‘: si va per
tentativi aritmetici
soppesati la sera
prima di
addormentarsi’
(G. Vetromile, Il lato basso del quadrato, pag.79)
Nella narrazione psicoanalitica, si
dice che l’oggetto da perseguire non sia tanto quello che rientra nel
linguaggio, quanto ciò che da questo ne rimane escluso.
Trovo tale definizione adattabile
anche al linguaggio poetico che, perseguendo l’innominabile, si inerpica lungo
i condotti ventrali di una lingua imperfetta, quindi mai esaustiva nell’esprimere
il ‘tutto’, almeno nella direzione che il poeta ricerca.
Percorrendo questi sentieri, infatti,
ci si imbatte in continue fratture, in vicoli ciechi; cesure tra il significato e il significante
che il filosofo Giorgio Agàmben definisce ‘snodi’ che conducono da una lingua a
un’altra. Tanto è vero che si diventa poeti per dire quello che in altro modo
sarebbe difficile esprimere - forse impossibile - grazie anche alla
traduzione-trasposizione – poesia è comunque traduzione – e alla possibilità di
ribaltamento di registro e di piani di significazione; grazie e in virtù di uno
slittamento di livello - dovuti anche all’uso di figure retoriche- che solo
l’arte e la poesia, per ambizione libertaria e per un mandato preciso di
svincolamento dall’ordinario, possono concedere.
Ma tale libertà espressiva, per quanto
pirotecnica e immaginifica, nella traduzione del suo compiersi, - nel suo farsi
‘carne e sangue’, come dice il Vasari a proposito della pittura eretica di
Piero della Francesca – tale libertà espressiva, dicevo, nel poeta non potrà mai sottrarsi alla
finitezza della materia e all’imperfezione della parola: limiti dettati da un
imprescindibile principio di realtà con cui l’artista deve necessariamente misurarsi
per poter realizzare la sua opera. Si cede quindi qualcosa del progetto
originario (o del sogno), e si acquista qualche altra in termini di creazione
sul piano della realtà. E’ esattamente da questo momento che l’opera diventa
autonoma per acquisire un’identità tutta sua, a volte sorprendente persino per
lo stesso autore.
E Giuseppe Vetromile, poeta, si
colloca in una posizione di un realismo raro e disarmante, aderente alla terra,
avendo ben presente che tali limiti appartengono esattamente a tutti gli esseri
viventi, situando in tal modo l’elemento umano non in posizione egemonica o
antropocentrica - molto lontana, anzi antitetica è infatti l’idea di dominio su
chicchessia- ma pari a un filo d’erba o
a un coleottero, se non altro per destino, ma forse anche per scelta,
situandosi nella parte bassa (forse la più viscerale?) di un’ipotetica finestra (quadrata). In ogni caso parallelo alla terra.
E tali limiti Giuseppe li dichiara con
umiltà quasi mistica, direi francescana, con quella sobrietà e quel certo
distacco che il caso, nella sua posizione geografica (già il Sud! ma a Sud di
cosa?) gli conferisce.
Lo fa chiaramente, onestamente, senza
infingimenti esornativi, già nel titolo
e nell’ introduzione che lui scrive per il suo libro – [...] Partire da costituenti minimi, da geometrie
di base, da sottili lati fortemente aderenti alla terra [...] - , ma anche in alcuni versi, in cui viene citata
la concretezza della materia:
[...]
Perduti noi siamo mia cara
nelle viscere della materia
Cantare al cielo non serve
non serve il nostro sbattere d’elitre
fasulle
[...]
La geometria piana dunque, e più
genericamente intesa, una visione scientifica della materia che ci rende corpi proiettati
nello spazio, (forse ologrammi mescolati alla ‘stessa sostanza dei sogni’),
sono il leit motiv, il filo rosso che
ci guida tra i versi, ed è ciò che intride e pervade il discorso lirico di
Giuseppe Vetromile nel suo poema, alto per forma e per intenti, ma che non
rifugge da una certa sfumatura intimista – commoventi i testi dedicati alla
madre e al padre - , e un certo tono colloquiale, dovuto all’intercalare
ricorrente con cui si rivolge a una ascoltatrice ideale, appellandola
affettuosamente con ‘mia cara’; un
interporre quasi anaforico che rende il dettato poetico ancor più catturante,
originale anche per l’uso dei due punti
collocati all’inizio del verso.
E l’uso della metafora geometrica,
attinente alla formazione culturale del nostro poeta, in effetti, si giustifica
ricordando l’etimologia della parola stessa che deriva dal greco antico γή =
‘terra’ e μετρία, metria = ‘misura’, e pur evitando di citare
importanti pensatori dell’antichità a tal proposito, comprendiamo appieno
l’accezione filosofica del termine e il portato simbolico su cui si fonda la
felice l’intuizione lirica e direi tutto l’assioma poetico di Giuseppe
Vetromile.
Ciò anche a sfatare il persistente
pregiudizio di un antagonismo, anzi addirittura di una incompatibilità, tra la
visione poetica del mondo, che si vuole per ignoranza e pregiudizio, più
romantica ed evanescente, contro un presupposto rigore della geometria e dei
numeri più in generale, che in quanto tali, dovrebbero essere più credibili
rispetto alla prima. Ma, e chiedo, esattamente in virtù di cosa?
Per ciò che mi compete, visto e
appurato l’uso manipolativo delle cifre quanto delle parole, agilmente
sorvolerei su tale infondato stereotipo, comprendendo in un unico orizzonte
l’imprescindibile dialettica tra pittura e filosofia, matematica e poesia,
scienza e arte, in passato tutt’altro che disgiunti, senza preclusioni di
sorta, poiché è proprio la letteratura stessa a parlarci spesso di scienza,
interrogandosi, proprio come il nostro poeta, sulla condizione umana e sul
senso della nostra postura nel cosmo.
Anzi, in questo caso è il poeta a
denunciare la fallacità della scienza, avvisandoci quasi alla maniera di Dostoevskij,
che la ragione non è tutto e non soddisfa completamente, non basta, e la geometria con i suoi teoremi,
o la matematica con i suoi numeri, non spiegano, perché non sono in grado di
spiegare: Da questa casa pitagorica non sfuggirò/ che al declino dei numeri
totali/.quando avrò reso le mie cose al mondo/ e sarò sogno di me stesso/in
cammino tra le stelle/ (pag.18).
E nei versi del nostro poeta, la vita è
rappresentata ossimoricamente come un ‘cerchio’ tutt’altro che perfetto, anzi
‘ambiguo’, con tutte le manifestazioni dell’esistere, l’affanno del vivere, le
illusioni (pag. 22):
Ho con me una tabella
Non entra la ragione in questo breve
spazio di luce
cunicolo tra una preghiera e un altro
affanno
non entra l’evidenza del teorema
euclideo
nel cerchio ambiguo della vita
: da una morte non si ricava
l’equazione del cosmo
e il sogno continua all’infinito
come sparlando di questa verità di
bocca in bocca
Ho con me una tabella
mia cara
per calcolarmi i passi esatti lungo il
crinale
e lo sbattere giusto delle ali
verso il cielo
: così almeno l’illusione è perfetta
quanto la felicità di un’addizione
ma è tutto vano
: ho compreso il gioco della materia
in questi laterizi abbandonati
nessun grido nessuno dolore
: il paese finto giace
sotto gli occhi stupefatti
e continuiamo mia cara a credere
che tutto stia solo ora
a iniziare
Un poeta, quindi, è tale se è
portatore di una visione del mondo, di un suo specifico originale punto di
vista e su di sé assume, poeticamente parlando, le conseguenze di tale visione.
Parlo della responsabilità della parola e della soglia verso cui, il poeta
conduce i suoi lettori.
Giuseppe Vetromile, come dicevo, si
dichiara da subito con la sua ‘poesia onesta’
(pag.9):
Geometrie spurie
la parte bassa del quadrato è un lato
sottilissimo
umile
inerte
e sta fermo dall’eternità della legge
a sorreggere le sorti della buona
geometria
laddove
per ‘buona geometria’, si legga una possibile vivibile traduzione di senso dello
stare al mondo, ma anche – e siamo al topos poetico – l’andarsene da questo
mondo (pag.71):
[...]
Dove andrò la casa sarà memoria d’aria
e d’ombra
e sarò scritto col dito di Dio sulla
faccia della terra:
di me più nulla eppure in ogni dove
combacerò perfettamente a tutto
l’orizzonte
e così via fino al bellissimo testo
sul fabbricato Esse che chiude il poema
sulla inesauribile circolarità che alterna la vita alla morte, e viceversa, o
se si vuole, tra l’entrare e l’uscire dal mondo.
In uno splendido dramma dedicato a
Galileo, in cui la diatriba, visti i
tempi, si gioca tra religione e scienza,
ma il paragone calza benissimo anche con la poesia, Bertolt Brecht fa dire al
fisico e astronomo del ‘500 : ‘Rimetteremo tutto in dubbio [...] Quello che troviamo oggi, domani lo
cancelleremo dalla lavagna e non lo scriveremo più, a meno che posdomani, lo ritroviamo
un’altra volta. Se qualche scoperta seconderà le nostre previsioni, la
considereremo con particolare diffidenza. [...] E solo quando avremo fallito,
quando, battuti senza speranza, saremo ridotti a leccarci le ferite, allora,
con la morte nell’anima cominceremo a domandarci se per caso non avevamo
ragione.’
Stefania Di Lino
Davvero onorato di ricevere da Stefania Di Lino questa recensione critica molto accurata al mio recente libro "Il lato basso del quadrato", che rappresenta un po' la sintesi progressiva della mia ricerca poetica e del mio interrogarmi sul senso della vita di fronte all'ineluttabilità della fine: traguardare un possibile orizzonte spirituale trascendente partendo dal "basso" materiale e naturale della quotidianità. Bisogna essere in buona sintonia con la persona/poeta e conoscere bene la "summa" della sua produzione e del suo pensiero, per poter avvicinarsi, criticamente, al suo dettato e alle sue costruzioni poetiche, e Stefania Di Lino è senz'altro in grado di farlo! La ringrazio quindi ancora, con affetto e stima, come ringrazio la carissima e brava Cinzia Marulli per lo spazio letterario che mette a disposizione per noi poeti sensibili e attenti a tutto quello che ci circonda.
RispondiEliminaGiuseppe Vetromile