venerdì 17 giugno 2022

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: "Stanze di città e altri viaggi" di Valentina Colonna (Nino Aragno Editore 2019)

foto di Giorgio Bernardinello
Come ben conoscono i poeti nel loro percorso di vita e di poesia, la parola è musica. Attraverso i pieni e i vuoti, le pause e i silenzi, le sonorità intrinseche, i fenomeni fonetici e ritmici, il linguaggio riesce ad andare oltre il tessuto semantico del testo: si allargano i confini di possibili significati per il lettore che può spaziare, anch’egli con una certa forma di creatività, al di là del testo attraverso i valori allusivi della parola sonora. Si aprono allora nuovi significati supplementari, proprio quelli che magari, in quel momento preciso, servono al lettore per ottenere risposte a domande che lo hanno spinto a interpellare il testo poetico. Quella parola assume allora un valore in sé e per sé, non è più portavoce di una realtà concretamente oggettiva, ma fa spaziare altrove in sfere più personali e intimamente determinanti.
Dico questo perché nel bel libro di Valentina Colonna, Stanze di città e altri viaggi, Aragno 2019, il termine stanza non delinea il vano, le quattro mura perimetrali di un locale di unità abitativa, ma ci porta ben oltre. Può essere sì, come dice la parola stessa, uno stanziare inteso alla lettera come stare, fermarsi, essere riposto: casa come protezione, nido degli affetti più cari ma, viceversa, può essere il luogo dove più esacerbato si esalta il senso di una solitudine tremenda, di una perdita, di un abbandono, dell’insicurezza o della destabilizzazione di sé. Allora quella stessa stanza può diventare tutt’altro che fonte di statica pace, ma invece squilibrante viaggio alla ricerca di un diverso spazio dell’io. Può originarsi un itinerario faticoso, esistenziale, intorno alle proprie stanze e all’interno della propria interiorità. Inoltre il percorso mobile della memoria facilmente avvicina il viaggio intorno alla propria camera e ad altre camere lontane, come ad altri percorsi di fuga, di cui il treno in partenza si fa simbolo: altri viaggi, altri percorsi felici o ancipiti o decisamente non felici in altre terre, in altre colline – non le proprie – in altri orizzonti fisici e metaforici.

La bellezza di questo libro sta in gran parte nella capacità comunicativa dell’autrice, contagiosa nel suscitare profonde suggestioni emotive, grazie anche alla sua essenza di artista a tutto tondo, proprio in quel campo musicale, pianistico e compositivo di cui la parola poetica è, se non sorella, di certo cugina prima. Per la decisa padronanza di certi strumenti è più facile aiutare la parola a sfuggire alle consuete coordinate di tempo e di spazio verso l’Altro e verso l’Oltre. La poesia di Valentina Colonna mi piace perché sfida il lettore a una interrogazione continua, perché parte da un’esperienza individuale che è solo il punto di avvio di un viaggio generalizzato, in cui tutti ci ritroviamo a fare i conti con noi stessi, il nostro vissuto, le nostre debolezze, le nostre solitudini.

 

Le mie proposte di lettura esemplificano quanto appena detto e ben qualificano l’autrice come vera musicista della parola, così come è stata definita nella prefazione al volume.

 

                        A mia madre

 

Ti guardo, sai, mentre diffondi la mattina ai fiori

con il tuo spruzzino rosa in una massima concentrazione

 Volti in un sorriso (le primule radiose

di baci al davanzale) e appari

bambina lieta dolcissima che muove

nelle stanze il cielo e l'aria. È una corsa rapida

alla porta del balcone: tu sporgi in un baleno

– il tempo di scendere le scale – e agiti le mani

in un continuo salutare. Non ferma il dimenare,

come a toccarmi le spalle sino all'auto, accarezzare.

I tuoi occhi stesi si piantano tra il mio petto e il volante.

All'angolo si svuota un dolore trattenuto di tutta una mancanza.

 

*

Marzo – oggi torna Natale: dicembre

con la cucina piena, il forno acceso

e la televisione trasmette quel film.

 

Taglio a fette le mele, la madre mi guarda

e i gatti corrono a sbirciare dal vetro

poi odorare al tagliere il formaggio.

 

Riconoscersi come l'odore

di pane alla Crocetta camminando.

 

La neve cambia le forme e non ferma.

Quando ferma si assenta e la pioggia si allarga. Ricompone

l'identità delle cose. Tutto si fa solitudine intera.

 

Mi piacciono, di questi testi casalinghi, quotidiani, la semplicità delle piccole cose, una minuta felicità, le parole tra noi leggere che definiscono i corsi e i ricorsi sia dei gesti familiari sia di stagioni consuete. Entrambe le cose, gesti umani e calendari, portano con sé oltre alle consuetudini il senso della caducità, della perdita, dell’inconsistenza dello stato di gioia; la sensibilità dell’animo dell’autrice accoglie e dilata queste situazioni in un clima di fatalità (o di fatalismo) elegiaca, non però tormentosa.

 

Tu sei l'ossigeno del mio andare. Sei stato

il padre dei miei figli mancati e dei ritorni

a casa vivi di vite nuove, progetti in via vai

ridendo. Ogni volta salutarti è la stretta

di pianto, lo schianto al chiudersi delle porte.

L'amore mio che di me ama i sogni.

 

Il cuore che disegni sul vetro si ripassa

nelle carrozze scomparendo in corsa.

È una condanna questo amarci in Terra

e Cielo. Lui in mezzo ci salva. Esangue, ci comanda.

 

*

A.V.

 

Cosa darei per capire cosa dici

quando chiudi gli occhi e mi parli

per minuti lunghi infiniti

aspettando una risposta – che non

saprò darti. Amore soltanto

sa accogliere le nostre

povere parole crocifisse.

 

Due meravigliose poesie di difficile amore. In particolare della seconda apprezzo la grande capacità di sintesi: in soli sette versi con determinazione dolente vedo delineata l’epopea di una ricercata, impossibile forma di comunicazione tra due personalità dal forte temperamento. L’amore si distrugge anche per incompatibilità di comunicazione tra razionalità e passione. Sono storie di percorsi umani che creano assoluta immedesimazione in chi legge, senza fraintendimenti, a causa di chiarezza estrema del dire, nella perfetta concisione di forma.

 

Poi dal treno sulla porta non ti sporgi,

dici vai, è ora. Non vuoi

vedermi mentre parti, piuttosto puoi

lasciarmi andare (un altro strappo che ricuce

la mancanza dei passi insieme). Quando insisti

non ho scampo, cammino svelta a testa bassa,

sento addosso l'abbandono: sono l'animale

che perde d'improvviso la sua tana e se volto per cercare

tra i vetri non ti trovo. Lo sai che qui non guardo

e non ti cerco. Mi fingo un solo grande camminare

avanti e indietro, insieme un volare come vicini, come

possibile in questa vita la ricucitura, l'altra casa.

 

*

Quanti anni ho impiegato per abbandonare

le vite che quotidianamente crescevo.

Quanto tempo speso a diventare altro,

a cercare un ricongiungimento.

Ho dovuto attraversare interminabili confini

per trovare le parole, allargare le braccia a perdere

ciò che amavo, stringere più forte il mondo,

tutto il mare che dentro mi risuonava.

 

Viaggio e senso di perdita sono ben sintetizzati nella simbologia del treno.  È una tematica fissa della nostra memoria collettiva, dal senso di paura e di pena del treno che sferraglia misterioso nella notte (tipico ricordo della mia ormai lontanissima infanzia) fino alla memoria di saluti troppo affrettati alle stazioni: le speranze dell’inconscio in un riavvicinamento verranno eluse, purtroppo, dalle vicende complesse della vita. Non si tratta della perdita necessariamente di innamorati, ma comunque di persone molto care disperse nelle nebbie degli anni e degli eventi. La vita è una costellazione di incontri e di addii; importante è non uscirne sconquassati, il lavorio è quello faticoso (di ogni età) di ricostruirci, giorno dopo giorno, per quello che vogliamo diventare l’indomani: persone nuove, giuste, degne di noi stesse, possibilmente equilibrate proprio in virtù del nostro vissuto che ci ha visto anche sbagliare, ma in scelte non casuali, comunque condotte con responsabilità e coscienza.

 

In questo vociare di mancanze che affollano

i miei ritorni alle case originarie, alle stanze

vuote di domani, ripasso i discorsi

del mattino a colazione  quando insieme ci troviamo

a dividere gli spazi di solitudine assoluta.

 

Le parole non dette in altre lingue,

sproporzionate per avere continuazione.

 

È un versare di vini, di quantiere piene.

Sedersi accanto al più vicino degli sconosciuti

e farsi complice, amante.  Esiste una forza

improvvisa tra estranei che fa nascere il viaggio,

il sedile di treno, lo spazio pieno sul palco o la pioggia.

 

Amore stasera aveva più nomi. E tu non sapevi

degli austriaci con gli occhi di ghiaccio, la forma

delle bocche che restano senza baciare

a sorridersi accanto, a raccontarsi quanto

non possono dire. Nei suoni come case

ci incontriamo, come famiglie a trovare

una pace dovunque. Queste sere gli amori

hanno frontiere, un cambio di lingua per tacere.

Ma in corridoio sulla porta voltando a cercare

il vuoto è piombato delle parole, del sole

di quando scoppia il tuo riso e mi guardi.

 

L'attesa di tutto – ancora l'assenza.

Un domani che si perde nella stanza.

 

Questa poesia è l’ultima del volume e a buon diritto, perché riepiloga e canta con disincanto (è voluto questo bisticcio di parole!) l’odissea dei viaggi materiali e sentimentali della vita umana. Per l’autrice questa anabasi non ha esito felice. Le parole-chiave di questo canto, razionalmente percorso ad occhi secchi, sono tutte negative, dalle mancanze del primo verso all’assenza della fine. Si ritorna alle stanze vuote, divise in spazi di solitudine assoluta. Si ripercorrono viaggi, memorie, perdute immagini di amori-fantasma che si sovrappongono senza sostanza, senza baciare altri percorsi, altri treni, poi – circolarmente – si ritorna alle case originarie dell’inizio, alle stanze vuote di domani e la fine è

                        l'attesa di tutto – ancora l'assenza.

Un domani che si perde nella stanza.

A fine percorso del libro ormai una lucida razionalità, senza disperazione.

 

 

Marvi del Pozzo 

 

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