticamente limpidi da diventare ineffabili in prosa o, peggio, rischiano di annullarsi, perdersi con parole prosaiche di spiegazione che elidono, limitano la loro essenzialità e pregnanza.
Io, che sono solita esemplificare a dimostrazione delle mie affermazioni, mi trovo di fronte ad un’ulteriore difficoltà: dovrei riproporvi quasi tutto il testo… Due o tre esempi di perfezione sia semantica sia concettuale e poi mi fermerò su queste frasi chiave:

“giorno dopo giorno smisi di amarmi.
Mi disabitai”

Non è vero che tutti abbiamo vissuto almeno una volta questo vuoto di noi stessi? Come esprimerlo in modo più efficace?
                       
“Raccolsi il passato, spiga dopo spiga,
ne feci pane per l’avvenire.
Mi illusi di poter placare la mia fame.
Ero stata amata, avevo amato, avevo creduto di poter essere
amata ancora”

Vi invito a rileggere anche i versi seguenti – precedentemente riportati nel testo proposto –  di rara intensità… emotiva.
                       
“Preferivo le notti senza luna quando le stelle
si adagiavano sul mio grembo
e ci consolavamo strette nelle stesse distanze”.

Puro lirismo: incantamento, dilatazione dell’anima di chi ha scritto e di chi legge.
Nel momento stesso in cui vi propongo queste citazioni, mi rendo conto che opero un taglio ad una parte precedente o ad un seguito ugualmente preziosi.
È incredibile come io mi veda uscire spiazzata da quest’allodola di Lucianna.
Ma Letture condivise è anche questo. Oggi vi presento i miei limiti. Non tutte le ciambelle mi riescono col buco… mi consolo al pensiero che forse l’idea sono riuscita a renderla comunque…

Marvi del Pozzo