foto di Giorgio Bernardinello |
La bellezza di questo libro sta in gran parte nella capacità comunicativa dell’autrice, contagiosa nel suscitare profonde suggestioni emotive, grazie anche alla sua essenza di artista a tutto tondo, proprio in quel campo musicale, pianistico e compositivo di cui la parola poetica è, se non sorella, di certo cugina prima. Per la decisa padronanza di certi strumenti è più facile aiutare la parola a sfuggire alle consuete coordinate di tempo e di spazio verso l’Altro e verso l’Oltre. La poesia di Valentina Colonna mi piace perché sfida il lettore a una interrogazione continua, perché parte da un’esperienza individuale che è solo il punto di avvio di un viaggio generalizzato, in cui tutti ci ritroviamo a fare i conti con noi stessi, il nostro vissuto, le nostre debolezze, le nostre solitudini.
Le mie proposte di lettura esemplificano quanto appena detto e ben qualificano l’autrice come vera musicista della parola, così come è stata definita nella prefazione al volume.
A mia madre
Ti guardo, sai, mentre diffondi la mattina ai fiori
con il tuo spruzzino rosa in una massima concentrazione
Volti in un sorriso (le primule radiose
di baci al davanzale) e appari
bambina lieta dolcissima che muove
nelle stanze il cielo e l'aria. È una corsa rapida
alla porta del balcone: tu sporgi in un baleno
– il tempo di scendere le scale – e agiti le mani
in un continuo salutare. Non ferma il dimenare,
come a toccarmi le spalle sino all'auto, accarezzare.
I tuoi occhi stesi si piantano tra il mio petto e il volante.
All'angolo si svuota un dolore trattenuto di tutta una mancanza.
*
Marzo – oggi torna Natale: dicembre
con la cucina piena, il forno acceso
e la televisione trasmette quel film.
Taglio a fette le mele, la madre mi guarda
e i gatti corrono a sbirciare dal vetro
poi odorare al tagliere il formaggio.
Riconoscersi come l'odore
di pane alla Crocetta camminando.
La neve cambia le forme e non ferma.
Quando ferma si assenta e la pioggia si allarga. Ricompone
l'identità delle cose. Tutto si fa solitudine intera.
Mi piacciono, di questi testi casalinghi, quotidiani, la semplicità delle piccole cose, una minuta felicità, le parole tra noi leggere che definiscono i corsi e i ricorsi sia dei gesti familiari sia di stagioni consuete. Entrambe le cose, gesti umani e calendari, portano con sé oltre alle consuetudini il senso della caducità, della perdita, dell’inconsistenza dello stato di gioia; la sensibilità dell’animo dell’autrice accoglie e dilata queste situazioni in un clima di fatalità (o di fatalismo) elegiaca, non però tormentosa.
Tu sei l'ossigeno del mio andare. Sei stato
il padre dei miei figli mancati e dei ritorni
a casa vivi di vite nuove, progetti in via vai
ridendo. Ogni volta salutarti è la stretta
di pianto, lo schianto al chiudersi delle porte.
L'amore mio che di me ama i sogni.
Il cuore che disegni sul vetro si ripassa
nelle carrozze scomparendo in corsa.
È una condanna questo amarci in Terra
e Cielo. Lui in mezzo ci salva. Esangue, ci comanda.
*
A.V.
Cosa darei per capire cosa dici
quando chiudi gli occhi e mi parli
per minuti lunghi infiniti
aspettando una risposta – che non
saprò darti. Amore soltanto
sa accogliere le nostre
povere parole crocifisse.
Due meravigliose poesie di difficile amore. In particolare della seconda apprezzo la grande capacità di sintesi: in soli sette versi con determinazione dolente vedo delineata l’epopea di una ricercata, impossibile forma di comunicazione tra due personalità dal forte temperamento. L’amore si distrugge anche per incompatibilità di comunicazione tra razionalità e passione. Sono storie di percorsi umani che creano assoluta immedesimazione in chi legge, senza fraintendimenti, a causa di chiarezza estrema del dire, nella perfetta concisione di forma.
Poi dal treno sulla porta non ti sporgi,
dici vai, è ora. Non vuoi
vedermi mentre parti, piuttosto puoi
lasciarmi andare (un altro strappo che ricuce
la mancanza dei passi insieme). Quando insisti
non ho scampo, cammino svelta a testa bassa,
sento addosso l'abbandono: sono l'animale
che perde d'improvviso la sua tana e se volto per cercare
tra i vetri non ti trovo. Lo sai che qui non guardo
e non ti cerco. Mi fingo un solo grande camminare
avanti e indietro, insieme un volare come vicini, come
possibile in questa vita la ricucitura, l'altra casa.
*
Quanti anni ho impiegato per abbandonare
le vite che quotidianamente crescevo.
Quanto tempo speso a diventare altro,
a cercare un ricongiungimento.
Ho dovuto attraversare interminabili confini
per trovare le parole, allargare le braccia a perdere
ciò che amavo, stringere più forte il mondo,
tutto il mare che dentro mi risuonava.
Viaggio e senso di perdita sono ben sintetizzati nella simbologia del treno. È una tematica fissa della nostra memoria collettiva, dal senso di paura e di pena del treno che sferraglia misterioso nella notte (tipico ricordo della mia ormai lontanissima infanzia) fino alla memoria di saluti troppo affrettati alle stazioni: le speranze dell’inconscio in un riavvicinamento verranno eluse, purtroppo, dalle vicende complesse della vita. Non si tratta della perdita necessariamente di innamorati, ma comunque di persone molto care disperse nelle nebbie degli anni e degli eventi. La vita è una costellazione di incontri e di addii; importante è non uscirne sconquassati, il lavorio è quello faticoso (di ogni età) di ricostruirci, giorno dopo giorno, per quello che vogliamo diventare l’indomani: persone nuove, giuste, degne di noi stesse, possibilmente equilibrate proprio in virtù del nostro vissuto che ci ha visto anche sbagliare, ma in scelte non casuali, comunque condotte con responsabilità e coscienza.
In questo vociare di mancanze che affollano
i miei ritorni alle case originarie, alle stanze
vuote di domani, ripasso i discorsi
del mattino a colazione quando insieme ci troviamo
a dividere gli spazi di solitudine assoluta.
Le parole non dette in altre lingue,
sproporzionate per avere continuazione.
È un versare di vini, di quantiere piene.
Sedersi accanto al più vicino degli sconosciuti
e farsi complice, amante. Esiste una forza
improvvisa tra estranei che fa nascere il viaggio,
il sedile di treno, lo spazio pieno sul palco o la pioggia.
Amore stasera aveva più nomi. E tu non sapevi
degli austriaci con gli occhi di ghiaccio, la forma
delle bocche che restano senza baciare
a sorridersi accanto, a raccontarsi quanto
non possono dire. Nei suoni come case
ci incontriamo, come famiglie a trovare
una pace dovunque. Queste sere gli amori
hanno frontiere, un cambio di lingua per tacere.
Ma in corridoio sulla porta voltando a cercare
il vuoto è piombato delle parole, del sole
di quando scoppia il tuo riso e mi guardi.
L'attesa di tutto – ancora l'assenza.
Un domani che si perde nella stanza.
Questa poesia è l’ultima del volume e a buon diritto, perché riepiloga e canta con disincanto (è voluto questo bisticcio di parole!) l’odissea dei viaggi materiali e sentimentali della vita umana. Per l’autrice questa anabasi non ha esito felice. Le parole-chiave di questo canto, razionalmente percorso ad occhi secchi, sono tutte negative, dalle mancanze del primo verso all’assenza della fine. Si ritorna alle stanze vuote, divise in spazi di solitudine assoluta. Si ripercorrono viaggi, memorie, perdute immagini di amori-fantasma che si sovrappongono senza sostanza, senza baciare altri percorsi, altri treni, poi – circolarmente – si ritorna alle case originarie dell’inizio, alle stanze vuote di domani e la fine è
l'attesa di tutto – ancora l'assenza.
Un domani che si perde nella stanza.
A fine percorso del libro ormai una lucida razionalità, senza disperazione.
Marvi del Pozzo
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