giovedì 19 marzo 2020

Quattro poesie da "Taccuino dell'Urlo" di Sonia Caporossi (Marco Saya Edizioni)


α.

«ho visto l’abisso in un altro
la zona in cui non vuoi stare
si infrange sul muro bagnato
del mare
per tutte le tue sicurezze
insicure
dal limite scabro del luogo
che per coercizione ti ostini a abitare

ho visto il riflesso di un altro
nel sole
nell’ombra di un fiore reciso
che pare
dismesso dall’onda del tempo
che inutile scorre invissuto
e attrae
lo spirito nell’indolenza
pigrizia del dire e del fare

ho visto l’influsso di un altro
sul cuore
che imbelle s’offende al contatto
del dare
respinto da echi ormai spenti
che vacui rinviano parole
d’amore
inascoltate al mittente
per quanto il ritorno alla gioia
si mostri nell’eventuale

ho visto l’ossesso nell’altro
nel dimenticare
quand’anche, sebbene, ancorché
ricordi di lei solo il male
nell’imprecisione coatta
dell’analizzare

ho visto l’abisso di un altro
quel luogo in cui vuoi ancora stare
perché prima o poi, quel poco o quel tanto
almeno, circuìto dal bene
ripenserai il fallimento
e tutte le anemiche colpe
che puoi enumerare
son sempre dell’ego di un altro
nell’ipocrisia
di questo industriarsi a non fare.»

***

VI.

non era tempo.
         non era modo.
non era luogo.
         non era stato
sociale o materiale
         per il contatto.
non era sogno
         che si lasciasse sognare
senza il risveglio.
         non era cibo
che si lasciasse mangiare
         senza il brioschi.
non eran finti
         gli istanti da concepire
«finché poi duri».
         erano puri
gli abbracci delle lenzuola
         quando era sola.
ma era schiavo
         il corpo di quest’urgenza
nella latenza
         di un ritardo in microbyte
d’asincronia.
         «non era mia
ma solo e soltanto sua
         l’appartenenza.»
gomitoli d’incoscienza
         ingarbugliati
come le stringhe dello spazio-tempo
         che perde il senso
per poi ritrovarlo più in là
         nel ritmo postorgasmico del cuore
disperso dove
         del senso ritrovava infine il nesso.
«non c’è dolore
                   se ci riconosciamo nello stesso
   se adesso è tempo, e modo, e luogo
 nell’incostanza stabile del tatto
di disturbare eliot
                                   e l’universo.»

***

X.

«questa città
ormai estranea a sé stessa
ormai vuota d’attrattiva ai miei occhi
che senza te sono freddi
al richiamo delle cose
                       in cui credevamo

questa città di cui domani
dovrei indagare da solo angoli
            di prospettive e vedute
come fossero panorami del mio inconscio
               quello stesso vilipeso
      dall’attacco rabbioso come un cancro
che divora le tue membra, mentre le mie
                   sono già ombra, alito di fiato

questa città – paese, questo posto insicuro
                      questa patria che non vuoi
                                     che non vogliamo
questi vicoli instradati verso il niente
             questo senso che percorre muto
l’andare e venire della mia mediocrità
della tua pretesa di essere in due
                           moltiplicato due più uno
    e che ti porti appresso tutto il passato
       come fossero valigie da fare e disfare
                                           e poi più nulla

questa città protesa verso un futuro
che non ci riguarda se lo pensiamo troppo

questa città che aspetta un nostro gesto
                    per aiutarci a vivere
                come forse già vivevamo

questa città, tre mazzi di chiavi
e un ragazzo in giacca e cravatta
               «ecco l’appartamento»
la casa
                                  la patria
 le giornate radiose di marzo
                    la storia nostra infinita

questa città che è il nostro cuore
la nostra scommessa
                      tradita

***

XVII.

«abbracciarci
             come scatole d’assenza
riconoscerci a distanza
come il fiuto di due cani atemporali
          nella chiusa delle mani
strette tra muretti a secco
è l’ur-madre che ci osserva
          attraverso le vetrate di gesù?
               la traslucida presenza
di due occhi mai smarriti
         come oggetti ritrovati
                   senza essersi mai persi?
come raggi diagonali
                 che si scaldano nel sole?
abitiamo fredde isole redente
          nella quiete
siamo odori che disperdono
          il sapore
delle bocche dello stomaco
due vulcani di lavanda
          vegetale
che si spremono nel succo
          della neve
torno a te nel me che cerchi
         cercami nel tuo rifugio
nell’esatta abnegazione
                  del triangolo del tempo
ti dimentico nel vuoto
                                  intemperante
della cava ormai esaurita
                          di pienezza.
ti ricordo nella forza
         obnubilante
                             dello scavo.»




domenica 1 marzo 2020

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Lorenzo Poggi tra edito e inedito

Dopo una vita di lavoro giornalistico come caporedattore e poi direttore responsabile di testi di natura tecnica, di organigrammi politico-amministrativi per istituzioni ed Enti locali, Lorenzo Poggi, autore romano, è tornato alla più libera (e liberatoria) attività poetica, passione di tutta la vita. Passione che ora trova compiuta manifestazione in una vena lirica di respiro fantasioso, ma anche concreta, aperta come è ad ogni problematica umana, sia sotto l’aspetto esistenziale, sia sotto quello civile e sociale. È una poesia che conquista il lettore per arditezza di metafore, per immediatezza di immagini (colori, profumi, paesaggi naturali di grande fascino), ma non ci si ferma lì: dall’autore è sempre previsto uno stimolo alla riflessione autonoma del lettore su problematiche che coinvolgono tutti: civili, sociali, di politica mondiale, improrogabilmente dettate dall’attualità, si tratti dell’immigrazione, della sopravvivenza del pianeta, del contenimento responsabile di morbi o malattie.
Il suo più recente libro, pubblicato da La vita felice nel novembre 2019, ha un titolo non certo accattivante e decisamente poco poetico, ma fortemente voluto dall’autore: La nausetudine, cioè l’abitudine alla nausea dei nostri giorni in cui, pur provando questa sgradevole sensazione per la quale in genere non c’è assuefazione, all’opposto invece oggi, purtroppo, si crea abitudine. Ogni aberrazione, ogni crimine della nostra società rischia di scivolarci addosso come olio sul marmo, come fossimo ormai impossibilitati ad ogni reazione, come ogni evento non ci potesse più riguardare da vicino. È un atteggiamento di irresponsabile fatalismo, che porta alla paralisi della coscienza personale di fronte alla vita: ne deriva la pericolosa abitudine di demandare ogni scelta civile ad altri, di cui si può diventare, quasi inconsciamente, gravemente correi. Nella migliore delle ipotesi è la pigrizia mentale ad impedirci la fatica del pensare. La dilagante faciloneria e il presappochismo dei nostri tempi fanno il resto, ottundendo le coscienze tramite proposte di vita e di svago omologate su criteri sempre acritici, sicché l’eventuale fruitore è condotto per mano a seguire pedissequamente nel piccolo o nel grande, per situazioni minime o di grande rilevanza, la scelta più appetibile e facile, o quella di chi si impone gridando più forte o quella che pare, nell’immediato, maggiormente convincente.

È una melma che t’afferra
quando senti sirene cantare
in pozze di fango
lunghe un mare di parole
che servono solo al rumore che fanno

Concordo col grande impegno morale e civile di Lorenzo Poggi, ma io sono, per gusto personale, più vicina ai suoi momenti poetici di incanto lirico, alla vivezza delle sue coloriture, al fascino di immagini naturali animate da grande freschezza creativa. Propongo quindi alcune poesie di vario tipo: in tutte tuttavia la suggestione delle immagini fornisce al lettore un forte spunto di riflessione, senza perdere l’incanto dell’essenza fantasiosa della poesia.

Assente

Ho perso la voglia
di scrivere un fiore
o di scendere in strada.

M’addormento sul tram
anche se solo in sogno
lo prendo.

Mi fermo a guardare
la goccia che scende
impacciata sui vetri.
L’angoscia del vento
il cielo che urla
la rabbia che ha dentro.


La tela di Penelope

Ho sperato tanto
in millenari risvegli
per assaporare le pietre
che sanno di storia.

Ho disegnato invano
nuvole in cielo
per portare acqua
a questa terra senza memoria.

Rimango stupito
difronte a passioni d’un giorno
e dimenticanze di secoli.

Siamo sempre a cucire lo stesso orlo,
è la tela di Penelope la nostra bandiera.


Non si può più giocare

Mi piaceva scherzare col bordo dell'onda
quando si libra nell'aria a fare merletto,
infilare la faccia nel bianco di spuma
e sentire il mare che percorre la schiena.

Non si può più giocare
ora le onde son carezze di morti.

Poiché Poggi vive a tutto tondo la poesia nelle sue giornate e non la relega a luoghi o a ore deputate, mi piace segnalarvi altri due testi, finora inediti, che ha scritto, il primo, di getto in una serata di insonnia e di raccoglimento meditato su se stesso, il secondo riflettendo velocemente dopo una manifestazione popolare di giovani ecologisti. Due testi snelli ed estemporanei perché, come si sa, la poesia non è mestiere ma modo di essere e chi è poeta, lo è in ogni occasione del vivere, Si comunica prima a se stessi, senza pretese letterarie e senza retorica poi, caso mai, agli altri.

Ho perso la voglia
strada facendo
come mani ritorte
in radici di vita
seccate dal vento.

È rimasta, la voglia,
a brandelli nei rovi
a segnare il passaggio
d'una vita di ardori
persi per strada.

*
Lampioni nella notte
fermi e silenti
fanno la guardia al buio
che non allunghi le dita
negli anfratti già scuri
della nostra coscienza.

Che non diventi un galoppo
agitando vessilli
con la testa di morto
per abbuiare il giorno
per abituarci alla morte
delle nostre idee bambine.






Consigli di lettura a cura di Rita Pacilio: febbraio 2020


La terra originale di Eleonora Rimolo – Collana Gialla Lietocolle, 2018
L’abitudine degli occhi di Monica Martinelli – Passigli, 2015
Tutt’altro, dialogando con C.S. di Lina Salvi – Edizioni della Meridiana, 2011
Tra lampi e corti di Adam Vaccaro – Marco Saya Edizioni, 2019
Limite del vero di François Nédel Atèrre – La Vita Felice, 2019
Nella carne e nel sangue rugge una madre di Rossana Oriele Bacchella – La Vita Felice, 2019

Le poesie sono sempre una commistione di luoghi, oggetti, avventure, volti che ci corteggiano, tra passato e presente, sfociando in riferimenti e sensazioni inequivocabili. Con un libro di poesie tra le mani possiamo ri-scrivere sceneggiature complesse in cui umano, visione, realtà e vissuto coincidono perfettamente. Nell’ultimo anno ho fatto fatica a parlare di tutti i libri letti e mi scuso sin da ora per le omissioni, sicuramente non volute. Infatti, non dovrebbe essere messo da parte nessun libro di poesia, soprattutto perché la parola poetica resta l’unico modo e mezzo per avvicinarsi, in maniera autentica, all’emblema del patire dell’uomo. Nella recitazione dei versi che di seguito riporterò, tratti dai libri sopracitati, aleggia la volontà e la necessità di denunciare e/o esaltare, con stupore e ricerca stilistica, la tormentosa incertezza del nostro tempo. Un dramma, una ferita universale che parte dal bisogno di cercare e trovare speranza, refrigerio plausibile di fronte al buio vulnerabile del misero compiacimento o delle tensioni metafisiche. Balenano emblematici significati, germogliano consolazioni e miracoli semantici che strutturano antichi moti dell’anima e identità convulse che sprigionano carica edenica. La poesia appare, dunque, una difesa pensante contro l’ingiusto e l’illusorio urlando e richiamando le coscienze, a volte con prepotenza fervida, a volte con delicatezza dicotomica, alla forza della bellezza pura e nascente, comunque e in ogni dove.
                                                                                                                      Rita Pacilio


Da “La terra originale” di Eleonora Rimolo – Collana Gialla Lietocolle, 2018

Getta le carte vecchie, i vestiti:
nella casa serve più luce, più aria
entrerà dalle fessure attraverso
le tende bianche, quella calda
che asciuga lacrime, vernici.
Serve qualcosa per saldare il vuoto,
una libreria più larga, un complice
che metta in tavola il pane, un figlio
che con tenerezza ti versi l’acqua
lasciando seccare il bucato
sotto la canicola che ci brucia la faccia,
che ci scalda nella bocca la cenere,
briciole amare, ustione di voci.



Da “L’abitudine degli occhi” di Monica Martinelli – Passigli, 2015

Maestranze

Siamo muri surriscaldati
pareti confinanti
separate da spazi siderali.
Ci sfioriamo
a simulare una pena di turno
che ci trattiene in sorvoli d’ansia.
Io ospite sgradita,
paziente come un condannato
ostaggio di vane trattative.
Mucchietto d’ossa rinsecchite
a sbattermi in un coraggio sconosciuto
immerso in calcare di sconfitte.
M’improvviso saltimbanco
tra sobbalzi e respinte.
È un soprassello vertebrale
intriso di commozione.
E le mie vertebre hanno il tuo nome.


Da “Tutt’altro, dialogando con C.S.” di Lina Salvi – Edizioni della Meridiana, 2011

Certe notti le trascorro insonne
visitatori circondano tavoli rotondi,
giunti dal tetro dei portoni
sulla soglia da una luce.

Tempi duri per chi lavora
buttati in uffici sporchi, desolati
torri di carte ci vengono incontro,
personali effetti rinchiusi
in armadi metallici.

Insensata la quantità di parole
che mettono in un progetto.
Ad hoc. To be. In abiti
scuri, da pinguini.

Da “Tra lampi e corti” di Adam Vaccaro – Marco Saya Edizioni, 2019

Tu fiore d’autunno (A Chris)

che non smette di parlare
della primavera, lo sai
che sei un fiore d’autunno
che non smette non smette
di parlare della primavera?
Facendo girare scaldare
il sangue che dal cuore
scioglie la parete di ghiaccio
che veste le vene dell’autunno


Da “Limite del vero” di François Nédel Atèrre – La Vita Felice, 2019

Cortili è la parola, e tu sai dirla,
che rende il luogo com’era, com’è.
Manca, ma è irrilevante, una conferma.
Il marmo che non si può riparare
cede, mi appoggio ai muri con la mano.
Restare qui è fidarsi delle dita.
Porte serrate, quelle che sapevo
sopra le scale, e l’ombra ti allontana.
Grani dall’alto, è la pioggia che arriva
o è solo l’acqua caduta alle piante.
Mi accorgo, intanto, che guardare a lungo
è garantire l’esistenza in vita.


Da “Nella carne e nel sangue rugge una madre” di Rossana Oriele Bacchella – La Vita Felice, 2019

Matrioska

Se pulita ascoltassi
attraverso le pareti del tempo
le voci che sono stata
le radici pescherebbero
dalla terra comune
la linfa per nuove foglie
di stessa fattura
ma più ampia visione.

Si dischiuderebbero
una a una le matrone
simulacro di seme e madre
canestro intrecciato
con giunchi di diverso sapere
legato di futuro.

***

Eleonora Rimolo (Salerno, 1991), laureata in Lettere Classiche e in Filologia Moderna, è dottoranda in Studi Letterari presso l’Università di Salerno. Ha pubblicato il romanzo epistolare Amare le parole (Lite Editions, 2013) e le raccolte poetiche Dell’assenza e della presenza (Matisklo, 2013), La resa dei giorni (Alter Ego, 2015 – Premio Giovani Europa in Versi) e Temeraria gioia (Ladolfi, 2017 – Premio Pascoli “L’ora di Barga”, Premio Civetta di Minerva). Con alcuni inediti ha vinto il Primo Premio Ossi di seppia (Taggia, 2017). È Direttore per la sezione online della rivista Atelier.

Monica Martinelli è nata a Roma e lavora nella Pubblica Amministrazione in un settore economico-finanziario.  Dopo la laurea in Lettere presso l’Università La Sapienza di Roma e un dottorato sui rapporti tra Cina e Unione Europea, ha scritto articoli e recensioni sulla rivista letteraria “Rassegna di letteratura Italiana”.
Nel 2009 ha pubblicato il libro di poesie con prefazione di Walter Mauro dal titolo Poesie ed ombre, Tracce editore. Nel 2011 ha pubblicato Alterni Presagi, Altrimedia editore.  Nel 2015 ha pubblicato L’abitudine degli occhi, Passigli editore. Ha pubblicato poesie sulle riviste “Poeti e Poesia”, “Poesia”, “Orizzonti” e racconti e poesie su varie antologie e blog letterari: ViaDelleBelleDonne, Neobar, La presenza di Erato, L’ombra delle parole, Poetarum Silva. È redattrice della rivista si cultura e letteratura “I Fiori del male”.

Lina Salvi nasce a Torre Annunziata nel 1960 e vive in provincia di Lecco. In poesia ha pubblicato le raccolte Negarsi ad una stella (Olgiate Comasco, 2 Dialogolibri , 2003; con prefazione di Giampiero Neri), Abitare l'imperfetto (Milano, La Vita Felice, 2007); Socialità (Napoli, Edizioni d’if, 2007). Nel 2010, con la raccolta Dialogando con C.S. ha vinto il Premio Sandro Penna per inediti, pubblicata a cura del premio nel 2011 dalle Edizioni della Meridiana di Firenze, con prefazione di Elio Pecora; Lettere dal deserto, con un’incisione di F. Giudici (collana Fiori di Torchio, curata dal Circolo Seregn De la Memoria,  Seregno 2014). E’ presente in diverse rassegne antologiche. Sue poesie sono state tradotte in lingua rumena e pubblicate sulla Rivista Poezia di Bucarest.

Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive da più di 50 anni a Milano. Ha pubblicato varie raccolte di poesie: La vita nonostante, Studio d’Autore, Milano 1978; Strappi e frazioni, Libroitaliano, Ragusa 1997, con prefazione di Giancarlo Majorino; La casa sospesa, Joker, Novi Ligure 2003, con postfazione di Gio Ferri; e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria& Spettacolo, Roma 2006, con prefazione di Dante Maffia. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Ha realizzato inoltre varie pubblicazioni d’arte:, Spazi e tempi del fare, con acrilici di Romolo Calciati e prefazioni di Eleonora Fiorani e Gio Ferri, Studio Karon, Novara 2002; Sontuosi accessi – superbo sole, con disegni di Ibrahim Kodra, Signum edizioni d’arte, Milano 2003; Labirinti e capricci della passione, con acrilici e tecniche miste di Romolo Calciati e prefazione di Mario Lunetta, Milanocosa, Milano 2005; I tempi dell’orsa (2000) e Questo vento (2009) con opere di Salvatore Carbone, Edizioni Foto: Nicola Picchione – Firenze PulcinoElefante. È stato tradotto in spagnolo e in inglese.
Con Giuliano Zosi e altri musicisti, che hanno scritto brani ispirati da sue poesie, ha realizzato concerti di musica e poesia. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti (tra questi Premio Speciale Astrolabio, Pisa 2007, a La piuma e l’artiglio) ed è presente in molti Siti, blog e raccolte antologiche. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001, Premio nel 2001 del Laboratorio delle Arti di Milano, sez. saggistica. È tra i saggisti del Gruppo redazionale che ha curato Sotto la superficie – quaderno di approfondimento sulla poesia contemporanea de “La Mosca di Milano”, Bocca Editori, Milano 2004; e tra gli autori de La poesia e la carne, Edizioni La Vita Felice, Milano 2009.
Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it,), Associazione Culturale con cui ha realizzato numerose iniziative. Tra queste: “Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto”, di cui ha curato con Rosemary L. Porta gli Atti, Milanocosa 2003; “Bunker Poetico” in collaborazione con M. N. Rotelli alla 49a Biennale d’Arte di Venezia, giugno 2001, di cui ha curato con G. Guidetti la raccolta Poesia in azione, Milanocosa, Milano 2002; la 1^ Carovana Nazionale di Poesia e Musica (21-31 marzo 2003), promossa e coordinata con Anna Santoro e Maria Jatosti; evento col patrocinio del presidente della Repubblica e dell’UNESCO in corrispondenza della Giornata Mondiale della Poesia del 2003. Ha curato con F. Squatriti 7 parole del mondo contemporaneo, libro di Poesia, Arti visive, Musica e altre discipline, Milanocosa ed ExCogita, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.

François Nédel Atèrre (pseudonimo di Francesco Terracciano) è nato a Napoli, dove vive e lavora, nel 1967. È laureato in Economia e Commercio. La letteratura, contrappunto alla formazione universitaria e professionale, è costantemente al centro dei suoi interessi: lo studio della poesia europea – del modello italiano, inglese e francese così come delle significative testimonianze russe del Novecento – ha motivato la sua partecipazione a numerose iniziative, mantenendo vivo il contatto con una realtà complessa e in continua evoluzione.
Ha pubblicato una raccolta di poesie, Phonè (1992) e un volume di racconti, Il Salice Bianco (1993), entrambi con lo pseudonimo di Francesco Miti. Numerose le sue collaborazioni con riviste letterarie e le partecipazioni a progetti editoriali, rassegne e seminari.
Del 2018 è la raccolta poetica Mistica del quotidiano, Terra d’Ulivi edizioni.
Nel 2018 una sua poesia è risultata vincitrice al Concorso Nazionale di Poesia “Città di Sant’Anastasia XVI Edizione”.

Rossana Oriele Bacchella nasce a Milano dove tutt’ora vive. È vincitrice di alcuni premi di poesia e presente sulla scena letteraria con vari interventi e letture poetiche. Ha pubblicato la silloge Indizi dalle periferie (Kanga, 2019) e i suoi testi sono presenti in antologie poetiche tra cui: Corpo&Anima (ARPAnet, 2012), Terza e quarta Raccolta Pubblica di Poesia (Tempo diVersi, 2015 e 2016), Veglia 24 agosto 2016 (2016, Antologia Autori per l’Italia a sostegno dei terremotati), Poesia (urgente) per Giulio Regeni (Rayuela, 2018). È tra le ideatrici di “NavigliInVersi”, un collettivo poetico che periodicamente promuove l’omonimo evento.

sabato 1 febbraio 2020

Letture condivise a cura di Marvi del Pozzo: Beccodilepre (Puntoacapo Editrice 2018) di Sergio Gallo


Sergio Gallo, piemontese cinquantenne, farmacista a Savigliano – in provincia di Cuneo – dove vive, ha pubblicato una mezza dozzina di libri di poesie dagli anni novanta ad oggi. L’ultimo è appunto Beccodilepre, per Puntoacapo edizioni nel 2018. Ha partecipato a vari concorsi con lusinghieri successi ed è stato finalista per due anni consecutivi al premio Gozzano.
Perché mi ha colpito questa sua ultima opera? Perché è una raccolta di testi sulla montagna molto suggestiva e di largo interesse: ha un valore poetico, certo, ma anche di conoscenza geografica relativa ad una zona del Piemonte molto particolare ed evocativa, sotto l’aspetto storico, culturale, folcloristico. Insomma, è una terra a sé stante, che non si saprebbe bene come classificare, volendola incasellare.
Ai confini della provincia di Torino verso quella di Cuneo si stendono nobili terre di antica popolazione celto-ligure, poi romanizzata: da un lato ci sono le nobili antiche piazzeforti militari che venivano palleggiate tra i Savoia e la Francia, i cui domini si alternarono fino ai secoli XVII-XVIII: sono appunto Fossano, Bra, Savigliano, Cherasco, Saluzzo. Sono città dalle ricche vestigia, dai palazzi nobiliari, dai monumenti architettonici di rilevanza notevole. Da lì si dipartono le colline del Roero, i vigneti delle Langhe, le torri medioevali di Alba la rossa. Sono le terre di Fenoglio e di Pavese, dolci e malinconiche, spesso tra le brume, quelle brume che sembrano conservarne la fantasmatica presenza.
Dal punto cardinale opposto la cerchia delle montagne dominate dal Monviso, monte quasi sacro, che svetta in lontananza per chi arriva dal mare con la sua forma piramidale, come la Grivola valdostana. Le valli di Cuneo, Val Maira  e Varaita in particolare, come la Via del Sale – da Cuneo oltre il Colle di Tenda – sono proprio diverse dalle valli valdostane. Sono più basse le montagne, in primo luogo, hanno quindi una flora ed una fauna più variata: si trovano specie di uccelli rari, insetti inesistenti in Val d’Aosta, maggiori fioriture anche in alta montagna. Paesaggio più allettante, ma uguali pericoli, forse maggiori per l’orografia, il tipo di roccia, la mutevolezza del clima, ghiacci  e slavine sottovalutati perché non si arriva ai quattromila metri. Qui nel Medioevo dalla Provenza giunsero i Trovatori, qui i Catari eretici perseguitati, qui i Protestanti, Valdesi ed Ugonotti. Qui la lingua occitana esiste ancora con le sue musiche, danze, con le antiche canzoni popolari, con le leggende di montagna, con le Masche (le anime dei morti o le streghe). Nel Cuneese, nelle sue valli montane, le incantatrici si trasformavano, per agire indisturbate, in uccelli rapaci o semplicemente in gatti. Ancora oggi tra Barolo e l’Alta Langa, i turisti vengono accompagnati tra vigneti e misteri. Io sono molto legata alla montagna della Valle d’Aosta, mio marito è valdostano. Ma è una montagna chiara, leale, di grandiosità sconcertante e talora spaventosa ma, come dire, senza mistero. Questa montagna piemontese è arcana, magica, complessa. Difficilmente la comprendi: la sua ambiguità, il suo sincretismo ti catturano e ti fanno capire tutta l’impossibilità di coglierne l’essenza.

E veniamo quindi alla resa di questa complessa entità nella poesia del suo cantore Sergio Gallo.
L’ascesa è fisica e metafisica attraverso sentieri contorti (difficoltà reale), ruderi militari (i secoli trascorsi lasciano segni), ma il salire metafisico è fatto di nevai immacolati, silenzi… fitte nebbie, di venti sferzanti, nubi barocche… Il mistero intrigante di un oltre da raggiungere, sfida dell’uomo con sé stesso:

Lento faticoso inerpicarsi
in ambienti pascolivi, su sentieri
contorti, antiche mulattiere.

Luoghi di baite, ruderi, militari
fortezze. D'ostinati nevai
silenzi... Fitte nebbie.

Regno di venti sferzanti,
nubi barocche. Di luci
accecanti e fredde ombre.

E poi le leggende arcaiche, da medioevali bestiari – la visionarietà della troppa ossigenazione    Esiste l’auricorno, lo stambecco dalle corna d’oro, che pare d’incontrare tra un Eden di animali?

Luoghi di sconfinate solitudini,
d'incontri inattesi.
Rauco ciarlare di taccole,
gracchi, corvi imperiali.

Il grido stridente del falco pellegrino,
il querulo richiamo dell'astore,
i versi del gipeto e della poiana.

Luoghi di sconfinate solitudini…

La natura montana ribalta le situazioni della vita: l’ospite è l’uomo nel regno impervio vegetale ed animale. Anche le cappellette votive, create dall’uomo, non sono che abitate da lui saltuariamente, per il tempo di un’escursione; sono invece quotidianamente ricetto di piccoli animali: ragni, insetti, topi, uccelletti. Il ribaltamento dei ruoli in questo Deserto verticale

Gli occhi neri vitrei del topo
che a tremila metri nella cappella
di Nostra Signora Addolorata

in cima al Thabor,
dietro un grosso pane
raffermo guardavano...

L'abbacinante ostinata coltre
di nuvole a negarci il panorama...
Lunari aspetti d'un deserto verticale.

Centimetro per centimetro
attraverso le strettoie d'un labirinto
in cerca di bucce, torsoli, croste

rosicchiare ex-voto, crocifissi
madonne... in attesa di avanzi
d'altri generosi visitatori.

Un’ultima poesia, estremamente suggestiva, dedicata al poeta Beppe Mariano, anche lui cantore da sempre della montagna incantata che è il Monviso, dei suoi paesaggi, delle sue leggende magiche, dei suoi misteri:

                                   Il paese sommerso
a Beppe Mariano

Se mi chiedono dove sono nato
indico un punto preciso
là in mezzo al lago.
Quando tra il '38 e il '42 fu costruita la diga
e riempito d'acqua l'invaso, ero bambino.
Là c'era la borgata sommersa di Chiesa.
La parrocchiale, un piccolo cimitero,
poche case dai tetti a lose.
Se ne possono ancora vedere
affiorare i resti,
quando il livello delle acque
cala, in primavera.
Tra melmosi fondali
e cristalline acque di nevai,
della mia infanzia sono sepolti
i più bei ricordi.

Ma alla mia età, le memorie
sono ormai morene,
d'orditura le usurate travi.
I sogni –  fulgidi e aleatori –
 ­come cascate di ghiaccio.
E così, quando la vecchiaia
mi diverrà insopportabile,
è là che, nottetempo, andrò a morire,
seguendo la pesante ancora di ghisa
della mia piccola barca.
I paesani ancora a chiedersi
a che diavolo può servire
ad un folle vecchio di montagna
un simile oggetto. Ed io già
avrò per tomba quindici milioni
di metri cubi d'acqua.

Quel dì, semplicemente
si fermerà
l'ombra dello gnomone
sulla mia meridiana.

Sul Mongioia, sul Peyron, sulla Niera
sulla ripida via per i Laghi Blu,
una torretta votiva
forse porterà il mio nome.

E quando la masca Smeraldina
nel bosco dell'Alevè
libererà il mio spirito al vento,

non udirete che un fievole fischio
nei vostri orecchi foderati
d'agarico e muschio.

Mi rendo conto di avere parlato oggi più dell’ambiente evocato dalla poesia che della poesia stessa. È vero, ma i versi sono così diretti nella loro linearità, così forti nella loro capacità di colpire il lettore e fargli vivere la concretezza della situazione, che passa per me in secondo piano l’esigenza di analizzare il testo scomponendolo nei suoi elementi portanti. Equivarrebbe a sminuirlo e far perdere al lettore l’armonia dell’insieme, sottolineando particolari irrilevanti, anzi addirittura controproducenti in quanto distraenti dalla completezza dell’immagine evocata con grande forza emotiva.
Gli elementi costitutivi della composizione sono di per sé ridotti all’essenziale, nella loro semplicità di grande impatto visivo. Immagine segue immagine, senza superflui termini di collegamento che appesantirebbero il testo, facendo perdere forza ed efficacia. L’impatto risulta notevolmente vivo. Intendo rispettare questa struttura felice, non casuale ma fortemente voluta – a mio avviso – dall’autore, con le mie riflessioni tese a mantenere, senza troppe parole superflue, lo sguardo sull’ambiente e sui luoghi profondamente amati e vissuti.
                                                                                             
Marvi del Pozzo