α.
«ho visto l’abisso in un altro
la zona in cui non vuoi stare
si infrange sul muro bagnato
del mare
per tutte le tue sicurezze
insicure
dal limite scabro del luogo
che per coercizione ti ostini a abitare
ho visto il riflesso di un altro
nel sole
nell’ombra di un fiore reciso
che pare
dismesso dall’onda del tempo
e attrae
lo spirito nell’indolenza
pigrizia del dire e del fare
ho visto l’influsso di un altro
sul cuore
che imbelle s’offende al contatto
del dare
respinto da echi ormai spenti
che vacui rinviano parole
d’amore
inascoltate al mittente
per quanto il ritorno alla gioia
si mostri nell’eventuale
ho visto l’ossesso nell’altro
nel dimenticare
quand’anche, sebbene, ancorché
ricordi di lei solo il male
nell’imprecisione coatta
dell’analizzare
ho visto l’abisso di un altro
quel luogo in cui vuoi ancora stare
perché prima o poi, quel poco o quel tanto
almeno, circuìto dal bene
ripenserai il fallimento
e tutte le anemiche colpe
che puoi enumerare
son sempre dell’ego di un altro
nell’ipocrisia
di questo industriarsi a non fare.»
***
VI.
non era tempo.
non era modo.
non era luogo.
non era stato
sociale o materiale
per il contatto.
non era sogno
che si lasciasse sognare
senza il risveglio.
non era cibo
che si lasciasse mangiare
senza il brioschi.
non eran finti
gli istanti da concepire
«finché poi duri».
erano puri
gli abbracci delle lenzuola
quando era sola.
ma era schiavo
il corpo di quest’urgenza
nella latenza
di un ritardo in microbyte
d’asincronia.
«non era mia
ma solo e soltanto sua
l’appartenenza.»
gomitoli d’incoscienza
ingarbugliati
come le stringhe dello
spazio-tempo
che
perde il senso
per poi ritrovarlo più in là
nel ritmo postorgasmico del cuore
disperso dove
del senso ritrovava infine il nesso.
«non c’è dolore
se ci riconosciamo nello stesso
se adesso è tempo, e modo, e luogo
nell’incostanza stabile del tatto
di disturbare eliot
e l’universo.»
***
X.
«questa
città
ormai
estranea a sé stessa
ormai vuota
d’attrattiva ai miei occhi
che senza
te sono freddi
al richiamo
delle cose
in cui credevamo
questa
città di cui domani
dovrei
indagare da solo angoli
di prospettive e vedute
come
fossero panorami del mio inconscio
quello stesso vilipeso
dall’attacco rabbioso come un cancro
che divora
le tue membra, mentre le mie
sono già ombra, alito di
fiato
questa
città – paese, questo posto insicuro
questa patria che non
vuoi
che non
vogliamo
questi
vicoli instradati verso il niente
questo senso che percorre muto
l’andare e
venire della mia mediocrità
della tua
pretesa di essere in due
moltiplicato
due più uno
e che ti porti appresso tutto il passato
come fossero valigie da fare e disfare
e
poi più nulla
questa
città protesa verso un futuro
che non ci
riguarda se lo pensiamo troppo
questa
città che aspetta un nostro gesto
per aiutarci a vivere
come forse già vivevamo
questa
città, tre mazzi di chiavi
e un
ragazzo in giacca e cravatta
«ecco l’appartamento»
la casa
la patria
le giornate radiose di marzo
la
storia nostra infinita
questa
città che è il nostro cuore
la nostra
scommessa
tradita.»
***
XVII.
«abbracciarci
come
scatole d’assenza
riconoscerci a distanza
come il fiuto di due cani atemporali
nella chiusa
delle mani
strette tra muretti a secco
è l’ur-madre che ci osserva
attraverso le
vetrate di gesù?
la traslucida presenza
di due occhi mai smarriti
come oggetti
ritrovati
senza
essersi mai persi?
come raggi diagonali
che si scaldano nel sole?
abitiamo fredde isole redente
nella quiete
siamo odori che disperdono
il sapore
delle bocche dello stomaco
due vulcani di lavanda
vegetale
che si spremono nel succo
della neve
torno a te nel me che cerchi
cercami nel
tuo rifugio
nell’esatta abnegazione
del
triangolo del tempo
ti dimentico nel vuoto
intemperante
della cava ormai esaurita
di pienezza.
ti ricordo nella forza
obnubilante
dello scavo.»
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