giovedì 19 marzo 2020

Quattro poesie da "Taccuino dell'Urlo" di Sonia Caporossi (Marco Saya Edizioni)


α.

«ho visto l’abisso in un altro
la zona in cui non vuoi stare
si infrange sul muro bagnato
del mare
per tutte le tue sicurezze
insicure
dal limite scabro del luogo
che per coercizione ti ostini a abitare

ho visto il riflesso di un altro
nel sole
nell’ombra di un fiore reciso
che pare
dismesso dall’onda del tempo
che inutile scorre invissuto
e attrae
lo spirito nell’indolenza
pigrizia del dire e del fare

ho visto l’influsso di un altro
sul cuore
che imbelle s’offende al contatto
del dare
respinto da echi ormai spenti
che vacui rinviano parole
d’amore
inascoltate al mittente
per quanto il ritorno alla gioia
si mostri nell’eventuale

ho visto l’ossesso nell’altro
nel dimenticare
quand’anche, sebbene, ancorché
ricordi di lei solo il male
nell’imprecisione coatta
dell’analizzare

ho visto l’abisso di un altro
quel luogo in cui vuoi ancora stare
perché prima o poi, quel poco o quel tanto
almeno, circuìto dal bene
ripenserai il fallimento
e tutte le anemiche colpe
che puoi enumerare
son sempre dell’ego di un altro
nell’ipocrisia
di questo industriarsi a non fare.»

***

VI.

non era tempo.
         non era modo.
non era luogo.
         non era stato
sociale o materiale
         per il contatto.
non era sogno
         che si lasciasse sognare
senza il risveglio.
         non era cibo
che si lasciasse mangiare
         senza il brioschi.
non eran finti
         gli istanti da concepire
«finché poi duri».
         erano puri
gli abbracci delle lenzuola
         quando era sola.
ma era schiavo
         il corpo di quest’urgenza
nella latenza
         di un ritardo in microbyte
d’asincronia.
         «non era mia
ma solo e soltanto sua
         l’appartenenza.»
gomitoli d’incoscienza
         ingarbugliati
come le stringhe dello spazio-tempo
         che perde il senso
per poi ritrovarlo più in là
         nel ritmo postorgasmico del cuore
disperso dove
         del senso ritrovava infine il nesso.
«non c’è dolore
                   se ci riconosciamo nello stesso
   se adesso è tempo, e modo, e luogo
 nell’incostanza stabile del tatto
di disturbare eliot
                                   e l’universo.»

***

X.

«questa città
ormai estranea a sé stessa
ormai vuota d’attrattiva ai miei occhi
che senza te sono freddi
al richiamo delle cose
                       in cui credevamo

questa città di cui domani
dovrei indagare da solo angoli
            di prospettive e vedute
come fossero panorami del mio inconscio
               quello stesso vilipeso
      dall’attacco rabbioso come un cancro
che divora le tue membra, mentre le mie
                   sono già ombra, alito di fiato

questa città – paese, questo posto insicuro
                      questa patria che non vuoi
                                     che non vogliamo
questi vicoli instradati verso il niente
             questo senso che percorre muto
l’andare e venire della mia mediocrità
della tua pretesa di essere in due
                           moltiplicato due più uno
    e che ti porti appresso tutto il passato
       come fossero valigie da fare e disfare
                                           e poi più nulla

questa città protesa verso un futuro
che non ci riguarda se lo pensiamo troppo

questa città che aspetta un nostro gesto
                    per aiutarci a vivere
                come forse già vivevamo

questa città, tre mazzi di chiavi
e un ragazzo in giacca e cravatta
               «ecco l’appartamento»
la casa
                                  la patria
 le giornate radiose di marzo
                    la storia nostra infinita

questa città che è il nostro cuore
la nostra scommessa
                      tradita

***

XVII.

«abbracciarci
             come scatole d’assenza
riconoscerci a distanza
come il fiuto di due cani atemporali
          nella chiusa delle mani
strette tra muretti a secco
è l’ur-madre che ci osserva
          attraverso le vetrate di gesù?
               la traslucida presenza
di due occhi mai smarriti
         come oggetti ritrovati
                   senza essersi mai persi?
come raggi diagonali
                 che si scaldano nel sole?
abitiamo fredde isole redente
          nella quiete
siamo odori che disperdono
          il sapore
delle bocche dello stomaco
due vulcani di lavanda
          vegetale
che si spremono nel succo
          della neve
torno a te nel me che cerchi
         cercami nel tuo rifugio
nell’esatta abnegazione
                  del triangolo del tempo
ti dimentico nel vuoto
                                  intemperante
della cava ormai esaurita
                          di pienezza.
ti ricordo nella forza
         obnubilante
                             dello scavo.»




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