Nel romanzo Il doppio regno, Paola
Capriolo fa scrivere all'io narrante, in un diario scritto in un misterioso
albergo nel quale si ritrova (accolta? prigioniera? di sé oppure di 'altre
forze'?) queste parole: «A volte scrivo poesie sulla carta da lettere dell’albergo,
ma è una definizione impropria: sono quasi sempre coppie di parole che per
qualche ragione mi sembrano “far rima” tra loro. L’ultima ad esempio è composta
di due soli versi, il primo verso è “ferita”, il secondo “miracolo”. Sono certa
che esiste una lingua nella quale si può passare dall’uno all’altro termine,
con la semplice aggiunta di una lettera, tuttavia non so perché queste due
parole e il loro strano legame mi appaiano così gravidi di significato.»
Questa lingua così distante eppure così
vicina, "la lingua lontana" di Alessandro Brusa, nella quale la
parola "ferita" si discosta dalla parola “miracolo” semplicemente in
virtù dell'aggiunta di una lettera finale, è la lingua tedesca, e il prodigio,
fonte di stupore, avviene con le parole "Wunde" e "Wunder".
Perché questa premessa? Perché leggo In
tagli rapidi di Alessandro Jacopo Brusa come compiuta realizzazione di una
architettura poetica le cui fondamenta stanno nel cozzo e nell'incontro
lacerante e prodigioso di questi due principi: il vulnus perpetrato, ripetuto,
innanzitutto sul corpo e il cammino (passo costante, incursione di 'pontiere')
nel mondo del meraviglioso.
Lo attestano, come ben scrive Fabio
Michieli nella prefazione, le antitesi ripetute, lo attestano quei versi
scritti nella carne, tatuaggi e scalfitture sulla pelle, mirabili sintesi di
lacerazione e intuizione («dolore scorsoio») lo attestano, ancora, quei
richiami a miraggi, illuminazioni e squarci nel deserto, nonché i richiami non
solo biblici, ma anche al mondo incantato eppure di primordiale crudeltà e di
successiva “Zerrissenheit" – “travaglio interiore” che è stato
precedentemente «lo strappo/ che tra le scapole/ toglie vertigine/ ad ogni
altezza». Una antitesi-sintesi che va dalle fiabe popolari raccolte dai fratelli
Grimm al pure ottocentesco e ancora modernissimo vagare senz'ombra del Peter
Schlemihl («all’ombra che non ho») di Chamisso, dei cui mirabili stivali,
trovati a portare conforto con l’esplorazione della natura a un’esistenza di
perenne emarginazione, privata dell’ombra, si trova una chiara eco in un felice
ossimoro: «ma io dormirò sereno/ perché lui mi stringe in/ distanza di sette
leghe.»
La prima poesia della prima delle cinque
sezioni che compongono la raccolta – Il vento che insegue veloce, Il tempo che
abitiamo in punta, Il taglio nel legno, Nel nome del figlio, E giriamo in
cerchio di amanti – è un efficace esempio del ritmo sostenuto e della
versificazione qui adottata da Brusa, che individua in questo libro la terza
tappa, quella conclusiva, di un percorso iniziato con il romanzo Il Cobra e la
Farfalla e proseguito con i testi poetici di La raccolta del sale. Essa può
essere interpretata altresì come dichiarazione e tributo alla scaturigine e
alle intenzioni del moto poetico: «D’uso io annuso l’aria che tira/ : perché ho
memoria/ perché ricordo ogni emozione/ che porti/ perché scandaglio la storia/
ed ogni tua percezione/ e scatto come grilletto/ cercando lo scontro/ o
cercando la fuga». L’affermazione dal sapore evangelico contenuta nei versi
dello stesso componimento che seguono quelli citati, vale a dire «non sono nata
per le cose del mondo», è insieme fieramente consapevole e sofferta e segna la
presa di distanza – non a caso “distanza” è termine di evidente ricorrenza
nella raccolta – da ciò che, tuttavia, è oggetto di vivida, profetica, e in
quanto tale dolorosa percezione.
Non stupisce, pertanto, che sia
l’ossimoro a sostenere frequentemente l’impalcatura del testo poetico,
accompagnata dall’incalzare della fuga, intesa qui come composizione musicale e
realizzata con rime interne e passaggi per cambi di vocale: «mi definisco per
sottrazione/ per ciò che aggiungo/ all’ombra che non ho/ e d’ambra opaca/ tengo
nelle viscere la mano/ che tua mi spande».
Di musicalità che rende lo strazio –
quasi che l’archetto dello strumento si trasformi in punta acuminata e la cassa
armonica si faccia legno da incidere – testimonia tutta la raccolta, con una
sezione tra le cinque a fungere da dominante. Si tratta proprio della sezione
centrale, Il taglio nel legno, nella quale ogni testo è stato composto in
sintonia con una composizione musicale di cui Brusa riporta il titolo in
chiusura. La poesia si misura qui con brani di Brahms, Bach («In su la nota un
pezzo/ - tenuto, e corda -/ il taglio nel legno/ e la lima stesa/ lo porgono a
me/ che sospeso lo tengo/fitto»), Mahler, Marais, Vivaldi, Pergolesi,
Šostakovič. I Kindertotenlieder di Mahler sono l’annuncio e il controcanto a
questi versi: «Scale appese/ al grave crescere e salire/ di un dolore piccolo,/
pronunciato nel tempo/ che neve, separa/ dal sole a ponente.»
Altra musica risuona nei testi della
sezione In nome del figlio, forse quella della PFM in Lettera al padre, dove
pure, come avviene qui, i ruoli di padre e figlio vengono mescolati, rimandati
uno all’altro, ribaltati: «Di questa nascita/ riempio il tempo/ che io solo
conosco/ e incammino sulle/ tue incertezze». Alessandro Brusa è figlio di un
poeta, Maurizio Brusa, come ricorda Marco Simonelli nella postfazione. Chi
scrive ha pianto la morte improvvisa, a breve distanza da quella del di lui
padre Omero, di Maurizio Brusa, poeta elegante e schivo, defilato e incisivo.
Chi scrive si sofferma sui versi di Alessandro Brusa e pensa a questioni aperte
e punti fermi. Resta aperta, intenzionalmente, la domanda circa il destinatario
di questi versi: «hai smarrito la parola/ ed il tuo verso/ che di obbedienza/
hai perduto.» Resta ferma, invece, la dedizione completa, di spirito e corpo,
alla resa nel testo: «Di questo corpo ho fatto testo/ se del tuo corpo tengo il
segno/ che di quella nascita mi ha fatto.»
Anna Maria Curci
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